Il sociologo Zygmunt Bauman, padre putativo del movimento giovanile e degli “indignados”, ha con la sua teoria di “società liquida” valutato che il divario tra le imprese finanziarie e la politica permetterebbe alla globalizzazione di trasformarsi in una forza dirompente, a livello mondiale; egli ha, poi, ammonito, riflettendo sul fatto che “i politici sembrano marionette o incompetenti, se non proprio corrotti”, che le nuove generazioni non devono far prevalere l’emozione, perché questa “va bene per distruggere, ma non per costruire qualcosa”.
I giovani devono, anzi, assumere la consapevolezza che bisogna, a ogni livello, “preparare il terreno alla costruzione” di un nuovo gruppo dirigente. “La paura diffusa che emana dall’incertezza umana e il suo condensarsi in paura dell’azione” non può durare a lungo. All’opposto, per Bauman quantunque la società sia “liquida” e indefinibile e la storia abbia condotto l’uomo in una situazione di fragilità del tutto inedita, ci sarebbe, tuttavia, qualcosa di “solido” e “vecchio” che sarebbe una bussola quanto mai attuale, vale a dire “il socialismo”. In un’intervista al “Corriere della Sera”, Bauman afferma: “C’è più bisogno di socialisti da che è caduto il Muro di Berlino”. Egli continua: “Prima il comunismo è stato con il fiato sul collo del capitalismo producendo un meccanismo di ‘controllo ed equilibrio’ che ha salvato il capitalismo stesso dall’abisso. Ora è indispensabile il socialismo: non lo ritengo un modello alternativo di società, ma un coltello affilato premuto contro le clamorose ingiustizie della società, una voce della coscienza finalizzata a indebolire la presunzione e l’autoadorazione dei dominanti”. Non bisogna, tuttavia, perdere di vista il liberalismo, perché “la sicurezza dei mezzi di sussistenza e la libertà sono complementari”; per il sociologo polacco è, in ogni modo, il socialismo, come sintesi di società libera e giusta, l’apripista per la salvezza dell’umanità. Anzi, Bauman conclude l’ultima sua opera “Società, etica e politica”, dichiarando “come la fenice, rinasce dal mucchio di ceneri lasciate dai sogni bruciati e dalle speranze carbonizzate degli uomini. E sempre risorgerà. Se è così, spero di morire socialista”. Sono idee importanti, espresse da un sociologo, ritenuto di spessore mondiale. Il socialismo deve essere, però, democratico e riformista. Una società, che intende rendere possibile l’equilibrio tra la libertà e la giustizia sociale, deve essere fondata sulla responsabilità e costruita attraverso il metodo riformistico. Un riformismo non regressivo, che guarda al passato, ma progressivo e socialista che si orienta verso il futuro.
I soggetti, che utilizzano il metodo riformistico, devono, però, incamminarsi verso traguardi formulati e costruiti nella quotidianità. Bisogna, in ogni modo, tener presente che, per una consolidata esperienza storica, i diversi attori, che operano all’interno di una società, pur diventando, attraverso il metodo riformistico, protagonisti del loro futuro, non arriveranno mai ad affermare tutti gli ideali, perché è insita nella natura umana di chi detiene, in un determinato periodo, il potere e ogni privilegio, l’esigenza di conservare l’uno e l’altro per sé. Chi, invece, n’è privo e non ha alcun vantaggio, né materiale né sociale, sarà costretto a lottare per acquisire diritti e per conquistare status sociali superiori. Storicamente, spesso, i democratici e i socialisti di ieri sono diventati i conservatori d’oggi e non solo hanno frenato le conquiste, ma hanno anche cercato di sbarrare il cammino al moto storico verso la libertà e verso il socialismo, consentendo alle classi sociali più deboli ed emergenti di diventare protagoniste e fare delle conquiste sociali ed economiche. Tali processi si sono verificati, in maniera costante, nella storia.
