di Aldo Viola
Nel 1961 Franz Fanon pubblicò un saggio intitolato “I dannati della terra”. Con questo terribile termine il rivoluzionario terzomondista connotava la condizione di quanti erano sottoposti alla violenza coloniale delle potenze imperialiste. Il testo diventò uno dei punti di riferimento del movimento anticolonialista e antirazzista, che si manteneva appunto sulla pelle di quella parte di umanità sfruttata, ridotta appunto alla condizione di dannati. Certo il libro di Fanon incitava alla rivolta ed alla reazione, anche violenta, contro il terribile dominio di quell’Europa che ai suoi occhi appariva come la quintessenza del dominio imperialista, la metafora di tutti gli stati che hanno costruito la loro ricchezza su un mix di violenza brutale, razzismo, politica di rapina e sfruttamento ai danni delle periferie del mondo.
Molte cose sono cambiate da quel lontano inizio degli anni 60: si è dipanata una storia aspra, intessuta di speranze e lotte, vittorie parziali ma anche pesanti sconfitte, e arretramenti, cambiamenti profondi, che hanno sconvolto gerarchie, frantumato certezze, visto crollare imperi e sistemi, sotto il segno dell’emergere del capitalismo mondializzato. La globalizzazione ha avuto ed ha ancora effetti dirompenti: unificando il mondo sotto il diktat dei mercati, o meglio dei ristretti gruppi di capitale finanziarizzato e speculativo che impongono i propri interessi, universalizzando l’espropriazione del 90% della popolazione di diritti, dignità, potere e poteri, cultura. Ha espropriato lo stato di molti poteri, con il diffondersi di leges mercatorie mette in discussione lo stesso monopolio statale della legge, per impedire interventi regolatori e redistributivi, ha concentrato il 90% della ricchezza nelle mani di un’esigua minoranza, ha reintrodotto stagnazione e nuova povertà anche nel cuore del sistema.La crisi in cui versa il nostro paese può essere capita nella sua profondità e affrontata con speranze di successo solo se collocata entro la sismica riorganizzazione dei poteri entro un mondo unificato eppure lacerato da conflitti senza esclusione di colpi.
Ma, nonostante le trionfalistiche dichiarazioni alla Fukuyama dopo il seppellimento del sistema del socialismo reale, la storia non è affatto finita. Al dominio unico dell’Occidente si è sostituito un policentrismo neoimperialista: il mostro Europa, evocato da Fanon, ha trovato nuovi e forse più potenti competitori, tanto che Samir Amin ha potuto avanzare l’ipotesi di un nuovo spostamento delle lancette della storia verso Oriente. In questa lotta senza quartiere l’Italia gioca il ruolo del vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro: i dannati della terra comincia ad averli in casa in numero sempre geometricamente crescente: sono i disoccupati, gli inoccupati, quelli che perdono la speranza e la voglia di lottare, sono le donne costrette a subire una violenza dilagante, sono i malati sempre meno assistiti, sono quelli che quotidianamente perdono diritti, travolti dalla dilagante corruzione, dal progressivo smantellamento del sistema del welfare. La crisi del nostro paese ha origini lontane, carattere strutturale e natura insieme politica economico-sociale e culturale.
Per capirne la natura bisogna risalire alla violenta reazione al progetto innovativo che stava realizzandosi negli anni sessanta e settanta e alla lotta contro il progetto riformatore incarnato da Berlinguer e da Moro. Contro l’avanzante Italia dei Diritti si è scatenata la reazione del “ capitalismo dei disastri”: stragismo e P2, compenetrazione tra potere politico e gruppi affaristici e anche criminali, abbandono di serie politiche riformatrici e coinvolgimento compartecipativo dei sindacati e delle forze d’opposizione ( per chiarezza ricordo la dura battaglia di Trentin contro la perdita di identità del sindacato impaniato nella cogestione del sistema che si andava costruendo). La combinazione di minacce e violenza e di allettamenti e subalterna compartecipazione alla gestione ha segnato la vicenda politica italiana raggiungendo l’acme nel ventennio berlusconiano.
La crisi mondiale della “shock economy”, per riprendere l’espressione della Klein, ha pesato in maniera dirompente proprio sul nostro debole sistema fino a determinare il rischio incombente di un tracollo definitivo né si vedono possibili vie d’uscita serie e immediate per l’assenza di una proposta riformatrice unificante capace perciò in grado di tradursi in politiche del cambiamento. Le elezioni e il dopo elezioni stanno dimostrando che ad una destra che con aggressiva lucidità persegue e porta alle sue estreme conseguenze il disegno piduista di disfarsi di ogni traccia di democrazia progressiva fa riscontro una sinistra divisa incapace di delineare un proprio progetto, ricattata dai potenti consociativisti interni, incapace di proporre quelle alternative che appaiono necessarie.
Tali difficoltà hanno una radice strutturale: la crisi e la globalizzazione hanno travolto i due pilastri su cui si era retta la scelta riformista incentrata su politiche redistributrici: il potere dello stato di intervenire a regolare i conflitti e la possibilità di rendere le classi subalterne in qualche misura compartecipi alla suddivisione del surplus ottenuto dallo sfruttamento delle periferie. Oggi siamo all’attacco finale: cambiare la costituzione, ridurre gli spazi di democrazia partecipata, concentrare il comando nel comitato d’affari del capitale finanziario. Le cosiddette larghe intese oggi con una destra aggressiva, spregiudicata ed un centrosinistra debole, diviso senza orizzonti che vadano oltre vecchio orizzonte dell’assistenzialismo non hanno niente da spartire con il compromesso riformatore che faticosamente si stava realizzando in Italia. I ceti subalterni sono disaggregati, non hanno più punti di riferimento teorico in un universo politico liquido che impedisce la formazione di un’intelligenza collettiva.
Ma se crisi vuol dire capacità di scegliere, di trovare nuove soluzioni, aprire innovativi percorsi, risolvere contraddizioni acute, garantire la piena attuazione della Costituzione, allora si tratta di ricostruire un movimento di popolo in grado di pronunciare discorsi di verità ( com’è pensabile continuare a tollerare il segreto di stato sul fiume di sangue, violenza, compromessi, corruzione che hanno segnato la disastrosa deriva dell’Italia), riappropriarsi di una storia che è la storia della stessa democrazia e trarre da essa la forza per rielaborare nella nuova temperie mondiale i valori, le categorie, le passioni che sono bussola indispensabile per affrontare le contraddizioni del presente; si tratta, qui ed ora, di ridare vigore alle politiche di riunificazione territoriale, senza le quali è vano pensare di poter sottrarre intere regioni e sempre più larghi settori della politica e dell’economia al controllo mafioso; è necessario fondare una politica mediterranea non più neocoloniale ma di riunificazione di popoli uguali che si saldano i un processo di crescita comune e compatibile. Come tante altre volte nella storia il nostro paese può svolgere un ruolo pioneristico ponendosi come punto di raccordo tra i movimenti che agitano il mondo mediterraneo e spingendo l’Europa a compiere scelte riformatrici e di ascolto della voce dei dannati della terra. Il mondo mediterraneo è agitato da movimenti per la democrazia: si annuncia una bellissima giornata.