La politica oggi ha tempi veloci, si sa. Nell’arco di 2-3 anni sono cambiate tante di quelle cose nel nostro paese che della richiesta di rinvio a giudizio per Umberto Bossi e i suoi due figli da parte della Procura di Milano potrebbe, legittimamente, non importare a nessuno.
Tra l’altro il loro partito, la Lega Nord, come in molti sostengono, avrebbe pure cambiato pelle, sarebbe ormai un’altra cosa rispetto al movimento che inventò la Padania e tenne in scacco il paese per anni con le sue menate secessioniste. Ora c’è la Le Pen, mica siamo ai tempi di Roma ladrona!
In verità le affinità politiche e programmatiche, ancorché non dichiarate, con la fiamma d’oltralpe e con le altre forze dell’estrema destra europea c’erano già allora, così come c’erano già allora, alla corte del senatur, tutti gli attuali protagonisti del “nuovo corso”, a cominciare dal segretario Salvini.
Insomma, sarà pure vero che il tema dell’uscita dall’Euro ha preso oggigiorno il sopravvento su quello della Padania, ma vuoi mettere il significato, politico e storico, di un’inchiesta che spazza via decenni di retorica sulla “diversità leghista”, sui vizi del sud e della politica “romana”?
Il senatur e i suoi figli sarebbero chiamati a rispondere di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici, usati per spese personali, dalle multe al carrozziere, ai vestiti, fino alla laurea in Albania di Renzo “il Trota” ed ai lavori di casa a Gemonio. Per tutte le persone coinvolte nella vicenda le accuse,a vario titolo, sarebbero di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato per circa 40 milioni di euro.
Come non andare con la memoria a quei “favolosi” primi anni novanta, quando lo spavaldo senatur tuonava: “Noi, davanti a questa banda, ai ladri di Tangentopoli, siamo qui per dire avanti Di Pietro“.
È noto, l’esordio della Lega, quello della ribalta sul palcoscenico della politica nazionale, coincise con il l’epopea di tangentopoli. È alle elezioni del 1992 che il Carroccio, con l’8,6%, portò in parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori, che gli varranno il pieno inserimento nelle dinamiche della vita politica italiana, il posto al sole nel grande “gioco romano”.
È il tempo in cui il partito padano ed il suo leader, cavalcheranno con successo le indagini del Pool di Milano, gridando alla degenerazione di un ceto politico che, da decenni, occupava le istituzioni dello Stato. Emblematico, scenico, fu, a tal riguardo, l’atteggiamento che i leghisti ebbero in parlamento, all’indomani della presentazione, da parte del governo Amato, del cosiddetto decreto Conso, quell’insieme di norme che andavano ad incidere sulla punibilità di coloro che avevano preso le tangenti, passato alla storia come il “colpo di spugna” per i reati di tangentopoli.
Allorquando il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo dieci giorni dal varo del decreto, entrò nell’aula di Montecitorio, dai banchi della Lega si scatenò il finimondo: il deputato di Como Luca Leoni Orsenigo si lanciava nell’esibizione di un macabro cappio, mentre Marco Formentini, allora capogruppo alla Camera, incitava i colleghi a gridare:”Mafia, mafia, mafia!”.
Bei tempi. Come quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Altra scena, altra bella giornata di indignazione e di lotta: “è un golpe bianco“, “questa è una mascalzonata“, “il regime se ne sbatte i coglioni dell’opinione pubblica“, gridava in quei frangenti il capo della Lega, seguito da tutti i suoi sodali.
Presto però la scena cambierà per la Lega, e le parti nella commedia si rovesceranno. Lo stesso film, bello, avvincente, coinvolgente, spericolato, si trasformerà nel giro di pochi mesi in una pellicola da incubo, per Bossi in primo luogo. Anche il partito più forcaiolo, nel senso letterale del termine, del parlamento italiano, cadrà nelle maglie dell’inchiesta di Milano (maxitangente Enimont). Una roba apparentemente inverosimile, considerato che la storia della Lega era appena iniziata, fuori e contro il sistema partitocratico della prima Repubblica.
A ragion veduta, oggi, possiamo dire, nondimeno, che non fu un incidente di percorso, ma un caso significativo, premonitore, il primo di una lunga serie, che, in ogni modo, avrebbe dovuto far riflettere di più, con vent’anni d’anticipo, sulle incoerenze di questo partito. Un partito eversivo da un lato, per i suoi propositi di rottura dell’unità nazionale, e perfettamente integrato dall’altro nel sistema che diceva di voler combattere.
Ora però tutto è più chiaro. E non basta l’euroscetticismo di maniera a cancellare l’onta di un imbroglio politico durato per più di cinque lustri. The Family non è solo il nome di un’inchiesta giudiziaria: è il paradigma del lungo paradosso leghista.
di Luigi Pandolfi