Gli ideali della democrazia e del socialismo sono, tuttavia, fragili e precari (Bauman direbbe “liquidi”). Essi sono, dunque, di difficile attuazione. E’ più semplice e meno rischioso, a livello individuale, piegare la testa e diventare servili. Comporta meno rischi e minore responsabilità. Il moto storico verso la libertà e verso gli ideali delle società democratiche e socialiste è, in ogni modo, inarrestabile e un’antiriformista non si può a esso frapporre. Fra non molto, giacché non sono solo gli uomini a distribuire la giustizia, ma anche la storia, penso anch’io che i socialisti riformisti risorgeranno e i loro avversari di sempre, attraverso una consapevole autocritica, prenderanno coscienza dei loro errori e apprenderanno l’arte del silenzio e dell’ascolto, per rendere verosimile che il riformismo socialista diventi una forza autosufficiente per governare la società globale.
I giovani, invece, di norma, condividono tutto quello che è necessario contestare e rifiutare; anzi, non riusciranno mai a trovare una sintesi sulle risposte da dare a quello che desiderano realizzare. Il comune denominatore del movimento degli studenti e degli “indignados” è, perciò, oggi rappresentato dalla precarietà economica e dall’insicurezza psicologica. Da più parti si afferma che ci sia ormai un legame stretto tra la crisi economica degli ultimi anni e quella sociale che sta imperversando un po’ ovunque. Molti sostengono che occorra passare quanto prima da un’economia del consumo a un’economia di produzione, sanando da un lato il debito sovrano dei Paesi in crisi (Italia compresa) e dall’altro rilanciando lo sviluppo economico.
Il divario tra i ricchi e i poveri è destinato ad aumentare se continuano a non essere messi sotto controllo dalla politica i mercati, le tecniche finanziarie e gli investimenti economico-capitalistici. La politica deve, pertanto, ritornare alla sua centralità. Oggi i politici, a livello globale, non hanno potere, ma assumono e governano decisioni imposte dai poteri finanziari ed economici. In Italia, tale condizione è ancora maggiormente accentuata. Dagli inizi degli anni Novanta, la politica italiana governa, in maniera eterodiretta, poteri che non sono in Parlamento ma nelle forze capitalistico-finanziarie.
I partiti di centro-destra governano decisioni assunte dalla concentrazione capitalistica-finanziaria di destra, mentre quelli di centro-sinistra governano e scimmiottano le decisioni che assume la concentrazione capitalistica-finanziaria, che, grottescamente, si definisce di sinistra. Nell’ultimo decennio del Novecento, se alla guida della politica italiana ci fossero stati politici di spessore e non ragionieri, spacciatosi per economisti, si sarebbe sicuramente aperto un dibattito sul ruolo dell’Italia di poter diventare testa e guida dei popoli del mediterraneo oppure di decidere, com’è avvenuto acriticamente, ad accodarsi nemmeno all’Europa dei cittadini, prefigurata dai socialisti, ma dei mercati e della finanza. Senza mettere in Italia la palla della politica al centro, non ci potranno mai essere misure e interventi adeguati per far crescere il Paese e dare respiro alle nuove generazioni. Bisogna rompere la spirale e l’intreccio (solo i giovani possono farlo, perché non sono ancora socializzati al conformismo) tra la politica e il potere economico-capitalistico-finanziario. Dopo aver realizzato l’autonomia della politica, bisognerebbe intervenire non solo sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche operare opportuni interventi su quelle politiche fiscali e previdenziali, che, in qualche modo, avrebbero lo scopo di ridurre le disuguaglianze sociali. Si migliorerebbero, di conseguenza, ridistribuendo adeguatamente la ricchezza, le condizioni di ognuno e di tutti.
b. Ricostruire una sinistra laica, riformista e socialista
La società italiana, per aspirare alla sintesi di libertà e di giustizia sociale, deve essere alimentata al suo interno da un’area politica e culturale non solo riformista e socialista, ma soprattutto laica. E’ giunto il momento che la sinistra, per superare l’apnea che sta vivendo ormai da anni, sposi il modello del socialismo riformista e abbandoni la diaspora e gli atteggiamenti da spocchia.
