Da Strasburgo il presidente Napolitano è stato chiaro: «L’austerità non regge più». O forse no. Sono sempre più persuaso che nelle prossime settimane, quando il voto per il rinnovo del parlamento europeo sarà più vicino, di sostenitori dell’attuale modello di costruzione euro-monetaria non se ne troveranno nemmeno a pagamento.
Tutti contro il rigore, anche coloro che ne hanno sostenuto la razionalità e la necessità fino ad oggi. Le elezioni sono elezioni, d’altronde, lo capisce anche un bambino. Figuriamoci le agenzie di marketing elettorale, quali i partiti sono diventati. Finirà per capirlo anche il Pd, ne sono certo, dopo la Lega, Berlusconi, neocentristi e post-missini vari.
Il clima è cambiato. Sembrano lontani anni luce gli anni della retorica europeista tanto al chilo, quando si poteva dire con un pizzico d’orgoglio «Ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a centrare il traguardo dell’ingresso nel gruppo di testa dell’Euro» oppure «L’Euro ci ha salvato» ed altre amenità di questo tipo.
E si, ieri lo stare in Europa – sarebbe meglio dire nell’Euro – era sinonimo di affidabilità, certificava lo status di potenza di chi ne partecipava al consesso. Oggi, pur tra tante incertezze, sono di più quelli che ne farebbero volentieri a meno. Questo la politica l’ha capito e, a parole, dice di volerne tener conto. O forse sarebbe il caso di dire che l’argomento “tira” e nessuno è disposto a riconoscerne ad altri l’esclusiva.
E la firma del nostro paese in calce ai trattati? Gli obblighi derivanti dal Fiscal compact e dal MES? I nuovi regolamenti sulla governance europea? Un bel grattacapo. È facile affermare che di austerità si muore, che la logica del rigore fine a se stesso non porta da nessuna parte, ma poi? Poi quali misure concrete si intendono adottare per disincagliare il paese dal vincolo esterno costituito dalle clausole capestro dei trattati sottoscritti e, troppo frettolosamente, ratificati?
Pur volendo soprassedere sulle responsabilità – che hanno nomi e cognomi, beninteso – dell’attuale situazione sociale ed economica del paese, come si può pensare di uscire dalla gabbia del rigore senza derogare ai trattati ed ai regolamenti vigenti che impongonomisure draconiane per l’abbattimento del debito nei prossimi venti anni ed il conseguimento, nel medio periodo, della parità assoluta tra entrate ed uscite nel bilancio dello stato?
Delle due l’una: o si rispettano gli impegni sottoscritti, compreso quello del pareggio di bilancio che abbiamo addirittura costituzionalizzato, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di compressione della spesa pubblica e di politiche pro-cicliche, oppure si decide di rompere unilateralmente col quadro normativo attuale, in attesa di una rinegoziazione ovvero di una cancellazione degli attuali trattati che stabiliscono i doveri di ciascun paese verso l’unione economica e monetaria europea.
Diciamolo francamente, per molte delle forze in campo il tema della fuoriuscita dal giogo dell’austerità è solo un’arma di distrazione dell’opinione pubblica, un espediente tattico da utilizzare nel mercato elettorale. Lo si capisce perfettamente da come viene declinato.
Per il governo, ad esempio, dire che bisogna allentare la morsa del rigore è la stessa cosa che dire «rispetteremo fino in fondo gli impegni assunti con l’Europa» oppure che «La crisi è ormai alle nostre spalle». Per tutti gli altri vale il motto latino Vulgus vult decipi, ergo decipiatur.
Se qualcuno avesse dei dubbi al riguardo basta ascoltare quello che il presidente della Repubblica ha aggiunto a Strasburgo subito dopo aver biasimato il troppo rigore di questi anni: «La svolta che oggi si auspica da parte di molti non può andare nel senso della irresponsabilità demagogica e del ripiegamento su situazioni di deficit e di debiti eccessivi».
È proprio il caso di dire: ma di che parliamo?
di Luigi Pandolfi
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