Pubblichiamo un estratto de “I panni sporchi della sinistra. I segreti di Napolitano e gli affari del Pd” di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere). Gli autori affrontano il tema della mutazione antropologica della sinistra italiana attraverso un lavoro d’inchiesta e un’analisi rigorosa che non risparmia Matteo Renzi, da ieri segretario del Partito Democratico.
Il primo dei pretesti del saggio recita: “Io sto dalla parte di Marchionne”. Matteo Renzi, gennaio 2011.
Le affinità elettive di Letta e Renzi sono evidenti, non bastasse il convinto sostegno all’«Agenda Monti oltre il 2013» con i politologi Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti, il dalemiano Claudio Petruccioli, il rutelliano Paolo Gentiloni e l’ex leader Udc Marco Follini. In particolare è l’onorevole Pietro Ichino, giuslavorista già nel mirino delle Brigate rosse, a confidare in Renzi per realizzare una svolta liberale nel mercato del lavoro e di abbattimento della spesa pubblica. Enrico Letta invita il sindaco di Firenze alla convention di VeDrò, preoccupando gli ex popolari Bindi, Fioroni e Marini, che secondo i renziani dovrebbero andare in pensione. Tuttavia, con mossa tipicamente democristiana, Letta conferma l’appoggio a Bersani. Sul web Pietro Ichino lo attacca, prendendo spunto dalla
lettera di un’elettrice indignata: «Davvero non ha argomento migliore per contrastare la candidatura di Matteo Renzi, se non la preoccupazione per l’unità del Pd? […] Non pensa Enrico Letta che sia, alla lunga, assai più “divisiva” per il Pd la linea del vertice attuale del Pd, che in parlamento appoggia le riforme del governo Monti, ma non sembra capace di assumere l’impegno chiaro e netto di porre la strategia europea di Mario Monti al centro del proprio programma per la prossima legislatura (come invece fa Renzi in modo molto esplicito)?». La risposta di Letta è un attacco diretto a Ichino: «Utilizzi parole riportate in modo confuso e di seconda mano per mettermi in bocca cose che evidentemente ti sono utili solo per i tuoi fini. Se mi avessi chiesto cosa penso sul tema delle primarie, ti avrei risposto semplicemente con quel che penso. E cioè che sono state una grande scelta. Una salutare, sacrosanta occasione di democrazia e partecipazione che renderà più forte il Pd rispetto ai nostri avversari e rispetto all’antipolitica […]. Ritengo che quella di Bersani, sia in quanto leader del partito più grande, sia per la sua naturale capacità inclusiva, sia la candidatura migliore per la premiership».Questo dibattito è la conferma della mutazione antropologica della sinistra, che appoggia il tecnocrate Monti e poi, il 28 aprile 2013, produce il governo Letta. Dopo Marx, vanno in soffitta anche le prospettive di John Maynard Keynes e del socialismo europeo
(…) Gli esperti di promozione elettorale non avrebbero saputo inventarsi di meglio. Matteo Renzi è l’immagine vincente del ragazzo della porta accanto che buca il video contro l’intera casta politica. Brillante, a tratti irriverente come da tradizione toscana, nei sondaggi è apprezzato anche da una parte dell’elettorato di centrodestra. Secondo lo schema tradizionale, il sindaco che vuole «rottamare» la nomenklatura apparterrebbe a una minoranza centrista che ha saputo comunicare oltre. Ma questa visione non tiene conto della sua «immacolata concezione» politica. Renzi, classe 1975, si è formato nella Seconda repubblica, dunque non rivendica radici «cattocomuniste» né si preoccupa di autocritiche e revisionismi. Si presenta scevro da imbarazzi nei laboratori tessili di Prato in crisi per la spietata concorrenza cinese e allo stesso tempo stringe le mani della finanza speculativa; incontra in forma privata Silvio Berlusconi e sogna convention a braccetto con Barack Obama. In pratica, va a occupare lo spazio che fu di Walter Veltroni, promotore della «svolta americana» del Partito democratico, ma senza il suo passato.
