Dopo Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, anche il Piemonte si appresta a chiedere l’autonomia. Nel frattempo, fonti del governo fanno sapere che nel vertice di ieri a Palazzo Chigi, convocato proprio sul tema delle autonomie, le cose sarebbero andate molto bene in un clima collaborativo.
Dopo l’ubriacatura collettiva e trasversale sul federalismo fiscale dei primi anni duemila siamo arrivati alla follia dell’autonomia à la carte. Nemmeno la foglia di fico di un progetto di riforma organico dell’assetto istituzionale e fiscale del Paese.
Si profila uno scenario jugoslavo per l’Italia. Un Paese a brandelli, con alcuni pezzi integrati nella catena del valore europea a guida tedesca, e altri, il Mezzogiorno, lasciati alla deriva.
Lo vuole la Lega. Ma tutti gli altri, con l’eccezione di poche minoranze politiche e di alcuni intellettuali, chinano il capo oppure offrono il proprio silenzio. Il PD la vuole per l’Emilia Romagna e i suoi esponenti del Nord hanno votato SÌ ai referendum promossi da Zaia e Maroni. Il Movimento 5 Stelle venderebbe pure la madre pur di restare al governo.
Il sindacato, che pure ha fatto una manifestazione per il Sud a Reggio Calabria, non riesce a tirare fuori una posizione risoluta, senza se e senza ma, sulla questione, mettendo nel conto anche uno sciopero generale.
In questo momento, guai a dire che “l’autonomia è un fatto positivo purché non danneggi il Sud”. È una posizione ipocrita e arrendevole.
Non ha senso parlare di “autonomia” in un Paese segnato da un profondo divario tra Nord e Sud. E l’autonomia senza soldi non la vorrebbe nessuno, a cominciare da chi oggi la chiede.
Forse sarebbe il caso che gli intellettuali più schierati su questo fronte lanciassero un appello per una grande manifestazione nazionale, magari a Napoli, per dire NO a questo scellerato progetto e rilanciare il grande tema di un’Italia unita nelle opportunità, nella qualità dei servizi, nei diritti.