di Luigi Pandolfi
E fu così che Mario Draghi arrivò davvero. Una scelta disperata del Capo dello Stato per scongiurare l’abisso ad un paese già pesantemente segnato da crisi economica ed emergenza sanitaria? Solo gli ingenui possono credere ad una narrazione di questo tipo. Più passano le ore, più diventa chiaro che l’operazione Draghi era partita molto tempo prima che Matteo Renzi si incaricasse di accelerarne il compimento. Non è complottismo. L’Italia è entrata nella pandemia con un’economia barcollante sul crinale tra stagnazione e recessione, ma soprattutto con un quadro di finanza pubblica incompatibile con le regole europee. Un quadro che la stessa crisi pandemica ha finito per aggravare ulteriormente, per il concorso di due fattori: il crollo del Pil e l’espansione a debito del bilancio statale. Cosa accadrà quando ritorneranno le regole del fiscal compact? Siamo di fronte a una sospensione momentanea delle stesse o la crisi costituirà un’occasione per superarle? Sono domande che in molti si sono fatti in questi mesi. Di certo, un impegno sul rientro dal debito il Governo Conte l’ha già preso nell’ultimo Documento di Economia e Finanza (Def), ma è nel Recovery fund che si trova una risposta più esaustiva a questi interrogativi. È vero che i soldi, per una buona parte da restituire, sono tanti, ma la loro erogazione avverrà a una precisa condizione: che si facciano le cosiddette “riforme di contesto”, alle quali è legata anche la sostenibilità del debito. E chi pensa che queste riforme servano a ripristinare una serie di diritti sociali cancellati in questi anni è totalmente fuori strada. L’idea, già recepita nelle bozze del Piano nazionale di ripresa e resilienza del Governo Conte, è che gli investimenti pubblici dovranno accompagnarsi a una nuova sfornata di liberalizzazioni. Più flessibilità lavorativa (ora si chiama “transizione occupazionale”), meno tasse e nuovi incentivi alle imprese, appalti più semplici, privatizzazioni. In questo modo, mentre la spesa delle risorse europee aiuterà la crescita, le “riforme”, oltre a “supportare” il Piano, rafforzeranno il patto di fiducia del Paese con i mercati finanziari (gli acquisti di titoli da parte di Francoforte durerà ancora ma non sarà per sempre). Un programma, a ben vedere, tagliato su misura per l’ex presidente della Bce (chiarissime le sue idee sull’efficienza dei mercati, sulla selezione naturale delle aziende sul mercato, sull’allocazione delle risorse umane in base alle leggi del mercato, sulle pensioni integrative e i fondi pensione ecc.), la cui lunga carriera, tra istituzioni pubbliche e banche private, è costellata più che dai “successi” di cui stampa e politica parlano in questi giorni, dai servigi resi al mondo della finanza e alle classi dominanti, con uno scarto fin troppo evidente tra obiettivi di volta in volta dichiarati e risultati ottenuti. Ecco cosa scriveva quasi un secolo fa John Maynard Keynes a proposito della credibilità di certi economisti: «Sebbene la dottrina in sé stessa non sia mai stata posta in dubbio da economisti ortodossi fino a tempi recenti, la sua palese incapacità agli effetti della previsione scientifica ha gravemente menomato col passar del tempo il prestigio dei suoi seguaci. Ciò ha provocato nell’uomo comune una riluttanza crescente a concedere agli economisti lo stesso rispetto che riservava ad altre categorie di scienziati, i cui risultati teorici sono confermati dall’osservazione quando vengono applicati ai fatti» (1). Per Draghi, però, questo momento sembra che non sia ancora arrivato. Per le sue scelte discutibili ed i suoi fallimenti viene non solo riverito, ma anche promosso a “salvatore della Patria”.
