Siamo alla settimana decisiva per capire le sorti dell’ “Italicum”, che è arrivato in aula alla Camera e dovrebbe uscirne blindato, almeno stando ai desiderata del nuovo premier. Ma la blindatura forse non sarà proprio tale.
Intorno alla legge elettorale, su cui Matteo Renzi, nella fase dell’accesa competizione per la carica di segretario del Pd, aveva costruito l’immagine vincente di riformatore, si addensano tutte le contraddizioni della doppia maggioranza entro cui oggi il premier cerca di destreggiarsi – Berlusconi versus Alfano e viceversa – e tutte le insidie nascoste nella composita maggioranza di governo, a cominciare dalle file dello stesso Pd.
E’ infatti faccenda nota che la platea parlamentare del Pd, in parte significativa non renziana, essendosi formata all’epoca del segretario Bersani, non gradisca affatto, per svariate ragioni, la proposta di legge elettorale siglata da Renzi e Berlusconi e patriotticamente denominata “Italicum”. Una parte del gruppo Pd, contrariamente al tradizionale orientamento del partito, si è scoperta all’improvviso favorevole alle preferenze e contraria al listino bloccato (fino a sei candidature) previsto dall’ “Italicum” che riprodurrebbe la tipologia dei parlamentari “nominati” dalle segreteria.
Renzi, al di là delle critiche, ha fatto motivo di vanto dell’accordo con Berlusconi. Le riforme sulle regole si fanno con tutti, ha detto. Giusto, fin dove è possibile, il più largamente possibile anzi. Su questo non possiamo non essere d’accordo. Ma lavorando in Parlamento, arrivando là a trovare punti d’incontro e mediazioni. Non fuori dal Parlamento, come se si trattasse di un accordo tra privati per affari che riguardano loro personalmente. Inoltre la sua tanto decantata abilità nelle trattative col cavaliere è consistita, più che altro, nel fargli accettare una versione corretta e aggiornata della precedente legge elettorale, bocciata, il 4 dicembre scorso, dalla Corte costituzionale.
Siamo così a un “Porcellum” rivisitato, che, al di là dell’assenza delle preferenze, conserva diversi profili di incostituzionalità sul principio della rappresentatività e dell’uguaglianza nel voto, ed è pertanto facilmente passibile di un nuovo giudizio negativo da parte della stessa Corte.
Il latino maccheronico, una volta, faceva parte dell’inventiva letteraria di sapore popolare, poetica ma soprattutto burlesca e satirica. Oggi, in quella dimensione “a parte” e autoreferenziale a cui è ridotta la politica corrente, il maccheronico svela o copre gli inganni. Un po’ come ai tempi d’antan, per altro. Così abbiamo avuto lo sfrontato “Porcellum” e oggi abbiamo il più sobrio “Italicum”. Ma è una sobrietà soltanto linguistica, perché non diversamente dall’altro, anche l’“Italicum” copre gravi inganni di natura democratica e solleva rilevanti questioni costituzionali relative agli equilibri tra istituzioni, poteri, diritti. Proprio a cominciare da quello tra potere esecutivo e potere legislativo, tra governo e rappresentanza, tra governabilità e democrazia. E’ sull’insieme di questi equilibri, che sono il cuore dell’ispirazione costituzionale, dell’idea che dalla Costituzione scaturisce del rapporto tra cittadini e Stato, che il dibattito pubblico dovrebbe ruotare e interrogarsi. Invece sono temi che neanche si sfiorano e siamo, al solito, al gossip di Palazzo. Che cosa vuole Alfano, che cosa vuole Berlusconi, che cosa vuole Renzi e via gossipando.
La parte più seria del dibattito politico sull’ “Italicum” verte intorno alle clausole di salvaguardia richieste dalle forze minori, che gli alti sbarramenti previsti dal testo di legge condannerebbero alla sparizione, con gravi conseguenze sul piano dell’uguaglianza nel voto, come la Corte ha sottolineato, perché milioni di cittadini rimarrebbero esclusi dal diritto ad avere una rappresentanza. Per Sel è una questione dirimente che tali sbarramenti vengano ragionevolmente ridimensionati.
