La recente sentenza di un tribunale d’appello americano sta rischiando di sconvolgere i mercati del debito sovrano a livello globale a tal punto che gli Stati Uniti potrebbero non essere più visti come un contesto idoneo per la sua emissione. Una simile decisione rende quantomeno impraticabile qualunque ristrutturazione del debito nell’ambito dei contratti di debito standard, e ribalta completamente un principio basilare del capitalismo moderno – quando i debitori non riescono a rimborsare i creditori serve un nuovo inizio.
I problemi sono iniziati una decina di anni fa, quando l’Argentina si vide costretta a svalutare la propria moneta e a dichiarare lo stato di default sul proprio debito. Sotto il regime esistente, il paese aveva iniziato una rapida spirale discendente, del tipo ormai ben conosciuto in Grecia e in altre parti d’Europa. La disoccupazione era alle stelle e l’austerità, anziché ripristinare la stabilità fiscale, aveva finito per esacerbare la crisi economica.
La svalutazione e la ristrutturazione del debito, però, sortirono gli effetti sperati. Negli anni successivi, e fino allo scoppio della crisi finanziaria globale nel 2008, la crescita annua del Pil argentino era all’8% o superiore, uno dei tassi più rapidi del mondo.
Anche gli ex creditori beneficiarono di questa ripresa. Con una mossa fortemente innovativa, l’Argentina scambiò debito vecchio con debito nuovo – a circa 30 centesimi per dollaro – più cedole indicizzate al Pil. Quanto più l’Argentina cresceva, tanto più i suoi ex creditori ci guadagnavano.
Gli interessi del paese e quelli dei creditori erano, dunque, allineati: volevano entrambi la crescita. Il caso argentino fu l’equivalente di una ristrutturazione del debito societario americano ex Chapter 11, in cui il debito viene scambiato con azioni e altre partecipazioni, e gli obbligazionisti diventano nuovi azionisti.
Le ristrutturazioni del debito comportano spesso conflitti tra le varie parti interessate. È per questo che, per le controversie interne sul debito, i paesi dispongono di leggi e tribunali fallimentari. Per quelle internazionali, però, non esiste alcun meccanismo del genere.
Un tempo, questi contratti venivano applicati con la forza delle armi – Messico, Venezuela, Egitto e una serie di altri paesi lo hanno imparato a caro prezzo nel XIX e all’inizio del XX secolo. In seguito alla crisi argentina, l’amministrazione del presidente George W. Bush bandì qualunque proposta per la creazione di un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano. Di conseguenza, non c’è neppure il pretesto per tentare ristrutturazioni eque ed efficaci.
In genere, i paesi poveri si trovano in una posizione di forte svantaggio nella contrattazione con i grandi istituti di credito multinazionali, solitamente sostenuti dal governo del paese di origine. Spesso, poi, i paesi debitori vengono spremuti così tanto per ripagare il debito che, nel giro di pochi anni, finiscono nuovamente in bancarotta.
Gli economisti applaudirono il tentativo dell’Argentina di evitare questa fine attraverso una profonda ristrutturazione del debito accompagnata da cedole legate al Pil. Tuttavia, alcuni fondi “avvoltoio” – tra cui il famigerato hedge fund Elliott Management, guidato dal miliardario Paul E. Singer – videro nei travagli del paese un’opportunità per realizzare enormi profitti a spese del popolo argentino. Pertanto, essi acquistarono le vecchie obbligazioni a una frazione del loro valore nominale, quindi ricorsero al contenzioso per cercare di costringere l’Argentina a pagare cento centesimi per dollaro.
Gli americani si sono resi conto di come le società finanziarie mettono i propri interessi davanti a quelli del paese, e del resto del mondo. I fondi avvoltoio hanno innalzato l’avidità a livelli mai toccati finora.
La loro strategia di contenzioso si è avvalsa di una clausola contrattuale standard (chiamata del pari passu), volta a garantire che tutti le parti in causa siano trattate allo stesso modo. Incredibilmente, la Corte d’Appello degli Stati Uniti per il Secondo Circuito di New York ha decretato che ciò significava che se l’Argentina avesse ripagato in toto gli importi dovuti a coloro che avevano accettato la ristrutturazione del debito, avrebbe dovuto corrispondere per intero quanto doveva agli avvoltoi.
Prevalendo questo principio, nessuno accetterebbe mai di ristrutturare il debito, e neppure ci sarebbe mai un nuovo inizio, con tutte le spiacevoli conseguenze che questo comporta.
Nelle crisi del debito, la colpa tende a ricadere sui debitori, perché hanno preso in prestito troppo. Tuttavia, i creditori sono ugualmente da biasimare, perché hanno prestato troppo e in modo imprudente. Di fatto, i creditori dovrebbero essere esperti nella gestione e valutazione dei rischi e, pertanto, l’onere dovrebbe gravare su di loro. Il rischio di default o di ristrutturazione del debito induce i creditori a essere più attenti nelle decisioni associate al prestito.
Le ripercussioni di questo fallimento della giustizia possono continuare ad avvertirsi per lungo tempo. Dopotutto, quale paese in via di sviluppo che abbia a cuore gli interessi a lungo termine dei suoi cittadini sarà disposto a emettere obbligazioni attraverso il sistema finanziario americano, quando le corti degli Stati Uniti – così come tanti altri aspetti del suo sistema politico – sembrano consentire che gli interessi finanziari surclassino l’interesse pubblico?
I paesi farebbero bene a non includere la clausola del pari passu in futuri contratti di debito, almeno se non è specificato cosa significa. Tali contratti dovrebbero anche includere clausole di azione collettiva, che rendono impossibile per i fondi avvoltoio ritardare la ristrutturazione del debito. Quando una quota sufficiente di creditori acconsente a un piano di ristrutturazione (nel caso dell’Argentina, si è trattato dei titolari di oltre il 90 % del debito del paese), gli altri possono essere costretti ad accettare di conseguenza.
Il fatto che il Fondo Monetario Internazionale, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e le ONG che combattono la povertà si siano uniti per contrastare i fondi avvoltoio la dice lunga. Tuttavia, la dice lunga anche la sentenza del tribunale, che evidentemente ha attribuito scarso peso ai loro argomenti.
Per coloro, nei paesi in via di sviluppo e con mercati emergenti, che nutrono rancore nei confronti dei paesi avanzati, ora c’è un motivo in più per essere scontenti di un marchio della globalizzazione gestito per servire gli interessi dei paesi ricchi (in particolare, quelli del loro settore finanziario).
All’indomani della crisi finanziaria globale, la Commissione di esperti delle Nazioni Unite sulle riforme del sistema monetario e finanziario internazionale ha esortato a creare un sistema per la ristrutturazione del debito sovrano improntato all’efficienza e all’equità. La decisione tendenziosa ed economicamente pericolosa del tribunale americano dà ragione del perché abbiamo bisogno di un simile sistema adesso.
di Joseph E. Stiglitz
da: www.project-syndicate.org/