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Il pasticcio dell’elezione del Senato nella riforma di Renzi

 

di Luigi Saraceni

Con la consueta disinvoltura, ben tutelata dall’ineffabile Bruno Vespa, Renzi ha detto a Porta a Porta che una futura legge ordinaria, su cui c’è già un accordo all’interno del suo partito (il c.d. lodo Chiti/Fornaro), garantirà l’elezione dei consiglieri regionali/senatori da parte degli elettori, anzicché dei consiglieri stessi all’interno del Consiglio. Sarà questa legge ordinaria – ha spiegato Renzi – a stabilire, com’è compito di ogni legge elettorale, le “modalità” della concreta attuazione del principio costituzionale secondo cui l’elezione dei senatori deve avvenire “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”.

A Renzi non passa neanche per la testa che la titolarità dell’elettorato attivo, cioè il diritto di eleggere i parlamentari, così come il c.d. elettorato passivo (il diritto ad essere eletti), non è una “modalità” dell’elezione, ma una garanzia primaria della democrazia parlamentare che deve essere scritta direttamente in Costituzione. Altrimenti, secondo la logica renziana, si potrebbe modificare anche la “modalità” di elezione della Camera, sostituendo l’art. 56 della Costituzione vigente (“La Camera è eletta a suffragio universale e diretto”), con una norma del tipo “La Camera è eletta in conformità delle scelte espresse dagli elettori al momento del voto, con le modalità stabilite dalla legge elettorale”, cui sarebbe quindi demandato di stabilire chi può votare chi. L’improponibilità di simili ipotesi è evidente. E ciò perché le garanzie fondamentali per la vita democratica, com’è certamente l’elettorato attivo (e passivo), devono essere assistite dalla rigidità della tutela costituzionale e non possono essere lasciate a più o meno affidabili accordi interni di partito e alla flessibile tutela della legge ordinaria e quindi a contingenti maggioranze parlamentari, specie quando queste sono in realtà minoranze trasformate in maggioranze da consistenti premi elettorali.

Non meraviglia che queste elementari nozioni di cultura costituzionale siano ignorate da Renzi nei suoi quotidiani spot pubblicitari, ma non si spiega come possano essere trascurate da quella manciata (nel senso di pochi, non di “accozzaglia”) di costituzionalisti, più o meno autorevoli, che sostengono il Sì.

Ma tralasciamo questi scrupoli “culturali” e cerchiamo di prefigurare il concreto scenario della elezione del Senato nella malaugurata ipotesi che passasse il Sì e tutte le scadenze e “modalità” previste dalla riforma e dalla sua legge attuativa fossero puntualmente rispettate. Il discorso non è semplice, ma se ci si vuole realmente confrontare nel merito occorre affrontare con pazienza le involute proposizioni normative della riforma.

Dunque. È ragionevole presumere che in caso di vittoria del Sì la legislatura andrebbe alla sua scadenza naturale, nella tarda primavera del 2018. Fino ad allora il Senato resterebbe così com’è, ma fortemente delegittimato dalla radicale modifica della sua fonte di elezione. Poi, come si legge nella contorta prosa del comma 4 dell’art. 39 della riforma, entro 10 giorni dall’insediamento della nuova Camera (maggio/giugno 2018), sarebbe insediato il nuovo Senato, composto da consiglieri/senatori scelti dai loro colleghi (art. 39 comma 1).
Perciò è indiscutibile che, in questa prima composizione, i senatori/consiglieri regionali non sarebbero eletti dagli elettori ma nominati dai colleghi consiglieri. Per dare la parola agli elettori bisognerebbe aspettare due scadenze.

Anzitutto l’approvazione della legge bicamerale (art. 57, ultimo comma) di concreta attuazione dell’astratto principio costituzionale (“in conformità…”), da emanarsi entro sei mesi dall’elezione della nuova Camera (art. 39 co. 6), peraltro senza che sia prevista alcuna sanzione per la omessa o tardiva emanazione. La seconda scadenza necessaria è il rinnovo dei Consigli regionali, in occasione del quale gli elettori dovrebbero indicare, oltre ai semplici consiglieri, anche i consiglieri/senatori (nel frattempo, è bene ripetere, in Senato siederanno i consiglieri della fase transitoria, nominati dai colleghi e non eletti dai cittadini). Perciò per capire se e quando il nuovo Senato potrebbe andare a regime, con la elezione dei consiglieri/senatori da parte dei cittadini (sempre che sia effettivamente emanata la legge attutiva), occorre avere la pazienza di scrutinare le prossime scadenze di tutti i Consigli regionali. Le prime cinque Regioni di cui scadono i Consigli sono Molise, Lazio e Lombardia nel febbraio 2018, Val d’Aosta e Friuli nella primavera 2018.

Orbene, per consentire ai cittadini di queste cinque regioni di eleggere i consiglieri/senatori al momento del rinnovo dei loro Consigli, si dovrebbero verificare le seguenti condizioni: a) che la legge attuativa, il cui termine di scadenza è fissato a sei mesi dallo svolgimento delle elezioni della nuova Camera, venga invece emanata prima ancora che queste elezioni si svolgano e prima della elezione dei Consigli regionali; b) che i suddetti Consigli siano anticipatamente sciolti, d’autorità se recalcitranti, per consentirne il rinnovo prima o contestualmente alle elezioni del Parlamento. 

Se queste incerte condizioni non si verificheranno, bisognerà aspettare il rinnovo dei Consigli regionali della primavera del 2023. Nel frattempo (un lustro) in Senato siederanno i consiglieri nominati dai loro colleghi. Basilicata dovrebbe rinnovare il suo Consiglio nell’autunno del 2018 e potrebbe farcela a mandare in Senato consiglieri eletti, sempre che nel frattempo fosse effettivamente emanata la (complessa) legge elettorale attuativa, la cui emanazione scadrebbe appunto, come s’è detto, nell’autunno 2018, peraltro senza che la sua omessa o ritardata emanazione comporti alcuna sanzione. 

Altre cinque Regioni rinnoveranno i loro Consigli nel corso del 2019, altre sette nella primavera del 2020 e infine la Sicilia nell’autunno 2022. Tutte queste Regioni, prima del rinnovo dei loro Consigli, manderanno al Senato consiglieri “nominati” dai loro colleghi e non eletti dai cittadini.

In conclusione, lo scenario che emerge dal “combinato disposto” della riforma renziana e del lodo Chiti/Fornaro, ammesso che questo diventi legge per mano dell’attuale maggioranza e non sia spazzato via da maggioranze future, è un Senato a stragrande maggioranza di “nominati” nella prossima legislatura, sottoposto, anche nelle legislature successive, ad un perenne avvicendamento coincidente con il rinnovo dei Consigli regionali (art. 57 co. 5).

Se passasse il Sì si aprirebbe dunque una stagione di instabilità istituzionale, con uno dei due rami del Parlamento privo di legittimazione popolare e in condizione precaria nella lunga fase transitoria ed esposto ai disagi e alle inefficienze di un continuo turnover nel suo assetto definitivo.

Riesce difficile dare nome e dignità di “revisione costituzionale” a un simile intreccio di strappi alla democrazia rappresentativa, titubanti garanzie e incertezze istituzionali.

Scritto da Redazione

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