È di ieri sera la notizia della sentenza politica delle toghe di ermellino che conferma la condanna del Cavaliere B. per frode fiscale. E non c’è nulla di cui meravigliarsi: la magistratura comunista lo ha braccato per 18 anni, e alla fine ce l’ha fatta, nonostante il Patrocinio del Principe del Foro Avvocato Coppi.
L’inchiesta condotta dai valorosi giornalisti de il Giornale non ha dato finora frutti: il collegio di magistrati della Cassazione sarebbe stato composto da giudici di lungo corso e di tendenze moderate, tutti nati in Campania e Puglia. Nessuno proveniente dall’Emilia rossa o dall’ardente Romagna. C’era persino un sostituto generale sardo (difficile trovare un sardo sovversivo) con dichiarate simpatie per la corrente conservatrice dei giudici della quale è stato anche leader. Attendiamo però con ansia di sapere se quei magistrati facciano uso di calzini turchesi. Subito dopo la sentenza della Cassazione, il Presidente della Repubblica si è sentito in dovere di sollecitare al Parlamento la riforma della giustizia. D’altronde quella di ieri è stata la giornata più lunga di un caso giudiziario durato ben 10 anni. Napolitano ha ragione da vendere: è necessario risolvere i gravissimi problemi che attanagliano l’amministrazione della giustizia. Servono maggiori chance investigative per contrastare i più gravi reati economici, serve una giustizia più snella perché i processi non durino più un decennio, servono termini di prescrizione più lunghi per evitare che i delinquenti la facciano franca, serve una recisa depenalizzazione dei reati bagatellari per evitare l’intasamento delle Procure e servono più chance difensive per chi non può permettersi il Patrocinio del Principe del Foro Avvocato Coppi. Ci auguriamo che Napolitano non si riferisse invece a quella maleodorante riforma della giustizia che si prepara da tempo, quella che non permetterebbe più al pubblico ministero di iniziare l’inchiesta di propria iniziativa, senza un rapporto della polizia giudiziaria. Insomma, se può risultare troppo sgarbato abolire l’obbligatorietà dell’azione penale e cancellare l’indipendenza del pubblico ministero, si sceglierebbe in quel modo la via indiretta, meno vistosa ma altrettanto efficace, di affidare le indagini alla polizia, diretta dal potere esecutivo. Le prove saranno raccolte dai cervelli polizieschi sotto l’occhio vigile del governo, mentre il magistrato si trasformerà col tempo nell’avvocato dell’accusa. Il tutto senza troppo clamore, con qualche ritocco appena visibile. Se l’art. 109 Cost. («l’autorità giudiziaria dispone direttamente» della polizia giudiziaria) può sembrare d’intralcio, basta toglierselo dai piedi. Ma a chi gioverebbe una simile riforma? Cui prodest?, si chiederebbero i nostri antenati. Non certo ai poveri cristi, che continueranno ad essere sanzionati con punizioni esemplari. La norma sarà certamente gradita a ricchi, boiardi e confratelli, che già adesso la fanno spesso franca. Intanto, la federazione dei Cavalieri del lavoro ci fa sapere che la condanna penale definitiva è motivo di cancellazione e che un’apposita commissione esaminerà il caso del Cavaliere B. Peccato, da vent’anni eravamo abituati a chiamarlo Cavaliere B. e sarà un vero dramma chiamarlo soltanto B. Il nostro, si sa, è un paese conservatore.