Lo smantellamento dell’industria pubblica italiana
Il suo ingresso nella “stanza dei bottoni” risale al 1983, ai tempi del primo governo Craxi, come consigliere dell’allora ministro del Tesoro Giovanni Goria. Ma il salto di qualità avviene nel 1991. Il muro di Berlino è caduto da poco, anche l’URSS ha cessato d’esistere. È il momento giusto per costruire una nuova Europa su basi neoliberiste, adottando anche un’unica moneta. Di lì a qualche mese saranno firmati i Trattati di Maastricht. È la fine di un ciclo storico e di un mondo. La restaurazione anti-keynesiana, iniziata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, può essere portata a compimento, fino alle estreme conseguenze. Per stare nella nuova Europa, infatti, bisogna non solo avere i conti a posto, ma ci vuole anche meno Stato e più mercato. Il ritorno del laissez faire. In Italia, questo significa far dimagrire il bilancio statale e, soprattutto, smantellare l’industria pubblica e il sistema delle partecipazioni statali. Viene fatto tutto tra il 1991 e il 2001. Dieci anni in cui si avvicenderanno alla guida del Paese ben nove governi, con sette diversi presidenti del consiglio: Andreotti, Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema. Nove governi e sette presidenti del consiglio, di “destra” e di “centrosinistra”, ma alla direzione del ministero del Tesoro, dove ha sede il “coordinamento” delle privatizzazioni, c’è sempre lui: Mario Draghi. Quando lascia l’incarico, la grande industria pubblica italiana è ormai soltanto un ricordo. Molti dei “gioielli di Stato” sono finiti in mano straniera, grandi sono stati i guadagni delle banche internazionali che hanno “assistito” le istituzioni italiane in quest’opera distruttiva. Le stesse banche, americane in primo luogo, che di lì a poco inonderanno di derivati tossici le nuove banche “universali” italiane sorte dalla privatizzazione degli istituti di credito pubblici. Tra queste banche d’affari c’è Goldman Sachs (una delle banche che ha contribuito al crack dell’economia mondiale nel 2007-2008 con la diffusione di titoli tossici e le speculazioni sui collateralized debt obligations), dove Mario Draghi prenderà servizio agli inizi del 2002, in qualità di “direttore esecutivo” per l’Europa. Ci resterà quasi tre anni, fino a che non sarà nominato governatore di Bankitalia. Quando si dice «il sistema delle porte girevoli della finanza mondiale». Un gigantesco caso di conflitto d’interesse che si consuma, per dirla con Bruno Amoroso, «nel silenzio totale di tutti, dei politici, Destra, Sinistra, degli istituti di controllo» (2).
La grande recessione e il ruolo della Bce
Da Goldman Sachs a via Nazionale, fino a all’Eurotorre di Francoforte. 2011, un anno cruciale. La crisi dei subprime, innescata dalle spericolate acrobazie finanziarie di banche presso le quali lo stesso Draghi ha lavorato, è arrivata anche in Europa, ma già ha cambiato nome. È diventata “crisi dei debiti sovrani”. Nel senso che i buchi di bilancio delle banche sono stati chiusi con soldi pubblici e il conto è stato portato ai cittadini. Servono sacrifici, «si è vissuto al di sopra delle possibilità», ricordate? Bisogna salvare l’euro. Non la vita e la dignità di milioni di persone che hanno perso il lavoro a causa di un crack finanziario innescato dalla bulimia dei mercati finanziari. L’euro. Forse. Partono i finanziamenti a lungo termine (longer-term refinancing operations). Le banche prendono i soldi della Bce a un tasso inferiore all’1% e con questi soldi comprano il debito pubblico a un tasso tre volte superiore. Il risanamento bancario viene accollato allo Stato. Solo dopo arriva il quantitative easing. Dopo che le banche hanno speculato abbastanza sui titoli di Stato e dopo che i governi hanno fatto piazza pulita di decenni di conquiste del mondo del lavoro. Per capirci, in Italia arriva prima Monti e poi il quantitative easing. Con un ritardo di cinque anni rispetto agli Stati Uniti d’America, dove, peraltro, la politica monetaria ultra-espansiva della Fed viene coniugata, da subito, con una politica di bilancio altrettanto sostanziosa (l’American Recovery and Reinvestment Act). E se, come nel caso della Grecia, uno Stato ha bisogno di liquidità alternativa, c’è una strada sola che si può percorrere: quella del Fondo Salva Stati (oggi Mes). Prestiti, ma solo dopo aver firmato un memorandum d’intesa in cui sono dettagliati tutti i compiti da fare a casa (tagli agli stipendi pubblici e alle pensioni, flessibilità lavorativa, privatizzazioni ecc.). Non c’è scampo. Chi protesta può vedersi tagliata perfino la liquidità per le proprie banche. È successo con il governo di Syriza, una delle pagine più nere della presidenza Draghi.