Per l’assenza del riformismo “socialista”, nella società italiana, gli ideali di libertà, democrazia, giustizia sociale, pace e così via stanno dissolvendosi. La libertà e la giustizia sociale (uguaglianza), ad esempio, non riescono più a ritrovare un bilanciato equilibrio. Le nuove generazioni, non avendo, così, punti di riferimento democraticamente credibili e affidabili, sono, ormai, disorientate. Anche i giovani chiedono, perciò, di mettere da parte le diatribe e, prospettando una società maggiormente libera e più giusta, di assecondare le loro aspettative. E’, oggi, dominante nella cultura politica italiana, un riformismo senza testa e un socialismo senza volto. Anzi, è un valore che, in Italia, non appartiene più ad alcuna cultura politica; esso non è di destra né di sinistra ma è laico-socialista. Il socialismo democratico è, poi, un ideale che non può appartenere ai soggetti in possesso di una forma mentis con inclinazioni totalitarie. Per tale motivo Luigi Sturzo ha sostenuto nella sua teoria politica che lo Stato dovesse essere laico, aconfessionale e democratico.
Oggi, ridotta a pezzi l’idea laico-socialista dal bitotalitarismo catto-comunista (il compromesso storico berlingueriano è, ormai, in Italia, da qualche tempo in atto), il riformismo, fin dagli anni Novanta del secolo appena trascorso, scompare nel nulla. Certo le suppellettili e i soprammobili, che, all’interno dell’ex PSI, hanno sentito parlare di riformismo, si possono annoverare sia a destra sia a sinistra degli schieramenti politici italiani. Si possono anche leggere dichiarazioni d’iscrizione al PCI, per me paradossali, come quelle di Piero Fassino, che, nel libro Per Passione, dichiara “in quel settembre del ’68 scelgo il PCI perché sono sempre stato istintivamente alieno da ogni forma di massimalismo, […] mi sono sempre riconosciuto nel riformismo e nel gradualismo”. Io, invece, nell’agosto dello stesso anno uscivo, sbattendo la porta, come segretario di sezione del PCI, perché lo consideravo massimalista e succube di chi, in qualche modo, soffocava con i carrarmati “la primavera di Praga”. Spero, poi, che gli italiani, muniti di memoria a lungo termine, ricordino gli attacchi a testa bassa che il PCI ha sempre rivolto ai socialisti, definendoli in maniera dispregiativa “riformisti”. Non nominiamo, perciò, invano, un’idea, che, in un secolo (1892-1992), ha, lottando contro chi da qualche tempo ha sempre anteposto la libertà alla giustizia sociale (uguaglianza) e contro chi ha preferito l’uguaglianza a scapito della libertà, edificato, mattone su mattone, una società più libera e maggiormente equa, oggi, demolita in poco tempo, da una classe politica senza qualità e arroccata sul potere fine a se stesso.
La sfida alla complessità è, nella società attuale, irta di ostacoli e non è possibile intenderla né governarne gli sviluppi senza richiamarsi e farsi guidare da un riformismo laico-socialista, che è l’unica prassi politica incardinata simultaneamente sulla libertà e sulla giustizia sociale (uguaglianza). Il riformismo è un’arte difficile e, come tale, non può appartenere a chi per quasi un secolo non è riuscito nemmeno a cogliere la differenza tra democrazia e totalitarismo. La libertà, poi, non può essere considerata un valore come un altro; essa è, anzi, il punto di partenza, per fondare e per condividere tutti gli altri valori. Questi, senza la libertà, non avrebbero consistenza. A che cosa, appunto, servirebbero la pace, l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà e così via, se fossero imposte?
La risposta è immediata. Non sarebbero condivise. La libertà è il presupposto per erigere ogni altro valore. Senza il metodo “riformista”, la libertà sarebbe “prescrittiva” e l’uomo non potrebbe mai acquisire consapevolezza critica dei propri limiti. In Italia, dagli anni Novanta del Novecento, per la crisi delle istituzioni democratiche, è diventato difficile intravedere all’orizzonte punti di riferimento. I partiti, accecati dal potere, anziché trasformarsi in motori per la democrazia, si sono convertiti, assumendo condotte antiriformistiche e illiberali, in strutture chiuse e onnivore. Essi, al contrario, per avvicinare, perciò, di nuovo i giovani all’attività politica, dovrebbero assumere, secondo i principi vitali della democrazia, nuove forme e tollerare che ognuno pensi e agisca in maniera autonoma. E’, per questa ragione, auspicabile che diventino, da un lato, aperti alle attese della società e, dall’altro, superando, in qualche modo, le attuali strutture, allestite soltanto per ristretti gruppi di potere, si trasformino in organizzazioni di elettori e di cittadini; dovrebbero, dunque, aderire, in modo diffuso, alla morfologia della società e dello Stato. Solo ricorrendo al riformismo, ognuno potrà confrontarsi con le sfide del mondo attuale, e concorrere al rinnovamento sia guidando le trasformazioni sia governando gli sviluppi della società.
