di Sandro Medici
Si dimetta o meno la sindaca Raggi, si spopoli oppure no il Campidoglio, quel ch’è certo è che con l’arresto per corruzione di Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale, siamo all’inizio della fine dell’avventura cinquestelle a Roma. Tra mazzette e manette.
E non sarà sufficiente, come già sta avvenendo, ricorrere ad affrettate espulsioni, sostituire precipitosamente gli incarichi e invocare orgogliose continuità. Le rete affaristica che traspare dall’inchiesta giudiziaria si configura come un consolidato sistema tangentizio, che aveva il suo baricentro nella presidenza del Consiglio comunale. Una “congiunzione astrale” che si proietta su tutte le trasformazioni urbanistiche in città. Dallo stadio a Tor di Valle ai Mercati generali, dall’ex Fiera di Roma alla stazione di Trastevere.
E a quasi tre anni da un clamoroso e trionfale avvento, con questo arresto si sgretola un’impalcatura politica edificata sulle macerie di mafia capitale, e che proprio grazie all’indignazione popolare che ne era seguita aveva ricevuto uno strepitoso consenso. Un consenso a cui non ha tuttavia corrisposto una sufficiente solidità amministrativa: in un acutizzarsi di problemi su problemi, in un progressivo decadimento dei servizi, in un allarmante declino economico e sociale, in un generalizzato scadimento del tono culturale. Il tutto, accompagnato da un furibondo susseguirsi e avvicendarsi di assessori, dirigenti, consulenti, faccendieri e funzionariato vario.
Dopo le vistose turbolenza iniziali, con una sindaca che immediatamente si segnalava per modestia politica e inadeguatezza istituzionale, i cinquestelle decisero di resistere, con Beppe Grillo che in prima persona si precipitò a convincerli. Se non altro per dimostrare che il movimento era in grado di governare e non solo di riempire rumorosamente le piazze. E si può dire che, seppur stentando e scricchiolando, in questi tre anni sono riusciti a sopravvivere politicamente. Scontando tuttavia una crescente tensione critica, insieme a una cospicua delusione nel loro elettorato, sempre meno indulgente e comprensivo.
E non poteva andare diversamente. Poiché la loro mediocrità, la mancanza di una visione strategica, perfino l’assenza di un immaginario simbolico minimamente coinvolgente, l’ha illusoriamente spinti a puntare sulla mera efficienza gestionale, peraltro in coerenza con il sentire di quell’elettorato indifferenziato che li aveva premiati. Ed è proprio tra gli autobus in fiamme, gli alberi crollati, i rifiuti incontenibili, nella città degradata se non collassata, che sono rovinosamente precipitati, perdendo quell’iniziale credibilità, smarrendo quella malintesa speranza che pure avevano animato.
Roma è un magma ribollente di guai e splendori, sciagure e magnificenze, insidie e conforti, miseria e nobiltà. Ed era impossibile che a domarla e accarezzarla, a custodirla e coltivarla, a svilupparla e valorizzarla fosse una combriccola di improvvisati, se non di cialtroni miracolati.
Marcello De Vito è il numero due del movimento romano, secondo solo alla sindaca, che per inciso l’ha sempre temuto per ragioni di dichiarata rivalità. Il suo clamoroso arresto, al di là di avidità e affarismi, che in ogni caso saranno i giudici a dimostrare, è insomma l’ultimo tratto, il più fragoroso, della parabola discendente dei cinquestelle. Che cambierà definitivamente la geografia politica romana e forse non solo romana. Anche se in una città piena di storia, la geografia non ha mai avuto una funzione decisiva.
Sta insomma succedendo che la città si consumerà in un’acidissima crisi politica, latente o dichiarata che sia: nella quale continuerà a deperire e smarrirsi. E ancora una volta a causa di un’inchiesta giudiziaria e non grazie a uno scontro politico, un conflitto sociale, un movimento d’opposizione. Opposizione che speriamo ora si scuota dal suo vivacchiare flebile e querulo.