L’acqua è tanta ma il cavallo non beve
Ma chiediamoci: qual era l’obiettivo macroeconomico del quantitative easing? Un’inflazione vicina al 2%. È stato raggiunto l’obiettivo in questi anni? No, perché l’allievo di Federico Caffè ha agito nel solco tracciato dagli economisti mainstream. Fallendo clamorosamente. Potremmo dire che il suo bazooka è caduto nella trappola di Keynes («È inutile portare il cavallo al fiume se non vuole bere»). Come tutti gli economisti conservatori, Draghi, trascurando l’importanza delle politiche di bilancio, pensa che basti inondare le banche di liquidità e mantenere i tassi negativi sui depositi (disincentivo a tenere i soldi parcheggiati presso la Bce) per rilanciare l’economia. Più liquidità, maggiore propensione al credito da parte delle banche, economia che torna a girare. Come se la bassa domanda, indotta da bassi salari o da un’elevata disoccupazione, non condizionasse le scelte delle imprese. L’allievo di Caffè, insomma, ha agito nella crisi europea come se la lezione del ’29 non ci fosse mai stata. «Non bastava fabbricare moneta, bisognava che venisse spesa e che agisse direttamente sull’andamento economico. Fu questa la politica che, con molta cautela, si finì per seguire. Era una politica fiscale, non monetaria», ricorda J.K. Galbraith a proposito della svolta impressa dal Governo americano alle politiche economiche nella secondo metà degli anni Trenta. Draghi, invece, con quasi cento anni di ritardo, rimane al monetarismo dei tempi di Hoover. Da un lato mette in campo politiche monetarie ultra-espansive, dall’altra perora la causa dei bilanci in pareggio, vale a dire dell’austerità. Non l’abbiamo mai sentito tuonare contro la linea del rigore tedesca. Tutt’altro, ne è stato uno degli alfieri più intransigenti. Con risultati molto negativi per l’economia reale e le condizioni materiali di vita di milioni di cittadini. Non cambia idea nemmeno davanti all’evidenza dei fatti, benché anche allora ci fossero le condizioni per una sospensione del Patto di stabilità. Nel 2016, un anno dopo l’avvio del quantitative easing, infatti, di fronte al ritorno del segno meno davanti all’indice dei prezzi nella zona euro, torna a parlare di “forze deflazionistiche” che concorrerebbero a tenere bassa l’inflazione in Europa. A quali forze si riferisce? Alla Commissione? Ai governi che fanno l’austerità? No, a forze “disinflazionistiche” che agirebbero “su scala mondiale”. Invero, molti lessero nelle sue parole l’evocazione di una congiura, forse per un’errata traduzione del verbo to conspire, che in inglese significa innanzitutto “cospirare”, ma anche “contribuire”. A meno che lo stesso Draghi non abbia consapevolmente giocato con il significato di questa voce, per drammatizzare la sua lettura dei fatti e coprire meglio il fallimento delle sue scelte di politica monetaria. Eppure, la spiegazione al fallimento della sua politica, e dell’Unione europea, stava in una domanda piuttosto banale: perché mai un’impresa avrebbe dovuto investire, contrarre nuovi debiti, prevedendo che non ci sarebbe stata una domanda sufficiente per i beni e i servizi che avrebbe prodotto? Si trattava, in pratica, di riconoscere che la causa della deflazione e della mancata crescita risiedeva nei redditi troppo bassi dei cittadini e in una disoccupazione che rimaneva ancora troppo elevata. Un problema di domanda, come tante altre crisi del passato. Ma tant’è. Quando Draghi lascia la guida della Bce, nel mese di ottobre del 2019, nonostante i 2500 miliardi di euro “immessi nel sistema” (soldi creati dal nulla), la zona euro è di nuovo in deflazione. Storia di un fallimento annunciato. E non ce la si può cavare dicendo che però col quantitative easing gli Stati hanno guadagnato sul loro servizio del debito (interessi più bassi sui titoli). L’obiettivo dichiarato del Qe era un’inflazione «vicina, ma al di sotto del 2 per cento», ovvero un rilancio dell’economia europea dopo la grande recessione innescata dal crack finanziario mondiale del 2007-2008. A meno che, oltre all’obiettivo “dichiarato”, non ce ne fosse un altro, probabilmente più importante per Francoforte. Ne parliamo più avanti.
