Il Ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato dichiara al Sole24Ore di non capire lo scetticismo nei confronti dell’operazione Fiat-Chrysler perché invece aprirebbe nuove prospettive per quello destinato ad essere l’ottavo (secondo altri il settimo, ma il ministro si tiene prudente) gruppo mondiale dell’automotive. Proviamo sommessamente a spiegare perché invece l’operazione presenta assai più di un lato critico.
In effetti diversi hanno giudicato l’accordo storico. Ma per chi? Sarebbe questa la prima domanda da porsi. Certamente non per i lavoratori degli stabilimenti italiani la cui sorte è più che mai pericolante, al punto che lo stesso Zanonato si propone di chiedere a Marchionne precise garanzie. Che è come chiudere la stalla quando i buoi sono già fuggiti. Né per i tanti piccoli produttori dell’indotto Fiat, molti dei quali ex lavoratori dipendenti dei tempi d’oro di Mirafiori.
Difficilmente si può dire che si tratta di un successo per l’Italia, visto che l’ottavo gruppo si sposta interamente negli States e la penetrazione nel mercato europeo dei suoi prodotti appare ancora più circoscritta per i motivi che dirò tra poco.
Anche riportando indietro l’orologio di alcuni decenni, quando si diceva che ciò che andava bene per la Fiat andava bene per l’Italia, i conti non tornano. Perché qui non è la Fiat a vincere, quanto, casomai, la famiglia Agnelli e Marchionne. Le azioni del gruppo hanno fatto un balzo positivo e l’amministratore delegato aumenterà certamente i suoi bonus e il suo prestigio.
Ma con qualche ombra anche su quest’ultimo versante. In fondo il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per cedere la sua quota. Marchionne ha chiuso a 4,35, dopo avere dichiarato che il tutto non valeva più di due miliardi. Quindi è Veba, il fondo sindacale, a potere cantare vittoria. Dalla sua il management ex torinese ha il sollievo che una parte consistente di quei soldi li ricaverà dalla Chrysler e quindi non dovrà, per ora, fare aumento di capitale. Si parla forse dell’emissione di un “convertendo”, ovvero di obbligazioni (bond) a conversione obbligatoria.
Ma è sul lato produttivo che si situano la maggiori magagne. Marchionne aveva dichiarato a suo tempo che per sopravvivere in quel settore bisogna sfornare un volume di sei milioni di autoveicoli. Siamo lontani da quella quota, visto che nel 2013 il gruppo di Detroit non è andato oltre i due terzi di quella cifra. Qualcuno già parla di un futuro accordo con General Motors, ma tutto è avvolto nell’incertezza.
Intanto resta il fatto che i modelli attualmente prodotti trovano spazio più che altro negli States e in Brasile. In Europa domina invece Volswagen in tutta la gamma dei prodotti automobilistici. Un’azienda nella quale, pur dopo anni di salari bloccati, un metalmeccanico guadagna almeno un terzo in più del suo omologo italiano e i suoi rappresentanti siedono nel consiglio di sorveglianza dell’azienda, anche se non sono tutte rose e fiori.
Più ancora che a un’americanizzazione della Fiat, siamo di fronte alla sua espulsione dal mercato europeo, mentre sui mercati emergenti della Russia e dei paesi asiatici il gruppo ha presenze poco più che testimoniali.
Insomma lo “storico accordo” più che una vittoria dell’italico ingegno, appare come la parabola conclusiva di una lunga sconfitta, maturata in anni di declino economico-produttivo, di finanziarizzazione delle scelte di utilizzo dei capitali, di mancati investimenti in modelli strutturalmente innovativi e di assenza di politiche industriali pubbliche degne di questo nome, da non confondersi cioè con gli incentivi generosamente dati dai vari governi italiani e che sono serviti esclusivamente ad aumentare la penetrazione nel nostro mercato di altre marche automobilistiche. Inutile piangere sul latte versato, ma ancora peggio scambiarlo per manna che viene dal cielo.
di Alfonso Gianni