Un genocidio. Quello in corso a Gaza è un crimine di guerra contro il popolo palestinese. Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, alza la voce e muove il primo passo a livello internazionale per fermare l’offensiva israeliana contro la Striscia. Una decisione a lungo rimandata, l’adesione alle organizzazioni e ai trattati internazionali che permetterebbero al governo di Ramallah di trascinare quello di Tel Aviv davanti alla Corte Penale Internazionale per chiedere giustizia. Ora quel passo, lasciato in standby per non interrompere il debolissimo processo di pace avviato a luglio 2013, potrebbe essere compiuto. Ieri in una riunione con i vertici dell’ANP, Abbas l’ha messo sul tavolo. Come sul tavolo ha messo anche la riconciliazione con Hamas: nessuno stop, ha detto il presidente, perché «il movimento islamista è il nostro fratello di armi».
«L’omicidio di intere famiglie è un genocidio da parte israeliana contro il popolo palestinese – ha detto Abbas durante il meeting d’emergenza a Ramallah – Quello che sta avvenendo è una guerra contro la gente e non contro le fazioni o i miliziani. Israele non sta difendendo se stesso, sta difendendo il progetto coloniale. Stiamo prendendo provvedimenti per fermare l’aggressione israeliana, compreso il dialogo con il presidente egiziano Al-Sisi e il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon».
Abbas ha parlato ieri mattina al telefono con Il Cairo per chiedere al nuovo presidente di mediare il cessate il fuoco, come nel novembre 2012 fece il predecessore Morsi. Ma Al-Sisi, seppur si sia subito affrettato a condannare l’offensiva israeliana, ha messo le mani avanti: l’Egitto non medierà la tregua seppure abbia mosso i propri contatti per fermare l’offensiva, ha annunciato il portavoce del Ministero degli Esteri, Badr Abdel-Atty. A monte, le cattive relazioni con Hamas, braccio palestinese dei Fratelli Musulmani, che nell’ultimo anno ha sofferto – come l’intera popolazione gazawi – delle politiche del nuovo esecutivo egiziano, figlio del golpe anti-islamista. Mentre l’esercito distruggeva i tunnel sotterranei, unico ingresso a Gaza di beni di prima necessità e carburante, fondamentale a sopravvivere all’embargo imposto da Tel Aviv, Il Cairo introduceva durissime restrizioni contro Gaza, in primis la chiusura a tempo indeterminato del valico di Rafah tra l’Egitto e la Striscia.
Dall’altra parte del confine con i Territori Palestinesi, interveniva anche il secondo paese arabo che come l’Egitto ha firmato con Israele un trattato di pace. La Giordania ha fatto appello per la fine immediata dei bombardamenti dell’aviazione israeliana contro la Striscia: «Amman condanna l’aggressione militare che Israele ha lanciato contro Gaza – ha detto il portavoce governativo, Mohammed Momani – Un atto barbarico che avrà ripercussioni sull’intera regione. Israele viola il diritto internazionale e ostacola gli sforzi di pace». Parole quasi dovute a cui sono seguite quelle del nemico numero uno di Tel Aviv, l’Iran, che ieri il premier Netanyahu ha accusato di essere il primo rifornitore di missili alle fazioni palestinesi: «Stiamo assistendo all’escalation della selvaggia aggressione sionista contro il popolo innocente di Palestina», ha commentato il portavoce del Ministero degli Esteri.
E mentre a Gaza si muore, in Cisgiordania la tensione resta altissima. Le notti sono teatro di violenti scontri tra esercito israeliano e palestinesi, nei campi profughi di Aida, Dheisha, Qalandiya. La risposta israeliana è la solita: gas lacrimogeni e, sempre più spesso, proiettili veri. Ieri all’alba, vicino alla colonia di Beit El, alle porte di Ramallah, undici giovani sono rimasti feriti durante scontri con i soldati israeliani, seguiti all’incendio appiccato contro una torretta militare.
Si moltiplicano i raid in Cisgiordania, da Nablus a Jenin fino a Hebron, e con loro gli arresti, in particolare di palestinesi considerati da Tel Aviv membri di Hamas o suoi sostenitori. Dietro le sbarre martedì è tornato anche Khader Adnan, ex prigioniero che condusse un lungo braccio di ferro con le autorità israeliane e che ottenne il rilascio dopo mesi di sciopero della fame. Raid anche a Gerusalemme Est, dove il target sono i minori: a Silwan, Beit Safafa e Wadi Joz in poche ore sono finiti in manette almeno cinque bambini accusati di aver lanciato pietre. Trentuno gli arresti nella Città Santa solo nella giornata di ieri.
Tante le manifestazioni in solidarietà con Gaza, ma sono molto pochi quelli che immaginano un’escalation a breve delle proteste in Cisgiordania. Numerose, ma circoscritte: in tanti restano convinti che una Terza Intifada non possa scoppiare ora; il ricordo della precedente, degli interminabili coprifuoco, degli assedi violenti, delle uccisioni e delle bombe sulle città palestinesi è ancora caldo. A questo si aggiunge il ruolo finora svolto dall’Autorità Palestinese, “cane da guardia” israeliano, impegnato negli ultimi anni a reprimere ogni forma di dissenso nella consapevolezza che una possibile insurrezione finirebbe per far crollare il governo di Ramallah, che ormai gode di un consenso pressoché nullo nei Territori Occupati.
di Chiara Cruciati
( Fonte: NenaNews )