Accanto a queste preoccupazioni, c’è poi quella del tutto strumentale – perché legata a evidenti calcoli di convenienza politica – di far durare il più a lungo possibile la legislatura, costi quel che costi, prevedendo qualche marchingegno che tenga insieme riforma elettorale (legge ordinaria) e riforme del Senato e del Titolo V. (leggi costituzionali).
E’ il mantra che caratterizza le posizioni del Nuovo centro destra di Alfano e può rendere estremamente scivoloso e inconcludente il percorso dell’ “Italicum”, ricreando sine die il vuoto legislativo su una legge fondamentale per la stabilità di un Paese democratico come è appunto quella elettorale.
Lo sbarramento, spiegano i sostenitori dell’ “Italicum”, favorirebbe l’aggregazione fra i partiti e renderebbe più facile assicurare, insieme al cospicuo premio di maggioranza previsto e all’eventuale doppio turno, la governabilità. Ma è altrettanto evidente che dalla semplificazione delle liste alla partenza non deriverebbe affatto la semplificazione dei gruppi in sede parlamentare, perché ognuno potrebbe staccarsi dalla coalizione e ricollocarsi in autonomia. Così saremmo ancora al gioco dell’oca e la questione della stabilità di governo, o “governabilità”, come si ama dire, con uno slittamento negativo del concetto, risolta nel voto ma che si riprodurrebbe in Parlamento. Perché il problema è soprattutto politico e la politica è la fonte di tutte le contraddizioni politico-istituzionali. La camicia di forza di meccanismi restrittivi non può risolvere un bel niente. O risolve poco.
La storia degli anni che abbiamo alle spalle, con i guasti continuamente prodotti, offre ampia materia di riflessione. Ma il velocismo di Renzi non consente la riflessione e favorisce ogni peggiore raffazzonamento, specialmente su un terreno complicato come quello istituzionale e costituzionale.
Il Porcellum col suo spropositato premio di maggioranza si ispirava all’idea di assicurare la governabilità e di assuefare l’opinione pubblica all’idea, in qualche approssimativa salsa italica, del presidenzialismo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. La prassi parlamentare della formazione del governo e la sua versione accentuatamente presidenzialistica – tutto nelle mani del Presidente della Repubblica nelle vesti di Lord Protettore del governo Monti e di quello Letta – accanto alla cultura, ormai diventata senso comune, della legittimità che al premier può venire solo attraverso il voto popolare. Un pastrocchio imbarazzante che è appunto il divario prodottosi tra la forma immaginata dalla Costituzione per la formazione del governo e la corrente prassi istituzionale, l’armamentario mediatico, le convenienze politiche. Tutte cose che hanno portato assai lontano dalla forma prevista in Costituzione la consapevolezza popolare.
Alcune questioni la Corte Costituzionale le ha però chiarite e dovrebbero essere considerate un punto certo, ferma restando, per quel che vale o si sa far valere ancora, la sovranità del Parlamento in materia di legge elettorale. La nuova legge elettorale, secondo il giudizio della Corte, deve assicurare la necessaria rappresentanza alle diverse articolazioni della società. È possibile prevedere meccanismi di stabilizzazione dei governi, ma questi non possono essere sproporzionati, non devono soffocare senza alcuna ragionevolezza alcuni principi costituzionali fondamentali quali l’eguaglianza del voto e lo stesso fondamento pluralistico, caratteristiche costitutive della nostra democrazia. È appunto il problema degli “equilibri”, che l’ “Italicum” ignora o corregge in modo inadeguato, come il premio di maggioranza che rimane per la Corte eccessivo, o peggiora, come l’innalzamento delle soglie di sbarramento e il rischio di vanificazione delle forze minori in coalizione.
di Elettra Deiana