Sicuramente Barack Obama è un uomo compassionevole o, almeno, più compassionevole di molti altri capi del mondo.
Tuttavia nella sua idea di mettere in atto un’azione esemplare contro il presidente della Siria Bashar al Assad, al fine di punirlo per l’estrema ferocia manifestata nella repressione contro il suo stesso popolo, la compassione verso le vittime c’entra poco. E’ invece, quella compassione, un pretesto, in mancanza di altri, sbandierato per catturare dalla propria parte l’opinione pubblica mondiale; la mossa tipica di una grande potenza che continua a essere, nonostante il declino, di cui lo stesso Obama è ben consapevole, la maggiore grande potenza del mondo. Infatti avoca a sé con atto imperiale compiti che spetterebbero in primis – e non certamente nei termini militari in cui Obama li concepisce – alle Nazioni Unite. Che tuttavia, non a caso, latitano. Dei problemi di oggi l’indebolimento delle Nazioni Unite è magna pars.
Proprio per essere quello che sono, gli Usa continuano a trovarsi, volenti o nolenti, al centro di sempre più complessi interessi geostrategici. In un’area dalla quale avrebbero preferito sganciarsi, ma nella quale continuano ad operare con risultati a dir poco controversi. Dalle esternazioni di John Kerry in sostegno al “golpe” militare in Egitto, alle scarse chance di un negoziato tra Israele e Palestina voluto con forza da Kerry ma con prospettive di successoassai flebili. In più la Casa Bianca deve fronteggiare l’epocale processo di mutamento degli assetti mondiali, oggi in atto, a partire proprio da una zona del mondo resa caotica soprattutto dalle trascorse politiche di grande potenza degli Stati Uniti. Obama non può farne a meno – così almeno lui crede – anche se le finalità della mission siriana sono tutt’altro che chiare e definite agli stessi suoi occhi.
Intervento inderogabile nel caso di vittime da armi chimiche: la red line della pazienza statunitense, ripetuta come un mantra nei mesi trascorsi, e più volte messa a prova in passato dalla diffusione di notizie circa il presunto uso di gas tossici, è oggi rilanciata con forza (ma non a caso una forza piuttosto titubante) da Obama, per giustificare l’azione punitiva contro Assad. Azione punitiva che è anche un messaggio all’Iran, alle sue intenzioni di dotarsi di altra arma di distruzione di massa, la atomica. Nel frattempo, nei più di due anni di guerra civile che hanno crudelmente coinvolto e sconvolto la Siria, le vittime da armi convenzionali e da atrocità di ogni tipo sono state, secondo l‘Onu, centomila, per oltre il settanta per cento civili; i profughi un numero esorbitante, di cui, sempre secondo i calcoli dell’Onu, un milione i bambini e le bambine. Tutto questo avveniva mentre la protesta contro il regime di Assad, nata democratica e popolare, si è via via avvelenata per infiltrazioni di ogni tipo, provenienti dalla galassia islamista radicale, fondamentalista, terrorista. Una guerra civile alimentata con uomini e mezzi da campi opposti. Per Assad l’Iran, per l’opposizione ad Assad la Turchia, ingombrante alleato NATO ma ormai attore regionale che prova a giocare in autonomia rispetto a Washington e spera di ricavare vantaggi nel Nord della Siria, il Qatar, l’Arabia Saudita. Nel frattempo le potenze occidentali si sono mantenute in una posizione più o meno defilata. più che altro preoccupate delle conseguenze di una caduta del regime di Assad sui fragili assetti dell’area, in particolare per quanto riguarda gli interessi di Gerusalemme.Le armi della diplomazia, delle pressioni politiche che contano davvero, della battaglia in sede Onu per costruire luoghi modi occasioni di dialogo: tutto accantonato. Forse speravano che la rivolta, su cui avevano scommesso, riuscisse a far cadere il regime per un regime più amico dell’Occidente. Ma così non è stato. Oggi gli Usa – e chi dovesse accodarsi a Obama nella partita punitiva contro Damasco – avrebbe come alleati forze nel frattempo dilagate nel Paese analoghe a quelle contro cui da tempo l’Occidente combatte in altri noti teatri di guerra. Un paradosso? Fino a un certo punto, se guardiamo alla storia.
Forse dal lavoro degli ispettori dell’Onu si saprà se effettivamente siano state usate armi chimiche contro quei bambini avvolti nei loro sudari, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Meno facile sarà stabilire con certezza chi delle parti in campo le abbia usate, se la responsabilità sia direttamente imputabile ad Assad o quale filiera di potere di quel regime se ne sia resa responsabile e perché. Ma tutto questo conta ormai poco. Infatti la logica di guerra, che alimenta l’indignazione mediatica per le vittime innocenti, è soltanto quella di fornire le prove della “pistola fumante” e chi sia davvero il responsabile dell’azione inumana è del tutto irrilevante. Successe con il rais di Bagdad Saddam Hussein e le sue inesistenti “weapons of mass destruction”, come cercarono di attestare gli ispettori dell’Onu, capeggiati da Hans Blix. Conta invece per il presidente Obama l’urgenza delle decisioni da prendere, che a un certo punto, per stringenti logiche politiche interne e esterne, diventano irrimandabili; e conta il dover fare i conti, all’interno del suo Paese, con le critiche crescenti dei falchi di tutte le specie che lo vogliono inchiodare e delegittimare sulla politica estera, e non da ultimo dell’establishment militare, mentre all’esterno, le contraddizioni in quella decisiva zona del mondo che è il Medio Oriente, rischiano di moltiplicarsi e diventare del tutto incontrollabili.