Il riformismo è storicamente riconosciuto come un valore laico-socialista; altre forme di riformismo si presentano come un disvalore, perché tendono, pur rievocando le riforme, o a ricondurre la società al passato o a immetterla in un vortice senza ritorno. Nello schieramento politico del centro-destra italiano il riformismo è solo un frammento stellare. In quello della sinistra, pur essendo il termine altisonante, si contano, al suo interno, pochissimi riformisti. Domina, perciò, come si diceva, un socialismo senza volto e un riformismo senza testa. Una società, che intende rendere possibile l’equilibrio tra la libertà e la giustizia sociale (uguaglianza), dovrebbe, invece, essere eretta sulla responsabilità ed edificata con il metodo “riformista”. Un riformismo, inteso in tal senso, può offrire, in un processo dinamico, la possibilità di:
1. Far maturare gradualmente la complessità sociale e le diverse soggettività, che operano all’interno della società.
2. Permettere agli uomini di liberarsi dal servilismo, dai condizionamenti, dai dogmi e dalle ideologie, affinché ognuno, dopo aver acquisito un’adeguata consapevolezza, possa confrontarsi, in maniera creativa, con l’intera società.
3. Sapere interpretare, in modo graduale, le trasformazioni della società, per adeguarle alle esigenze e alle attese della maggior parte dei cittadini.
4. Riportare a sintesi di programma l’articolazione dei diversi interessi della collettività.
Un riformismo, senza la democrazia e senza avere, come fine, il socialismo, è un’astrazione; anzi, è il presupposto per la costruzione di una società avvolta e asfissiata dal conformismo. Nello stesso tempo, la democrazia e il riformismo, senza il socialismo, sono termini vuoti. Si può, allora, affermare che democrazia, socialismo e riformismo, presi in considerazione isolatamente, sono termini antitetici. Dovrebbero essere, al contrario, considerati voci correlate.
Il metodo “riformista” è, per questo motivo, uno strumento d’importanza vitale nella costruzione di una società democratica e “socialista”. Diversamente il socialismo sarebbe imposto e edificherebbe, svuotandosi di contenuto, società autoritarie o totalitarie.
Il moto storico verso la libertà e verso il socialismo riformista ha, poi, avuto, nella società italiana, un trend non lineare. Anzi, utilizzando la metafora delle “fatiche di Sisifo”, si potrebbe affermare che, in Italia, ogni qualvolta la libertà era sul punto di acquisire traguardi decisivi, per coniugarla con la giustizia sociale (uguaglianza) e con il socialismo “riformista”, si sono puntualmente prodotte condizioni oggettive, affinché essa retrocedesse al punto di partenza.
Il socialismo riformista italiano viene, in verità, da lontano; esso, ispirandosi ai principi della Seconda Internazionale (1889), si è organizzato in partito, nel 1892, durante il Congresso di Genova, nel quale sono confluiti alcuni seguaci delle esperienze politiche di Mazzini e di Garibaldi e alcuni esponenti del liberalismo “riformista” e del federalismo di Carlo Cattaneo.
L’ossatura e la struttura del partito “socialista” italiano sono, però, nel complesso, costituite dalle componenti di tre correnti:
1. La Lega “socialista” milanese, diretta da Filippo Turati.
2. Il Gruppo anarchico, retto da Andrea Costa.
3. La componente degli intellettuali marxisti, guidata da Antonio Labriola.
I socialisti si sono, in seguito, suddivisi in riformisti e in massimalisti; all’interno del massimalismo si è, poi, organizzata, per la conquista violenta del potere, la corrente rivoluzionaria, che, al Congresso di Livorno, nel 1921, aderendo alle direttive del leninismo e della Terza Internazionale, si è scissa e ha fondato il partito comunista d’Italia; così, i lavoratori, dopo due anni di lotta e di occupazione delle fabbriche (1919-1920) per l’affermazione della libertà e delle conquiste sociali, sono stati costretti a dividersi e, disorientati, a osservare passivamente l’avvento del fascismo al potere. Ciò è avvenuto, nonostante un lungimirante e, oggi, attualissimo discorso del padre-fondatore del socialismo riformista italiano, Turati, al Congresso di Livorno, nel 1921.
