Lampedusa non è solo l’estremo lembo dell’Italia e dell’Europa, la cosiddetta porta della penisola e del continente sull’altra sponda del Mediterraneo. E’ anche, come sa chiunque ci abbia messo piede per poche ore, un microcosmo delle contraddizioni feroci della globalizzazione. E’ un posto dove la presenza spettrale dei migranti rinchiusi e stipati nel centro di accoglienza convive, per molti mesi dell’anno, con la presenza spensierata dei turisti in vacanza. Dove l’incombenza quotidiana della morte convive con l’eterno presente dell’industria dello svago. Dove accade – è accaduto, tante volte – che i corpi dei vivi che si immergono nel mare si imbattano con i cadaveri che il mare sospinge verso le spiagge o sbatte sugli scogli. E’ il posto dove i corpi che contano, e che si contano uno per uno perché equivalgono ad altrettanti consumatori di alberghi, bar, creme abbronzanti e spay antizanzara, si muovono contigui a quelli che non contano, e che si contano a grappolo, a decine o a centinaia quando arrivano dal mare vivi o morti, senza singolarità senza nome senza storia. E’ un posto dove noi europei arriviamo con un trolley carico di tutti i nostri (vacillanti) diritti, e loro, i migranti, arrivano senza neanche il diritto a essere sepolti e compianti.
Chiamata ”frontiera d’Europa” dai nostri politici che non sanno di che parlano, Lampedusa è dunque precisamente il posto dove l’idea di frontiera e di confine si vanifica, dissolta dal mare. Obbedendo a un nome più antico della geopolitica, il Mediterraneo – mare di mezzo, e di mediazione – rimescola quello che i confini della politica e della legge pretendono di dividere. Non c’è sovranità statuale che tenga, a Lampedusa. Non c’è legge di Schengen che valga, nel mare di mezzo. Non c’è barriera di cittadinanza possibile, dove il proprio dei diritti si perde nel nostrum del mare. Dove il mare restituisce la contiguità fra la vita e la morte che sta alla radice dell’umano, lì le politiche di distribuzione gerarchica e annichilente dei diritti, cento a noi e zero ai migranti, getta la maschera e si mostra per quello che è: una tanatopolitica basata, né più né meno che ad Auschwitz, sulla pretesa sadica di dividere gli umani in più umani, ”noi”, e meno umani, ”loro”. Nessuna retorica dell’orrore, nessuna morale della vergogna, nessun elogio dell’eroismo dei lampedusani, nessuna proclamazione del lutto nazionale sono credibili se non sono sostenuti da una chiara ed esplicita autodenuncia delle connivenze della politica italiana con questa tanatopolitica che ha tristi e mai del tutto estirpate radici europee. Il Papa, che non legifera, può vergognarsi e appellarsi alla nostra vergogna, a un senso di colpa collettivo, a un collettivo desiderio di espiazione; il governo, il parlamento, la presidenza della Repubblica no. Se si vergognano, com’è auspicabile, hanno il dovere di dimostrarlo con gli atti, in primo luogo disfacendo quello che hanno fatto fin qui. L’immediata cancellazione della Legge Bossi-Fini e del reato di immigrazione clandestina sono la premessa necessaria, urgente e improrogabile di qualunque discorso sulla politica dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’asilo politico.
La piega che il discorso pubblico sta prendendo sui fatti di Lampedusa è invece tutta un’altra, e non solo a destra. Il ministro dell’interno, di fronte ai cadaveri allineati, sordo alle parole inequivoche della sindaca di Lampedusa e del governatore della Sicilia, dice e ripete che il problema non è la Bossi-Fini, che con ogni evidenza non intende toccare, ma il coinvolgimento dell’Europa ”nella condivisione della tragedia”. Ci si rivolge dunque all’Europa in una prospettiva doppiamente sbagliata: invocando a scopi meramente repressivi un di più di quella sovranità che le migrazioni sfidano, come se per superare la crisi dello stato sovrano bastasse allargarne i confini dalle singole nazioni alla Ue; e invocando la logica della riduzione del danno di fronte a un fenomeno che non è un danno e non è riducibile. Alla Ue bisogna imporre viceversa lo sfondamento dell’Europa-fortezza, la cancellazione delle leggi che consentono la libera circolazione delle merci ma impediscono quella degli esseri umani, la promozione di politiche dell’asilo nei confronti di masse di rifugiati che provengono da quegli stessi paesi in cui l’Europa fomenta le guerre, l’apertura di corridoi umanitari. E una completa rotazione del discorso sulle migrazioni, che finalmente le guardi come una risorsa necessaria per un continente altrimenti destinato a un inarrestabile declino demografico, e non come un danno da limitare o una tragedia da reprimere.
di Ida Dominijanni
Da: http://www.centroriformastato.org