Renzi cresce a pane e Dc a Rignano sull’Arno, piccolo comune nelle campagne fiorentine. La sua famiglia è talmente anticomunista da evitare la spesa alla Coop quando si fanno roventi gli scontri tra il sindaco rosso e il padre Tiziano, consigliere democristiano. Boy scout, Matteo si diploma al liceo classico Dante e scrive con lo pseudonimo di Zac sulla rivista dei lupetti «Camminiamo insieme». Lavora nell’azienda fondata dal padre, la Chil Srl, specializzata in servizi di marketing, che distribuisce (con gli strilloni) il quotidiano «La Nazione». A livello politico milita nei Giovani popolari di Pierluigi Castagnetti, crescendo come delfino di due esponenti della sinistra democristiana: prima il deputato Giuseppe Matulli e poi il lettiano Lapo Pistelli, con il quale scrive il pamphlet Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. Nel 1999 sposa Agnese Landini, conosciuta in una gita estiva di scout. Cattolica osservante, prima di tre fratelli di cui uno sacerdote, Agnese diventerà insegnante di Lettere al liceo. Nello stesso anno Matteo si laurea in Giurisprudenza con una tesi su Giorgio La Pira, storico sindaco cattolico del capoluogo toscano negli anni Cinquanta. Sempre nel 1999 viene nominato segretario provinciale del Partito popolare. In seguito, l’enfant prodige della politica toscana, coordinatore della neonata Margherita, si merita la fiducia dei Ds fiorentini, che nel 2004 lo appoggiano nella scalata alla presidenza della Provincia. Nelle settimane che precedono la candidatura per l’Ulivo, annunciata il 7 novembre, si registrano movimenti nell’azienda di famiglia: il 17 ottobre 2003 Renzi cede il suo 40 per cento di quote della Chil Srl, il 27 viene nominato dirigente della stessa impresa. La scontata vittoria nella Firenze «bianco-rossa» alle elezioni del giugno del 2004 comporta anche l’aspettativa concessa dalla Chil. Da quel momento la Provincia (e poi il Comune dopo la sua nomina a sindaco), verserà alla società una somma pari al rimborso dei suoi contributi. Non a Matteo, che si era prontamente sbarazzato delle sue quote, ma ai familiari. Una piccola arguzia che rende l’idea delle capacità dell’homo novus del centrosinistra italiano. Il bilancio di Renzi alla guida della Provincia è positivo per la riduzione delle imposte e delle spese burocratiche, ma resta una macchia: la condanna al pagamento di 50.000 euro inflitta dalla Corte dei conti al presidente e agli assessori. La cifra, nettamente inferiore alla richiesta della Procura contabile di due milioni 155.000 euro, riguarda il presidente Renzi per 14.000 euro in relazione a contratti a tempo determinato di quattro segretarie del suo team. Le giovani, prive di laurea, erano state inquadrate con un livello retributivo superiore ai titoli esibiti. La marcia di Renzi prosegue sino al municipio (giugno 2009) ed è trionfale, nonostante debba confrontarsi alle primarie con il suo mentore Lapo Pistelli. La promessa «o cambio Firenze o cambio mestiere e torno a lavorare» riassume gli slogan elettorali di efficienza gestionale e rinascimento culturale. Su tutti primeggia la grandeur, svanita subito dopo il voto, di realizzare la facciata della basilica di San Lorenzo proprio come l’aveva disegnata Michelangelo.