“La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea. E rimane tale, anche se trionfa per un’ora, seminando dietro di sé la reazione dell’insopprimibile libertà della coscienza umana, che diventa controrivoluzione, che diventa vittoria a un punto dato, dei comuni nemici. Questo è avvenuto sempre nella storia”.
Nella ricostruzione storica del partito socialista, l’anarchismo è, in generale, stato respinto e l’integralismo è stato messo ai margini dell’organizzazione, sino alla scomparsa. E’ rimasto soltanto il nucleo centrale, in altre parole il riformismo socialista: questo è il “vero, immortale, invincibile socialismo, che tesse la sua tela ogni giorno, che non fa sperare miracoli e che crea coscienze, Sindacati, Cooperative, conquista leggi sociali, utili al proletariato, sviluppa la cultura popolare, s’impossessa dei Comuni, del Parlamento, e che esso solo, lentamente, crea la maturità della classe, degli animi e delle cose, prepara lo Stato di domani e gli uomini, capaci di manovrarne il timone”, e pronti per governare la società complessa o “liquida”.
I socialisti riformisti sono stati considerati dalla supponente ideologia comunista sempre social-traditori, ma alla fine sono riusciti a essere i vincitori. La storia ha dato loro ragione. La battaglia sarà graduale, fitta e di lungo periodo, ma il successo è assicurato ancora volta.
“Capirete allora, – continua Turati, rivolto ai comunisti – intelligenti come siete, che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell’Intesa e dell’America, ma che è pur sempre una forma d’imperialismo […]. E noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale, in opposizione al ricostituirsi dell’Internazionale più civile e più evoluta di tutti i popoli […]. Tutte queste cose voi capirete fra breve e allora il programma che state elaborando e che, tuttavia, ci vorreste imporre, vi si modificherà fra le mani e non sarà più che il nostro vecchio programma […]. Quando anche voi aveste impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocato e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto, a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché essa è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe”.
La scissione di Livorno, praticata dai comunisti, è, così, divenuta il punto di partenza per le continue sconfitte non solo dei lavoratori ma anche del socialismo “riformista” e dell’intera società laica e democratica italiana. Questo tanto perché, dividendo e disorientando la classe lavoratrice, è stata aperta la strada al fascismo, quanto perché, durante la dittatura fascista, il riformismo ha subito, incontrando difficoltà a operare politicamente, ingenti perdite a causa o dell’esilio o della morte di uomini prestigiosi. Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, il socialismo italiano tenta di risorgere e di ricostituirsi, ma, nel 1947, giacché è sul punto di stabilire un patto d’azione con il comunismo, si consuma a Palazzo Barberini, attraverso un suo esponente, Saragat, seguito da un folto gruppo, un’altra scissione, gettando le basi alla socialdemocrazia e regalando, per la seconda volta, sia ai moderati sia ai conservatori, coagulatisi intorno alla democrazia cristiana, fondata da Alcide De Gasperi, la presa del potere su di un piatto d’argento. L’intera sinistra, immatura e massimalista, è, indubbiamente, ancora una volta responsabile della sconfitta dei lavoratori.
Il socialista Pietro Nenni, dopo aver capito l’errore, cerca di restituire autonomia alla politica del socialismo “riformista”, affrancandola dall’ideologia comunista; negli anni Sessanta, il partito “socialista” si orienta, così, a governare la società italiana con la moderata e conservatrice democrazia cristiana. Un’ennesima scissione, che viene compiuta, nel 1964, da un gruppo di massimalisti, e la politica di Aldo Moro, che, in teoria, accetta l’azione “riformista”, ma, in pratica, da buon conservatore, rende inconsistenti, soprattutto per la pregiudiziale opposizione del partito comunista, le battaglie a favore delle riforme e dei lavoratori, indeboliscono la prospettiva di un centro sinistra “riformista”. Alcuni risultati vengono, tuttavia, in parte raggiunti; infatti, quantunque i nemici della democrazia agitino un colpo di Stato (Piano Solo), vengono, in qualche modo, gettate le basi per il cambiamento in senso “riformista” della società italiana. Nel 1966, all’interno del socialismo italiano, viene, poi, manifestata l’esigenza di superare la scissione operata a Palazzo Barberini, nel 1947.
