Se l’obiettivo è quello di creare lo stato islamico dell’Iraq e del Levante, l’offensiva lanciata dall’ISIS il 5 giugno nella città di Mosul è il primo passo: conquistare terreno. Ad oggi, il gruppo armato che vanta una travagliata relazione con al-Qaida controlla parte delle città di Falluja, Mosul e Tikrit oltre ad una parte del territorio nel governatorato di al-Anbar, la provincia principalmente sunnita ad ovest del paese.
Con il nome di al-Qaida in Iraq, quello che ora è l’ISIS iniziò ad operare in Iraq nel 2002, prima dell’invasione e occupazione americana, sotto la guida di Abu Musab al-Zarqawi. La strategia americana per combattere l’insurrezione negli anni peggiori della guerra civile in Iraq (2006-2008) portò le forze di occupazione a riprendere il controllo del paese, ma non cancellò del tutto l’organizzazione armata.
Lo scoppio della guerra civile in Siria rappresentò, per l’ISIS, una nuova occasione per lanciare la sua controffensiva e perseguire l’obiettivo di creare uno stato islamico nel territorio dell’Iraq e della Siria. L’organizzazione Jabhat al-Nusra operativa principalmente in Siria dal 2012 ha rappresentato il punto di scontro e di rottura tra l’ISIS e al-Qaida, essendo entrambe le organizzazioni interessate a esercitare il proprio controllo su di essa, che attualmente rimane divisa in fazioni.
L’offensiva dell’ISIS è infatti iniziata da ovest, dove il lungo e poroso confine con la Siria non permette alle forze di sicurezza irachene di controllare il flusso di persone e di armi.
Controllare Mosul non è solo importante simbolicamente, essendo la seconda città più grande in Iraq, ma ha anche un importanza strategica. Mosul come Falluja sono importanti centri sulle principali arterie del paese, verso Nord e Ovest: la prima si trova sulla Route 1 che da Baghdad attraversa l’importante raffineria di Bayji, appunto Mosul, per portare poi al confine con la Siria, vicino alla Turchia. Falluja si trova, invece, sulla Route 10 che da Baghdad attraversa il cosiddetto triangolo sunnita per arrivare al confine con la Giordania.
Entrambe le città sono quindi fondamentali anche per controllare il commercio e il passaggio di merci, persone e armi oltre il confine.
La minaccia dell’ISIS mostra in modo evidente la debolezza dello stato iracheno (e i limiti degli interventi esteri per la ricostruzione dello stato), che oltre a non essere riuscito a creare coesione, ha perso anche il monopolio dell’uso della forza all’interno del proprio territorio.
L’esercito, creato e addestrato dagli stessi statunitensi dopo il controverso scioglimento dell’esercito di Saddam Hussein, è a dir poco in flagrante difficoltà.
Impressionante è il numero delle diserzioni al suo interno: i soldati sono scappati da Mosul abbandonando armi, veicoli e divise e lasciando almeno 5 basi in mano all’ISIS. Ma le difficoltà nell’esercito risalgono all’operazione nella provincia di al-Anbar. Secondo quanto riportato sul New York Times, “prima che le truppe si dissolvessero a Mosul, l’esercito perdeva circa 300 soldati al giorno, tra diserzioni, morti, e feriti” mentre il governo cercava di minimizzare la situazione.
A ciò si aggiunge la crisi umanitaria: secondo l’UNHCR sono almeno 500.000 le persone che hanno abbandonato la città. Tutto ciò aggrava una situazione già tesa, dove i combattimenti nella provincia di al-Anbar a partire da gennaio 2014 hanno aumentato il numero di sfollati interni che sono circa 1milione di persone.
La regione curda, dove si stanno dirigendo la maggior parte delle persone, è particolarmente sotto stress. Non solo Mosul è molto vicina ai suoi confine, ma è anche l’area del Paese più sicura, e per questo una delle principali mete di rifugio. Senza dimenticare che il Kurdistan iracheno ospita già un crescente numero di rifugiati dalla Siria (circa 220.000).
Nuri Al-Maliki deve affrontare tutto ciò in un momento non semplice.
Impegnato infatti nella formazione di un governo che sappia, in primis, rispondere alla crisi, il premier ancora in carica ha ricevuto le critiche dal governo curdo, le cui forze erano disposte ad intervenire ma non sarebbero state autorizzate da Baghdad. Stando però alle parole del governatore di Mosul, Atheel Al-Nujafi, “Al-Maliki avrebbe dato il suo assenso all’intervento dei peshmerga (forze curde)”.
Queste, nelle ultime ore, hanno dichiarato di aver strappato il controllo della città di Kirkuk – importante sito petrolifero – dalle mani dell’ISIS, e gli ufficiali non hanno mancato di sottolineare “l’assenza dell’esercito nazionale iracheno”.
I problemi per il premier, inoltre, non finiscono qui: convocato d’urgenza ieri, il parlamento non è riuscito ad approvare lo stato di emergenza in tutto il Paese come richiesto da Al-Maliki. Si sono presentati infatti soltanto 128 membri su 325, non abbastanza per raggiungere il numero legale per un voto di tale portata.
Ma la sfida maggiore per il nuovo governo iracheno non sarà solo riprendere il controllo sul proprio territorio. Il nuovo governo dovrà essere in grado di distinguere i militanti dell’ISIS dalla popolazione sunnita nel paese e iniziare un vero processo di riconciliazione con quest’ultima che garantisca una gestione egualitaria del paese, l’unico modo per sconfiggere definitivamente ogni movimento armato che beneficia delle tensione settarie nel paese.