Arriva la pandemia
Ancora un anno e mezzo fa, prima che la pandemia sconvolgesse l’economia mondiale, Draghi rimaneva fermo sulle sue posizioni conservatrici. Non faceva distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”, per intenderci. Troppo debito era una cosa cattiva a prescindere. Infatti, in una conferenza stampa tenuta il 6 giugno 2019, tornava ad ammonire l’Italia sui rischi che il Paese avrebbe corso senza una politica di “rientro dal debito”, che a suo dire doveva essere massimamente “credibile”. «La politica di bilancio leggermente espansiva dell’Eurozona sostiene l’attività economica. Tuttavia, i paesi in cui il debito pubblico è elevato devono continuare a ricostituire le riserve di bilancio», dichiarava testualmente in quella occasione, bocciando senz’appello anche l’ipotesi che il nostro Paese finanziasse il suo fabbisogno con l’emissione di mini-bot («sono illegali, è nuovo debito», fu la sua conclusione). Dopo qualche mese, il virus cinese inizia a diffondersi in tutto il mondo e l’Italia viene colpita più duramente di altri Paesi. È un fatto sconvolgente. L’economia globale è di nuovo sull’orlo del baratro. Una crisi dal lato dell’offerta e dal lato della domanda, certamente diversa da quella più “classica” (valga la lezione di Hyman Minsky sui cicli economici) del 2007-2013. Siamo a marzo del 2020, l’Italia è in pieno lockdown, Draghi interviene dalle colonne del Financial Times con un articolo nel quale, apparentemente, sembra cambiare radicalmente il suo approccio alla gestione delle crisi (3). Il debito, quello “buono”, «diventerà una caratteristica permanente delle nostre economie», scrive l’ex presidente della Bce. Aggiungendo che livelli più elevati di debito pubblico dovranno «accompagnarsi alla cancellazione del debito privato». Più precisamente, la sua conclusione, è che «la perdita di reddito nel settore privato, e tutti i debiti che saranno contratti per compensarla, devono essere assorbiti, totalmente o in parte, dai bilanci pubblici». Il “debito buono”, quindi, è quello che serve ad assorbire il debito privato. Cosa significhi concretamente questa affermazione non è semplice spiegarlo. Nondimeno, di una cosa si può essere certi: la proposta non ha niente a che vedere con una soluzione keynesiana della crisi. Piuttosto, si è in presenza, di nuovo, di una politica dal lato dell’offerta, dell’impresa. Una cosa diversa dall’aumento della spesa pubblica, anche in disavanzo, che compensa la caduta della spesa privata. Non solo. Per alcuni aspetti, quel che prospetta Draghi nel suo intervento sul Financial Times, è un film già visto negli anni 2011-2014, con lo stesso Draghi attore protagonista (4). A dispetto della vulgata secondo cui il whatever it takes e poi il quantitative easing sarebbero serviti a salvare l’euro (in ogni caso non a salvare milioni di persone da povertà e disoccupazione), la loro vera ratio, a ben vedere, va cercata altrove. Nell’esigenza di salvare le banche dall’insolvenza del settore privato. Riavvolgiamo il nastro, basandoci sul caso italiano. Nel 2011 a Palazzo Chigi arriva Mario Monti, anche lui “salvatore della patria”, che imprime una forte accelerazione alle politiche di austerità e di compressione dei diritti sociali già avviate dai governi precedenti. L’avanzo