Il processo di unificazione è ancora una volta, però, portato avanti in modo erroneo; così, dopo poco tempo, si rimettono in modo meccanismi di rigetto, di suddivisione e si giunge alla rottura definitiva, nel 1969. Agli inizi degli anni Settanta con la segreteria di Francesco De Martino, inizia per il partito “socialista” il processo di unificazione con il PCI, anzi, di assorbimento nel comunismo. Un gruppo di dirigenti socialisti e riformisti percepisce, però, che, in tal modo, si sarebbe ancora di più spostata in avanti, in Italia, la prospettiva per rendere fattibile la costruzione di una società “socialista”; esso cerca, perciò, di riorganizzare, operando un taglio netto con il leninismo, il riformismo “socialista”.
I dirigenti del PCI, non essendo riusciti a prendere coscienza che la loro storia è stata un percorso di errori e di orrori, non avrebbero mai potuto guidare con equilibrio la società italiana. Quello dei comunisti è stato un muoversi cieco e disperato. Se ci fosse stata, in Italia, l’egemonia comunista, si sarebbe riprodotta la condizione del noto quadro fiammingo, in cui il cieco si trascinerebbe nel fosso gli altri ciechi che lo avrebbero preferito come guida. Questa cosa è regolarmente accaduta, negli anni Novanta, dopo la sparizione del PSI. Sta accadendo, oggi, con il partito democratico. In Weltroni, in Francheschini e in Bersani, intrisi di supponenza catto-comunista, il quadro fiammingo s’incarna perfettamente. Si spera in una loro rivoluzione culturale, consegnando la guida del partito, che è un gigantesco motore di consenso, ma solo per le forza delle strutture collaterali, a uomini autenticamente riformisti. Il riformismo, come si diceva, è un’arte difficile e non s’improvvisa; non potrebbe, pertanto, essere metodologicamente applicato da chi si è costruito un vissuto politico su altre sponde.
Per inciso, è, per le nuove generazioni, un forte disagio aspirare al cambiamento e costruire una sinistra “riformista”, ma non aver punti di riferimento. Anzi, è triste e umiliante essere rappresentati da soggetti politici non all’altezza delle circostanze e dei tempi. Il bi-totalitarismo della cultura italiana, catto-comunista, ha, attraverso Tangentopoli, ferito a morte l’anello debole della società politica di allora, ovverosia il socialismo “riformista” e la cultura cattolica democratica. Ha, però, rimosso, attraverso tale atto, la prospettiva dell’intera sinistra e ha bloccato il moto storico verso la libertà e verso il socialismo. E’ stata, così, cancellata la voce del riformismo laico-socialista, che è l’unica prospettiva d’autentica prassi rivoluzionaria. Le rivoluzioni, che si sono realizzate storicamente, hanno, invece, sempre, dopo la fase iniziale, fatto arretrare le società. Napoleone e Stalin insegnano.
I postcomunisti devono ormai superare la concezione gramsciana del partito, perché è di ostacolo al rinnovamento e al dialogo a sinistra. La supponenza e la ricerca dell’egemonia non aiutano a costruire una forza di sinistra e “riformista”.
