Inghilterra, all’incirca un anno fa. In un noto programma di approfondimento politico fa capolino un tizio con i capelli lunghi e la barba incolta – un mix tra Gesù Cristo e Che Guevara, ha detto qualcuno di recente – che sa esibire una parlantina svelta e seducente. Lui è Russell Brand, classe 1975, conduttore radiofonico e televisivo, attore e scrittore, comico, già sposato con la nota cantante americana Katy Perry, con una brutta storia di dipendenza da alcol e droghe alle spalle. Il programma è quello condotto da Jeremy Paxman sulla Bbc: Newsnight, il salotto televisivo più famoso del Regno Unito. Poche battute e l’ospite va subito al sodo: dichiara di non aver mai votato in vita sua e che la politica gli fa schifo. Per il resto una serie di vagheggiamenti su un improbabile “sistema socialista ugualitario” e sulla necessità di politiche redistributive e di tutela dell’ambiente. Niente di che.
Da allora però le sue apparizioni in trasmissioni politiche si sono moltiplicate, e di pari passo l’attenzione nei suoi confronti. Il 23 ottobre scorso torna nella trasmissione di Paxman ed è boom di ascolti. Il giorno dopo sul Financial Times esce un articolo dal titolo fortemente evocativo: «Russell Brand, il Beppe Grillo riluttante della Gran Bretagna». Riluttante? Sarà. Nel frattempo, però, esce il suo nuovo libro, si intitola rEVOLution (si noti il richiamo alla parola «love», in inglese «amore») e ha tutto il sapore di un manifesto politico. Lui smentisce, continua a ripetere che non ha alcuna intenzione di fondare un nuovo partito, che vuole soltanto «smuovere le coscienze», ma il dubbio che sia proprio questo il suo obiettivo rimane.
Di che “rivoluzione” parla Russell Brand? In che modo dovrebbe realizzarsi? Bè, qui ci avventuriamo su un terreno piuttosto impervio. D’altro canto è lo stesso autore di quello che è diventato già un best seller a dichiarare di non avere idee molto chiare in proposito, a parte la certezza che bisogna “combattere contro un’elite economica che vive nel lusso distruggendo il pianeta” e che “il vero ostacolo al cambiamento è la convinzione che esso sia impossibile”. Poi il suo vero chiodo fisso: i politici sono tutti imbroglioni e votare è diventato un esercizio inutile. Spiega: «Il sistema politico attuale non è niente di più che un mezzo burocratico per promuovere i vantaggi delle élite economiche. (…) non c’è niente per cui votare. Credo che un atto politico molto più potente sia invece di rinunciare completamente all’attuale paradigma, piuttosto che aderirvi in modo irrilevante apponendo una semplice “X” su un simbolo. Quello che mi interessa è la rivoluzione totale delle coscienze e dell’intero nostro sistema sociale, politico ed economico».
Non gli mancano i seguaci, tuttavia. Basta andare sulla sua pagina facebook per rendersene conto: oltre 3 milioni di fan e migliaia di like e commenti ogni giorno sotto i suoi post. Parla di economia, di informazione, di amore e fratellanza, di famiglia, di lotta alla droga, di giustizia sociale, perfino di Cristo. Si rivolge ai fan con videomessaggi dalla camera da letto, a volte coperto unicamente da un asciugamano. Legge passi del suo libro, commenta fatti di cronaca, pontifica sui temi più disparati. Più che un politico sembra un guru, a dire la verità. Ma ai tanti che lo seguono sulla pagina (e su twitter: quasi 9 milioni di follower) questo suo modo di porsi pare non faccia specie. Tutt’altro.
Intelligentemente, nel gioco dialettico, Brand ha scelto Nigel Farage, leader dell’Ukip, come sua principale controparte. Semplice: più marcata è la distanza tra le posizioni, più nitidamente si percepisce il profilo di ognuno. Da manuale. Lo scorso 11 dicembre, nell’ambito della nota trasmissione televisiva Question Time sulla Bbc, i due se le sono date di santa ragione, dando di che scrivere e parlare ai media nazionali anche per i giorni e le settimane successive. Temi del contendere, in primo luogo, i gay e l’immigrazione. Brand ha paragonato il capo dell’Ukip ad Enoch Powell, il parlamentare conservatore che negli anni sessanta divenne famoso per il discorso dei “fiumi di sangue” (rivers of blood spech), nel quale preconizzava per il Regno Unito un futuro di rivolte e di tensioni a sfondo razziale, a causa della massiccia immigrazione dalle ex colonie. Questo il commento di Farage il giorno dopo dal suo blog sul The Independent: «Sarà stato il burro cacao che il suo make-up artist gli ha applicato sulle labbra, ma dalla sua bocca non è uscita una sola parola di senso. In più era anche un po’ floscio». Spettacolo.
Certo, la sua linea astensionista, di primo acchito, parrebbe inconciliabile con il proposito di fondare una nuova forza politica. Ma tant’è. Quando c’è di mezzo il populismo, nella sua variante comico-demagogica, tutto è possibile. Tutto ed il contrario di tutto. Sarà per questo che gli osservatori più puntuti non si sono fermati alle sue sortite algide, ultimative, ed hanno parlato di una sua possibile candidatura a sindaco di Londra nel 2016. Non accadrà? Bè, ad ogni modo un risultato Brand l’ha già raggiunto: ritornare alla grande sulla scena dopo che era stato cacciato dalle televisioni nazionali per i suoi modi trasgressivi e vendere una caterva di libri. Do you remember Beppe Grillo?
di Luigi Pandolfi
fonte: Linkiesta