di Roberta Fantozzi*
Credo sia tempo di aprire una discussione libera e pubblica su di noi, su Potere al Popolo, e sulle prospettive di quel polo della sinistra antiliberista e di alternativa che abbiamo detto essere un nostro obiettivo.
Avrei preferito che si aprisse uno spazio per un dibattito organizzato subito dopo le elezioni politiche. Un dibattito in cui le diverse posizioni potessero esprimersi in modo il più possibile sereno, diversamente dalle battute che si scambiano sui social, e per questo in grado di dare spazio a riflessioni ed argomentazioni. Mi dispiace che così non sia avvenuto, ma in ogni caso è bene che quello spazio di discussione, ora, si apra.
L’ultima cosa che è successa è un brutto video, il messaggio pre-elettorale di PaP (che ho visto solo ieri) in cui si dice «se andate al seggio del vostro Comune a votare, e Potere al Popolo non c’è, annullate la scheda…».
Dunque a Pisa, o ad Ancona, o nelle tante realtà dove si sono presentate liste connotate inequivocabilmente per essere alternative a tutti i poli esistenti (la destra, il 5Stelle, il PD) in nome dell’uguaglianza e del contrasto al liberismo, si sarebbe dovuto annullare la scheda. Lo stesso, in tutti quei luoghi in cui si sono presentate liste della sola Rifondazione che pure di PaP fa parte.
A questo si accoppia una valutazione iper positiva sugli esiti delle elezioni amministrative, non so dove discussa, ma che celebra il fatto che Potere al Popolo, «cresce», «si rafforza, va avanti», senza fare i conti con i tanti luoghi in cui non si sono presentate liste né di PaP né di sinistra alternativa, e senza neppure fare i conti con il fatto che ci sono realtà in cui magari si passa dal 9% delle elezioni del 2013 (ovviamente per liste di sinistra, non esistendo PaP) al 2% del 10 giugno, e pure omettendo i luoghi in cui ci sono arretramenti vistosi rispetto allo stesso voto delle politiche.
Non mi piace scrivere queste cose, non mi piace perché sono consapevole che c’è da costruire e non da distruggere, e diversamente da quel che si dice in quel video, continuo a credere che la soluzione sia nel riconoscimento reciproco e nella valorizzazione dei diversi percorsi, nel sapersi non autosufficienti e nel connettere tutto quel che di positivo c’è in campo: esperienze, pratiche, saperi, volontà di cambiamento.
Ma proprio qui sta il problema, e non da oggi. E c’entrano solo parzialmente i risultati elettorali.
L’appello iniziale delle compagne e dei compagni dell’Ex-Opg, dopo la brusca fine del percorso del Brancaccio, aveva molte caratteristiche condivisibili: parlava di una maggioranza della società non rappresentata, di percorsi di autorappresentazione e della ricostruzione di un rapporto tra impegno sociale e politica, tra conflitti e rappresentanza, esprimeva una generazione nuova che prendeva finalmente parola, e sapeva farlo persino con leggerezza.
Evocava per me la necessità di uno spazio ampio, di una soggettività capace di misurarsi con la ripoliticizzazione di una società impoverita e atomizzata per ricostruire legami e relazioni sociali e insieme senso di sé, una soggettività capace di parole nette e allo stesso tempo inclusiva per rappresentare quella maggioranza.
Non è stato così a mio avviso il percorso che ne è seguito: il rifiuto di votare su nome e simbolo della lista, come si era fatto ad esempio con l’esperienza di Altra Europa, le forzature perché si arrivasse a una definizione tanto del simbolo quanto delle figure più rappresentative, escludendo ogni alternativa che non fosse internissima, una discussione successiva al risultato elettorale in cui in nome dell’“entusiasmo” ogni riflessione anche solo vagamente critica diventava di fatto «disfattismo», il rifiuto di relazionarsi con altri percorsi nella pretesa di essere in sostanza l’unico, la gestione del sito che avrebbe dovuto essere di tutti come proprietà esclusiva di alcuni, la selezione degli interlocutori ad esempio sul piano sindacale di fatto ristretta ad una organizzazione.
La costruzione di uno spazio e di una soggettività politica ampia sono diventate sempre di più evocazioni, a cui hanno corrisposto nei fatti logiche minoritarie e settarie, fino all’appello ad annullare in una cabina elettorale i percorsi di chi magari si è dato da fare per anni, per costruire partecipazione, conflitto, saperi diffusi, pratiche e cultura del cambiamento. Percorsi da cancellare, perché non hanno accettato di annullarsi, a tre mesi dal voto, e confluire nella pretesa totalitaria di «Potere al Popolo».
Non ci sto. Non ci sto alle pretese totalitarie, non ci sto alla assenza di modalità laiche della discussione che non significano piangersi addosso ma che non significano neppure cancellare ogni critica e ogni possibile autocritica sotto l’obbligo dell’«entusiasmo», non ci sto all’annullamento dei percorsi positivi, né alla delimitazione delle interlocuzioni quasi costruissimo una gabbia.
Non mi piace dire queste cose, ma le dico, perché non è questa la strada. Non è questa la strada per costruire la sinistra di alternativa, di cui c’è bisogno oggi più che mai, di fronte al governo Salvini- Di Maio, non è questa la strada per connettere i conflitti e ricostruire diritti sociali e del lavoro, né per provare ad invertire l’egemonia del discorso delle destre così pervasiva nella nostra società.
Non è questa la strada neppure per Rifondazione Comunista, che sa i propri limiti, ma sa anche di avere compagne e compagni, che hanno continuato ad agire assieme la radicalità di un punto di vista non allineato – né alla fine della storia né ad un sistema politico fatto apposta per cancellare ogni alternativa – con la ricerca e le pratiche unitarie.
Non credo affatto che questo significhi buttare alle ortiche le relazioni che si sono costruite, perché continuo a pensare che ci sia bisogno di tutti, che insieme agli aspetti negativi ce ne siano di positivi, ma che vadano ridiscussi percorsi e modalità, certamente sì. Radicalità significa andare alla radice dei problemi, ed al settarismo non assomiglia neanche un po’.
*Responsabile Politiche economiche e del lavoro del Partito della Rifondazione Comunista