di Luigi Pandolfi
A leggere i giornali e le principali agenzie di stampa, dopo l’intervista rilasciata dal ministro degli Affari europei a La Verità, sembrerebbe che lo stesso abbia «trovato» un tesoretto di 50 miliardi, di cui finora nessuno s’era accorto, con il quale si potrebbero finanziare investimenti pubblici in settori ad «alto moltiplicatore», senza aumentare «né il disavanzo pubblico, né il rapporto debito pubblico/Pil su base annua».
Perfetto, verrebbe da dire. Ma, in realtà, a cosa si riferisce Savona quando parla di 50 miliardi? Per saperlo bisogna andare sul sito di Bankitalia, alla voce «bilancia dei pagamenti». L’ultimo report di via Nazionale sulle transazioni del nostro Paese col resto del mondo ci dice che «nei dodici mesi terminanti ad aprile 2018 l’avanzo di conto corrente si è attestato a 45,5 miliardi di euro (il 2,6 per cento del Pil)». In sostanza, nel periodo di riferimento, le nostre imprese hanno esportato merci in misura maggiore di quanto il Paese ne abbia, complessivamente, importato (per i servizi registriamo un deficit di 5,3 miliardi). Nessuna novità: è così dal 2012, con incrementi significativi a partire dal 2014.
Più che un «tesoretto» nella disponibilità del governo, parliamo di un indicatore importante per l’economia nazionale, da cui si evincono i flussi di capitale, in entrata e in uscita, tra noi e il resto del mondo, quindi il valore delle «attività» e delle «passività» finanziarie dei residenti in Italia nei confronti dei non residenti. Soldi che afferiscono agli scambi commerciali dei nostri operatori economici (e ai loro profitti) ed ai crediti (o debiti) che ne derivano, una cosa diversa dalle risorse di bilancio, qualunque sia la loro provenienza.
Da un punto di vista macroeconomico, questa situazione spiega anche perché il nostro Paese sia uscito dalla recessione, nonostante una domanda interna che rimane ancora, troppo, bassa. Esportazioni trainate da bassi salari (svalutazione del lavoro), secondo la regola tedesca che è stata imposta al resto dei paesi europei, profitti più lauti per le imprese che si rivolgono, principalmente, alla domanda estera.
Non si capisce, invece, che bisogno c’era di scomodare questo dato per invocare un piano di investimenti pubblici, che, secondo il ministro, farebbe bene a «proporre» la stessa Unione Europea. Né si comprende come, nell’immediato, l’aumento del gettito fiscale, generato dalla crescita del Pil per effetto degli stessi investimenti, possa «coprire la quota parte delle spese correnti implicite nelle proposte di Flat Tax, salario di cittadinanza e revisione della Legge Fornero», rispettando in questo modo gli impegni sottoscritti con l’Europa (pareggio di bilancio). Possibile, ma forse non basterebbe l’intera legislatura.
Avrebbe fatto meglio, il ministro Savona, a chiedere che l’Europa si facesse carico di un grande piano di investimenti, soprattutto per i paesi periferici, ovvero che l’Italia, per qualche anno, potesse sforare il tetto del deficit, come hanno fatto altri paesi in passato, per rilanciare l’economia e l’occupazione, senza esporsi a rischi gravi con i mercati finanziari. «Una politica della domanda centrata sugli investimenti», come egli stesso ha suggerito nell’intervista.
Ma poi, se applicassimo, anche solo ai fini della quantificazione degli investimenti, lo stesso criterio agli altri paesi europei, la Germania potrebbe chiedere il via libera ad un programma di investimenti di 250 miliardi di euro, pari all’ammontare dei suoi surplus commerciali (9% del Pil), mentre rimarrebbero a bocca asciutta Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, con il loro conto corrente in rosso. Un vero paradosso.
L’Italia, come tutti i paesi della periferia dell’Unione, ha bisogno di investimenti pubblici, di politiche redistributive e per il lavoro, a prescindere dall’andamento del suo bilancio estero. Gli squilibri commerciali vanno corretti, non possono costituire la base di partenza per un improbabile «sistema premiale» alla rovescia.
Ma forse quella di Paolo Savona è solo una provocazione. Una delle tante, ultimamente. Anche perché riesce difficile immaginare che il ministro abbia pensato di finanziare gli investimenti pubblici appropriandosi dei profitti e dei risparmi privati degli italiani.