Sono arrivato a Mongiana, piccolo centro delle Serre vibonesi, di domenica. Poca gente in giro, bell’aria, un’atmosfera rilassante.
– Scusi, per il museo?
– Sempre giù, poi la prima a sinistra e ti trovi nella “piazza”.
Niente di più facile, in un borgo di appena 700 abitanti, dove un’unica via si frappone tra due nastri di case a due piani, costruite con una regolarità sorprendente. Erano le abitazioni degli operai della ferriera, aventi tutte la stessa caratteristica: al piano terra un soggiorno-pranzo e una cucina, a quello superiore due stanze da letto. “Urbanistica senza architetti” si è detto. Ed in effetti è proprio così.
– Di qua, di qua…
In fondo al corso un signore anziano, senza che gli avessi chiesto alcunché, mi fa cenno di proseguire per una strada da poco pavimentata con sampietrini: dove potevano andare dei forestieri se non al museo della ferriera? Mongiana e le ferriere borboniche, un binomio inscindibile.
Arrivo nella piazzetta. E appena parcheggiata l’auto gli occhi mi vanno sul cartello toponomastico apposto in bella mostra sulla parete dell’edificio prospiciente il museo: “Piazza Regina Elena”. Regina Elena? Ma si, proprio lei, Elena di Savoia, principessa del Montenegro, consorte di Vittorio Emanuele III.
Caspita, mi sono detto: proprio questa piazza dovevano intitolare ad un membro della Casa Reale sabauda? Quando si dice vae victis..
Il Museo Reali Ferriere Borboniche, da poco inaugurato, è stato ricavato nelle stanze che un tempo ospitavano la famosa fabbrica d’armi di Mongiana, impiantata nel 1813 e ricostruita, potenziandola, nel 1852, dopo l’alluvione che due anni prima l’aveva letteralmente distrutta. Nella fabbrica si producevano armi bianche e da sparo di notevole fattura, premiate in diverse esposizioni sia nazionali che internazionali, come l’Esposizione Universale di Londra del 1862.
L’opificio era inserito in un contesto dove l’attività estrattiva e la produzione del ferro costituivano il segno distintivo dell’economia del territorio, fin dal XVI secolo. Il ferro prodotto a Mongiana era trasportato a Napoli, per essere poi impiegato nell’industria sia militare che civile, nei cantieri navali di Castellammare, nella fabbrica di fucili di Torre Annunziata, nella fabbrica di treni di Pietrarsa.
Come viene ricordato nell’apparato narrativo del museo “I ‘pani’ di ghisa o le palle di cannone venivano trasportati con carri da Mongiana a Pizzo Calabro e, da qui, imbarcati per Napoli. Il ferro calabrese fu anche utilizzato per la costruzione dei primi ponti sospesi di acciaio in Italia, sui fiumi Calore e Garigliano, nel 1830”.
In epoca borbonica la ferriera di Mongiana arrivò a produrre fino a 1150 tonnellate di ferro, che si ridussero a meno della metà tra il 1861 e il 1863. Dopo l’Unità, infatti, causa l’eccessiva imposizione fiscale, la riduzione delle commesse statali, l’assenza di qualsivoglia intervento di ammodernamento sugli impianti, per le fonderie calabresi inizierà l’età del declino, rapido ed ineluttabile.
Già nel 1862 il governo, nell’ambito di una più vasta operazione di privatizzazione di beni demaniali, autorizzò la vendita delle ferriere mongianesi. Passò comunque qualche anno, ma nel 1874 gli stabilimenti furono definitivamente messi all’asta, insieme ai boschi circostanti ed alle miniere. Se l’aggiudicò il senatore Achille Fazzari, garibaldino di Stalettì, per un milione di lire, che subito dopo, resosi conto che lo stato non aveva alcuna intenzione di investirvi, penserà bene di disfarsene a sua volta, contribuendo a mettere la parola fine a più di tre secoli di storia industriale e mineraria in quel territorio.
In verità la chiusura dello stabilimento di Mongiana rientrò nell’ambito di una più complessa operazione di riorganizzazione dell’industria di base nell’Italia postunitaria. All’inizio degli anni ottanta, infatti, fu deciso di istituire a Terni un nuovo polo siderurgico nazionale, che fornisse l’acciaio necessario all’industria bellica e contribuisse al potenziamento e all’ammodernamento delle infrastrutture del paese.
Fu così, allora, che i macchinari e gli impianti della fabbrica d’armi e della fonderia di Mongiana vennero smantellati e trasferiti nella cittadina umbra, andando a costituire il nerbo dei “nuovi” stabilimenti siderurgici voluti dal governo.
Ad imboccare la via verso il nuovo polo siderurgico, dopo i macchinari, furono molti degli operai calabresi rimasti nel frattempo senza lavoro. Ancora nel 1860 erano più di 1500 gli operai che lavoravano alla ferriera ed alla fabbrica d’armi: una parte di questi resterà in Italia, dividendosi fra Terni e la Lombardia; la restante parte sceglierà la via dell’emigrazione oltreoceano, verso il Canada e gli Stati Uniti.
Mongiana simbolo per eccellenza, ordunque, delle conseguenze della malaunità. Oggi ne siamo più consapevoli, grazie agli sviluppi della ricerca storica, all’impegno di intellettuali “revisionisti”, alle pubblicazioni che hanno cercato di gettare nuova luce su fatti e vicissitudini che hanno accompagnato il doloroso processo di unificazione politica della penisola italiana.
In un saggio di qualche anno fa scrissi: “Se è vero che l’industria pesante, dell’acciaio in primo luogo, ha sempre costituito il fondamento dello sviluppo industriale di un paese, stando a questi fatti, la Calabria sarebbe potuta diventare il cuore, la spina dorsale del capitalismo italiano!”1 Si trattava di una provocazione, ovviamente, ma poi nemmeno tanto infondata.
Ora non si tratta di affrontare tali questioni come se fossimo agli albori del Regno d’Italia, anziché a sessant’anni dall’entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica: dopo il 1861 ci sono state due guerre mondiali, il fascismo, un’altra rottura dell’unità del paese, la Resistenza, un nuovo spirito di nazione, una nuova Italia insomma, dove il mito, il valore fondante, della Liberazione ha per molti versi rimpiazzato quello un po’ artefatto del Risorgimento. Ciò, al netto dell’incapacità manifesta della Repubblica di colmare in questi sessant’anni il divario tra nord e sud, che pure da quelle lontane vicende di un secolo e mezzo fa traeva la sua origine.
Ma ci sono cose che sul piano simbolico hanno un loro significato, come l’aporia che si registra nella piazzetta di Mongiana, su cui si affaccia l’edificio delle vecchia fabbrica d’armi, oggi sede del museo dedicato alle Reali Ferriere del Regno delle Due Sicilie. In questo caso cambiare la toponomastica, richiamando nell’intitolazione dello slargo la fatica e l’esodo degli operai della ferriera, sarebbe più che legittimo, oltre che un segno di rispetto per la verità storica.
di Luigi Pandolfi
1 Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo (Laruffa, 2011)