primario (la differenza tra raccolta fiscale e spesa pubblica al netto degli interessi sul debito) passa da una media dello 0.07% del Pil degli anni 2009-2011 al 2.30% del 2012, per poi stabilizzarsi a una media dell’1.68% tra il 2012 e il 2017 (5). Non c’è però una contestuale diminuzione delle emissioni di obbligazioni statali. Tutt’altro. Il Governo chiede al mercato più soldi di quanti ne servono per coprire il disavanzo e la spesa per interessi. Si drenano risorse grazie a tassi di interesse ancora allettanti. Fino al famoso whatever it takes, che fa scendere sensibilmente i rendimenti sui nostri titoli di interesse. Rendimenti più bassi, valore più alto delle obbligazioni. Una dinamica che sarà ulteriormente assecondata dal quantitative easing che prenderà l’avvio tre anni dopo. La discesa dei tassi di interesse sarà determinante per le scelte degli investitori in questo periodo. Le obbligazioni rivalutate vengono vendute (con il Qe sono le stesse banche centrali nazionali che le comprano sul mercato secondario) e con i proventi di queste vendite si comprano azioni delle imprese. Tecnicamente si chiamano “aggiustamenti di portafoglio”. Nuova liquidità che le imprese utilizzano anche per ridurre la loro esposizione debitoria nei confronti delle banche. Il “debito buono” ha assorbito una parte di quello privato, lo Stato rimane indebitato con la stessa Bce (motivo per cui adesso sarebbe venuto il momento di “cancellare” questo debito). Una cosa molto diversa dall’idea keynesiana dell’utilizzo della spesa pubblica, anche a debito, per risollevare la domanda aggregata dal suo equilibrio di sottoccupazione e favorire la crescita dell’economia. Ma niente di nuovo. Sono stati scritti milioni di articoli e migliaia di libri su questi argomenti in questi anni (cosa avrebbero detto intellettuali come Luciano Gallino o Bruno Amoroso in queste ore?). Per la sinistra critica, radicale e di classe un patrimonio di conoscenza acquisito. Non solo. Dalle lotte contro le politiche della Troika, di cui Draghi è stato uno dei volti più duri, è nata anche una nuova sinistra in Europa. Storia. La storia di grandi movimenti di massa, di battaglie politiche per il lavoro e la sua dignità, contro il precariato e i tagli allo stato sociale, per la democrazia e la sovranità popolare. La nostra storia, diametralmente opposta alla storia di Draghi, tutta e sempre dalla parte delle élites, delle banche, dei rentiers della finanza. Allievo di Federico Caffè? Di fronte alle ingiustizie della società a lui contemporanea, il grande economista abruzzese aveva il coraggio di esprimersi così: «Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili». Parole che oggi potrebbero essere rivolte proprio contro personaggi come l’ex presidente della Bce.
NOTE
(1) J. M. Keynes, Teoria Generale dell’Occupazione dell’Interesse e della Moneta, Edizione del Kindle, Fermento, 2015, p. 536.
(2) B. Amoroso, Figli di Troika. Gli artefici della crisi economica, Castelvecchi, 2013.
(3) M. Draghi, We face a war against coronavirus and we must mobilise accordingly, Financial Times, 25 marzo 2020.
(4) M. Spanò, Il problema del debito privato e lo scopo del debito pubblico, Economia e Politica, 10 maggio 2020.
(5) Ibidem
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