Si gioca insomma là una partita ben più impellente, oggi almeno, di quella che Obama sta cercando di costruire come prioritaria per gli Usa intorno al “perno asiatico” da lui individuato, non senza ragioni dal suo punto di vista, nella Cina che avanza.
Ma oggi la Siria è un tutt’uno con tutte le problematiche più incandescenti dell’agenda politica. Sia pure poco amata dall’Iran è alleata di Teheran, e ha non poco a che fare con gli interessi di quel Paese. E’ il cuscinetto dell’Iran, lo sbocco nel Mediterraneo dell’Iran, il ponte di collegamento dell’Iran con Hezbollah in Libano. Per quanto l’azione punitiva a cui Obama pensa voglia essere, a sentire il presidente nero, solo dimostrativa, le conseguenze potranno essere dirompenti perché dirompente è già il contesto. Non a caso Israele non ha alzato troppo la voce contro il regime siriano impegnato in una crudele repressione dei ribelli proprio perché teme l’ingovernabilità regionale che ne potrebbe sortire più di quanto non tema l’odiato Assad.
Il Medio Oriente continua a essere il ponte strategico tra Europa ed Asia. Le sue ricchezze petrolifere ne fanno il più grande deposito di oro nero che esista al mondo e la sua storia condensa emblematicamente l’intreccio e oggi il crescente conflitto tra le grandi religioni monoteiste. In più è là che oggi si evidenziano le dinamiche di contrapposizione sempre più aspre che si sono aperte nell’Islam tra Sciiti e Sunniti.
Senza dimenticare ovviamente la Russia, per storia vicino alla Siria, in più interessata a non essere estromessa dal Mediterraneo oltre a temere una qualche malevola influenza dell’estremismo politico di stampo islamista sulle popolazione musulmane della propria parte caucasica.
Dopo i disastri della politica neocon, del bushiano Nuovo Ordine Mondiale, della guerra infinita e via discorrendo, il presidente Barak Obama aveva orientato la sua politica estera alla necessità di un cambio di paradigma nei rapporti con il resto del mondo, abbandonando l’unilateralismo bellicista del suo predecessore e alimentando quel multilateralismo della condivisione che il suo predecessore George W. Bush aborriva. Era in qualche modo la rinuncia a far assumere agli Usa il compito di agente stabilizzatore a tutto campo dei conflitti, con l’obiettivo di coinvolgere più direttamente alleati e interlocutori nel tenere sotto controllo le zone di comune interesse strategico o di contiguità geografica.
E’ stato evidente nella spedizione in Libia, “affidata” a Francia e Gran Bretagna, con l’Italia al seguito, ed è stato evidente nella stagione delle primavere arabe, valutata e seguita dalla Casa Bianca per tutta una fase nell’ ottica prevalente del verificare come andassero le cose, con delega agli alleati. Ma le cose sono andate come sono andate: la Libia un disastro, che moltiplica a largo raggio, oltre quel Paese, disastri e convulsioni; l’Egitto – emblema della stagione delle rivolte – inghiottito nella spirale di infiniti conflitti e sanguinose contraddizioni, dopo essere stato per una breve stagione e per via elettorale nelle mani della Fratellanza musulmana, del tutto incapace di misurarsi con le istanze di più profondo rinnovamento democratico in qualche modo espresse da piazza Tahrir. Un paese oggi militarmente e sanguinosamente ripreso sotto controllo, come in un drammatico gioco dell’oca con al seguito persino il redivivo Hosni Mubarak, dalle Forze Armate. che sono l’unico vero potere forte del Paese, disposto a sostenere, o meglio a coincidere con la struttura portante di qualsiasi regime.
Il voto contrario della britannica Camera dei Comuni alla richiesta del premier Cameron di seguire gli Usa nella spedizione punitiva contro Damasco, contiene forse la memoria di quanto la Gran Bretagna, sempre fedele alleata degli Usa, abbia investito e sperperato di vite umane e fondi pubblici nelle guerre che abbiamo alle spalle. E di dignità istituzionale, viste le menzogne di cui si rese responsabile a suo tempo il premier Blair per convincere il suo Paese alla guerra in Iraq. Guerre che non hanno prodotto nulla in rapporto a quanto veniva sbandierato come motivazione – diritti umani, diritti della donne, esportazione della democrazia, fine del terrorismo e altro – anzi hanno lastricato di guai le vie del mondo.
C’è soprattutto bisogno di memoria e saggezza, oggi, è già sarebbe un buon punto di partenza per affrontare problemi come quello della Siria e gli altri.
di Elettra Deiana