(…) È un dato di fatto che Renzi utilizzi le luci del governo di Firenze per lanciare il suo progetto politico di respiro nazionale. Indugiando tra le righe della sua carriera, intra/extra Florentia, emerge l’indole accentratrice e rapace. Il sindaco si ritrova da solo sul palco della Leopolda a fine ottobre del 2011, esattamente nei giorni in cui il governo di centrodestra sta per crollare. La scelta del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di non sciogliere le Camere consente a Renzi di guadagnare il tempo necessario per autoproclamarsi sfidante di Bersani alle primarie del Pd. Il sindaco di Firenze non è un presenzialista, ma sa gestire la comunicazione, non solo sul piccolo schermo, in cui si trova perfettamente a suo agio. I messaggi scritti al momento giusto sui social network sono il veicolo per raggiungere la generazione digitale, dettare i tempi della proposta o della polemica che poi rimbalza sul circuito mediatico. Il trasversalismo di Renzi è inclusivo: a «Il Foglio» di Giuliano Ferrara dice di ispirarsi a Steve Jobs, al congresso di Sel racconta che il suo esempio è don Peppe Diana, il prete ucciso dalla camorra. L’unica cosa che ripete ovunque, come un mantra, è l’agenda della «rottamazione»: tagliare gli sprechi, abolire i rimborsi elettorali ai partiti, pensionare ministri e parlamentari di lungo corso. Quest’ultimo tema è da tempo oggetto di dibattito nel Pd, che nel regolamento prevede un tetto massimo di tre legislature, una norma a cui si sottraggono, grazie alle deroghe, ben 34 parlamentari. Al netto dei toni aspri, però, le similitudini con Bersani sono maggiori delle discrepanze. Renzi non specifica in che modo e con quali strumenti si arriverebbe al taglio di vitalizi e privilegi né fornisce indicazioni sui progetti di meritocrazia, green economy e lotta all’evasione fiscale che rappresentano i suoi cavalli di battaglia. Con i dirigenti che dice di voler annientare, inoltre, condivide molto più di ciò che appare: il duplice ruolo politico (di sindaco e aspirante premier), il rapporto con il mondo della finanza e con Silvio Berlusconi. Nel dicembre del 2010 Renzi si reca privatamente ad Arcore, ospite nella villa di Berlusconi. Lo accompagna Enrico Marinelli, amministratore delegato dell’azienda tessile brianzola Frette. Quando la notizia trapela, Renzi riceve la bacchettata di Bersani sull’inopportunità della sede e cerca di giustificarsi ex post: «Dopotutto io ero sindaco di Firenze e lui il mio presidente, ho colto questa opportunità solo perché non volevo che un limite ideologico compromettesse la possibilità di risparmiare ben 33 milioni di euro utili per la collettività, non sarei riuscito a guardarmi più allo specchio». Il responsabile della campagna elettorale delle primarie 2012 di Renzi è il lettiano Roberto Reggi, ma la mente è Giorgio Gori, già direttore di Canale 5 e fondatore della casa di produzione Magnolia, che importa format popolari quali Il grande fratello e L’isola dei famosi. È sua l’idea, ufficialmente suggerita dal regista Fausto Brizzi, del tour fra la gente a bordo di un camper attrezzato, uno strumento già utilizzato negli anni Ottanta da Craxi per gli accordi interpartitici e, a distanza di vent’anni, da Romano Prodi per la colorita campagna itinerante dell’Ulivo. La sceneggiatura dei grandi eventi renziani è opera del direttore commerciale della Rai Luigi De Siervo, figlio del presidente della Corte costituzionale Ugo. Completano il quadro variegato dei simpatizzanti il costituzionalista Francesco Clementi, l’inventore di Eataly Oscar Farinetti, lo scrittore Alessandro Baricco, il cantante Jovanotti e il commissario tecnico della Nazionale di calcio Cesare Prandelli. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti adombra un sostegno finanziario dagli Stati Uniti, ricevendo l’immediata replica di Renzi su Facebook: «Barzellette, le spese sono online». Rimangono invece occulti per tutta la campagna elettorale i finanziatori della sua fondazione, la Big Bang. In seguito, quando l’elenco sarà reso pubblico, si scoprirà che fra loro c’è Davide Serra, golden boy della finanza a lungo all’opposizione nel colosso Generali e ideatore dell’hedge fund Algebris Investments Ltd, operante anche nel paradiso fiscale britannico delle isole Cayman. Davide Serra sponsorizza le primarie di Renzi organizzando una cena a numero chiuso che non passa inosservata. Bersani ne approfitta per attaccare lo sfidante per l’amico finanziere «con base alle Cayman». Alla cena partecipano imprenditori del calibro di Claudio Costamagna, presidente di Impregilo, Andrea Guerra, amministratore delegato di Luxottica, e banchieri come Flavio Valeri di Deutsche Bank e Carlo Salvatori di Lazard Italia, ex Unipol, Intesa e Unicredit. All’uscita Guido Roberto Vitale, già presidente Lazard e ricercato advisor, regala il fotogramma: «Renzi è l’unico uomo di sinistra che non ha letto Marx e per questo è da stimare”.
di Redazione