L’Uruguay fatica a fare i conti con il suo passato. È l’atteggiamento della giustizia nei confronti dei crimini commessi negli anni della dittatura militare a testimoniarlo.
Ciò a dispetto del nuovo corso politico avviatosi nel paese, che vede protagonista l’austero presidente José Alberto Mujica,ex guerrigliero Tupamaros, per molti un’icona del riscatto politico e morale latinoamericano.
Ricordiamo che dal 1973 al 1985 l’Uruguay è stato tenuto col pugno di ferro da una feroce dittatura militare, responsabile di una repressione durissima nei confronti di ogni forma di dissenso, come in Argentina e in Cile.
I casi di tortura in quegli anni si contarono a migliaia. Alcune centinaia furono i desaparecidos, tra cui almeno 100 che scomparvero in Argentina, per effetto della famigerata “Operazione condor”, il coordinamento segreto tra i servizi di intelligence delle dittature militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, messo in piedi, sotto l’egida degli Usa, per reprimere il dissenso nei loro rispettivi paesi. Tra i cento scomparsi oltreconfine, vi furono anche dei bambini, quattro dei quali nati in carcere da madri detenute per reati politici.
A scuotere in questi giorni le coscienze nel paese latinoamericano c’è un caso che merita di essere preso in considerazione. Anche perché è stato recentemente oggetto di un appello rivolto alle massime cariche dello Stato italiano.
La vicenda ha per protagonista un cittadino uruguaiano di origini italiane, Aldo Perrini, vittima della repressione di quegli anni. Il caso attuale riguarda invece la possibile prescrizione del reato che l’ha riguardato.
Ma andiamo con ordine. Aldo Perrini, la cui famiglia paterna era di origini pugliesi, di Martina Franca precisamente, fu prelevato dalla fabbrica di gelati in cui lavorava il 26 febbraio 1974, per essere rinchiuso in una caserma dell’esercito a Colonia (Uruguay). Secondo le dichiarazioni dei testimoni sentiti nel corso dell’istruttoria del processo, Perrini fu torturato per giorni, fino alla morte, che avvenne, presumibilmente dopo un paio di mesi dal rapimento.
I suoi resti furono consegnati alla famiglia il 3 marzo 1974, con l’esplicita minaccia di ritorsioni se si fosse, in qualunque modo, denunciato il fatto.
La vittima era un oppositore della dittatura, simpatizzava per la coalizione di sinistra del Frente Amplio, sebbene non fosse stato mai iscritto ad alcun partito.
Nel giugno 2012, la Suprema Corte de Justicia (SCJ) dell’Uruguay ha avocato a sé il fascicolo delle indagini sul caso Perrini, bloccando di fatto l’iter del processo. Nel febbraio del 2013, poi, è stato inopinatamente deciso il trasferimento del giudice titolare del caso, la dott.ssa Mariana Mota.
Una decisione che ha scatenato un’ondata di proteste dentro e fuori l’Uruguay, dove da anni è in corso una campagna di denuncia sulla situazione di sostanziale impunità dei crimini commessi dalla dittatura.
A peggiorare ancora la situazione è stata la sentenza dell’8 aprile scorso, con la quale la SCJ, muovendo proprio dal fascicolo sulla morte di Aldo Perrini, ha dichiarato l’incostituzionalità di alcuni articoli di una legge approvata nel 2011 dal parlamento uruguaiano tesa ad evitare la prescrizione dei delitti commessi dai militari nel periodo 1973-1985 ed a qualificare gli stessi come crimini contro l’umanità, secondo criteri ormai consolidati nel diritto internazionale che trovano riscontro anche nei trattati internazionali ratificati dallo Stato uruguaiano.
Sulla base di questa sentenza, i militari responsabili dell’assassinio di Perrini, peraltro in buona parte identificati e sotto inchiesta, non potranno più essere processati ed eventualmente condannati per i crimini commessi. E ciò varrà anche per altre centinai di casi similari.
In pratica la SCJ uruguaiana ha affermato, in drastica controtendenza con le leggi e la giurisprudenza di altri paesi e con il diritto internazionale, che i crimini commessi dalla dittatura devono essere considerati come delitti comuni e non come casi di violazione, aggravata, dei diritti umani, e come tali, perciò, sarebbero soggetti a normale prescrizione.
Dicevamo che questa decisione della Suprema corte non è passata inosservata, né in Uruguay, né oltre confine. Contro di essa si sono pronunciati l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, Navi Pillay, il Relatore Speciale dell’ONU sulla tortura Juan E. Méndez ed il Committee on Enforced Disappearances (CED) delle Nazioni Unite.
In Italia è partita una lettera all’indirizzo del Presidente della Camera dei Deputati e del Ministro degli esteri a firma di alcuni intellettuali, giornalisti e rappresentanti di associazioni, tra cui lo storico Gennaro Carotenuto, Anna Milazzo di Amnesty International, lo scrittore Nicola Viceconti autore di “Nora Lopez, detenuta N°84”, l’attivista Mario Occhinero e Susanna Gonzales della CGIL, con la quale si chiede alle nostre istituzioni di intervenire presso le autorità uruguaiane, per scongiurare il rischio che gravi reati come quelli commessi dalla dittatura a danno di inermi cittadini possano cadere in prescrizione.
“L’inchiesta per la morte di Aldo Perrini – si legge nella lettera – non può essere archiviata. Il consolidamento delle istituzioni democratiche in Uruguay non potrà mai avvenire in un clima di impunità”.
Questo caso è anche l’emblema di come il nuovo corso in molti paesi latinoamericani segua una strada tortuosa, irta di insidie. Una strada sulla quale le ombre del passato sono sempre in agguato. Ne è prova quello che è accaduto in Guatemala, dove la Corte costituzionale ha appena annullato, per “vizio di procedura”, la condanna dell’ex dittatore Efrain Rios Montt a 80 anni di carcere per genocidio e crimini di guerra, commessi nel corso della guerra civile che si protrasse dal 1960 al 1996.
Il caso Perrini, ad ogni buon conto, è simile a tanti altri casi di nostri connazionali che in Sud america hanno trovato la morte negli anni bui delle dittature militari. Su questi casi la memoria è ancora spezzettata, incompleta, tutta da ricostruire, ma non è prescrivibile. Certamente non lo è sul piano politico e morale.
di Luigi Pandolfi