di Martina Talarico
Qualche settimana fa è stata presentata la Nota di aggiornamento al Def, il documento di programmazione economica e finanziaria del nuovo governo (il Def di aprile era stato varato dal governo Gentiloni, ma solo con il quadro tendenziale).
Il documento illustra la situazione economico – finanziaria del Paese e formula gli obiettivi di politica economica che il Governo intende raggiungere l’anno successivo. Argomento di maggiore discussione è stato quello di alzare il rapporto deficit/PIL al 2,4% nel prossimo triennio, creando una forte reazione da parte dell’Unione Europea.
Tuttavia, le norme del trattato di Maastricht impongono al deficit pubblico un limite al 3%. Perché, dunque, si tratta di valori contro i vincoli Ue? Due passaggi cruciali sono avvenuti nel novembre del 2011 e con la sigla del trattato internazionale del marzo 2012, conosciuto come Fiscal Compact, al quale è seguito il pareggio di bilancio in Costituzione. E’ per questo motivo, che il saldo di bilancio deve essere pari a zero (pareggio, appunto), calcolato, però, in termini diversi rispetto all’indebitamento netto: si tratta di un saldo strutturale, cioè corretto sulla base degli andamenti ciclici dell’economia.
Nel passaggio dall’indebitamento netto nominale a quello strutturale si devono eliminare le misure di spesa o di entrata temporanee e gli effetti del ciclo. Nel quadro programmatico il saldo strutturale risulta all’1,7% per l’intero triennio. (Per valutare l’entità dello sforamento, si devono tenere in considerazione le regole europee che prevedono un avvicinamento al pareggio di bilancio pari allo 0,5% ogni anno). Ed è proprio in questo che sta il rigetto dei vincoli europei implicito nel programma di governo. La misura dell’allentamento del grado di austerità lo si vede analizzando il saldo primario, che misura la differenza tra le entrate pubbliche e le spese, non contemplando gli interessi sul debito pubblico.
Tanto più è alto il saldo primario tanto più si rallenta la crescita del debito. Nella manovra, nel quadro programmatico si prevede un allentamento dal 2,4% all’1,3% nel primo anno e dal 3,0% al 1,7% nel secondo. Se ci fosse una spesa, (investimenti), adeguata si potrebbe arrivare a questi indicatori di allentamento. È evidente che le conseguenze macroeconomiche e finanziarie dipendono da fattori cruciali: la variazione della composizione dei programmi di spesa e delle entrate, le misure da introdurre e il relativo peso di bilancio: le risorse dedicate al reddito di cittadinanza, l’innalzamento delle pensioni minime, l’allentamento della Legge Fornero, l’ampliamento del “forfettone” fiscale, quanto i tagli ai programmi in essere e alle detrazioni fiscali.
Dunque, va tenuto in considerazione il grado di stress sociale imposto dalle politiche di risanamento e contenimento finanziario, se non vengono mantenute le promesse elettorali. Le misure previste dal documento sono positive per il rilancio della politica sull’economia e possono essere costruttive in un’ottica di ammorbidimento sull’intransigenza mercantilista imposta dalla Commissione europea e dalla Bce. Possiamo fidarci dell’ottimismo giallo-verde per rilanciare la nostra Italia e soprattutto la nostra economia?