I comunisti, attraverso la loro ideologia, hanno concepito e organizzato un modello di partito burosauro, centralista, pedagogico e totalizzante. E’ difficile, ora, smantellarlo. Tale concezione ha impregnato la maggior parte della cultura politica italiana e ha, in tempi diversi, plagiato lo stesso partito “socialista” (periodo morandiano e fase demartiniana). Il punto d’incontro di tutte le forze della sinistra deve essere, invece, quello indicato da Turati: la via del socialismo “riformista”. Tale via, per quello che si diceva, ancora oggi, nonostante l’ideologia comunista sia stata storicamente sconfitta e i comunisti italiani abbiano subito varie metamorfosi (PCI, PDS, DS, PD), rimane un’utopia e sarà tale, finché il riformismo “socialista” non avrà la consapevolezza e la forza di ritornare alla guida della politica italiana, per governare, come ha sempre fatto dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, il cambiamento e per contribuire a edificare una società aperta, “pluralista” e garante dell’equilibrio tra la libertà individuale e la graduale affermazione della giustizia sociale (uguaglianza). I socialisti “riformisti”, che, hanno, dopo “Tangentopoli”, abbandonato l’attività politica, ritornando alle loro tradizionali attività professionali, dovrebbero di nuovo impegnarsi in un partito socialista e riformista, organizzato per scuotere quelli che hanno assunto, negli anni Novanta, la posizione di soprammobili negli schieramenti sia di centrodestra sia di centrosinistra. Anche se a costoro, pur non avendo dimostrato di possedere spessore politico, deve essere, tuttavia, riconosciuto un merito, in altre parole di non aver permesso che l’ideale del riformismo “socialista” si fosse spento. Ora, devono, però, riprendere il cammino con le proprie gambe e convincersi che il riformismo “socialista” resta l’unico esperimento e percorso per risolvere i problemi della società italiana.
c. Un’ipotesi di riforma della scuola italiana
Nella società attuale non può esistere alcun modello formativo precostituito; gli obiettivi d’insegnamento-apprendimento non possono, pertanto, essere prescrittivi. Si potrebbe, tuttavia, sicuramente individuare qualche linea di tendenza per quanto concerne le finalità educative e i risultati potrebbero essere alquanto attendibili se il rapporto tra insegnanti e alunni s’instaurasse sul piano del dialogo educativo. Due fatti hanno una certa importanza nella vita della scuola: da un lato, è indispensabile che l’insegnante possieda adeguatamente le competenze disciplinari e le abilità didattiche e metodologiche e, dall’altro, che l’alunno sia fortemente motivato ad apprendere. E’ così che quest’ultimo potrebbe acquisire gli strumenti necessari, affinché diventi criticamente attore e protagonista della propria storia e, attraverso la ricerca, scopritore e costruttore di nuovi saperi. La scuola deve, pertanto, trasformarsi in strumento adeguato a tali richieste. Di conseguenza, oggi, il pezzo forte della riforma scolastica dovrebbe essere l’abolizione del D.L. n. 59 del 6 marzo 1999 di Berlinguer, in altre parole del dirigente scolastico, figlio della scuola-azienda e inadeguato, nella stragrande maggioranza dei casi, sia per formazione sia per com’è scelto a svolgere ruoli e funzioni della governance che il legislatore gli attribuisce; di conseguenza, bisognerebbe introdurre l’elezione diretta del preside da parte del collegio dei docenti e di tutto il personale della scuola. La sostituzione del ruolo del dirigente scolastico dovrebbe avvenire attribuendo al direttore dei servizi amministrativi un alto grado di professionalità e di competenza (laurea in giurisprudenza, in economia e commercio o lauree equipollenti). In tal modo si risolverebbe l’inadeguata governance della scuola. La riforma scolastica, nella società della conoscenza, dovrebbe fare assumere centralità alla scuola pubblica e valorizzare contemporaneamente il ruolo degli studenti e dei docenti, come elementi fondamentali dell’apprendimento-insegnamento e della ricerca. E’ la scuola che dovrebbe, in alternativa alla politica degli ultimi vent’anni, diventare, attraverso l’istruzione e la formazione, il motore della società, per orientarla verso obiettivi gradualmente attendibili e maggiormente progrediti. Una riforma, per attuare pienamente la scuola dell’autonomia, dovrebbe, quindi, prevedere di:
2. Abolire i carrozzoni ministeriali (i dirigenti scolastici, i responsabili e gli Uffici degli ambiti scolastici provinciali; i dirigenti e gli Uffici scolastici regionali), creando un diretto collegamento delle reti di scuole con le Direzioni generali e nazionali del Ministero della Pubblica Istruzione. L’autonomia delle istituzioni scolastiche e l’asfissia dirigenziale sono una contraddizione in termini.
3. Valorizzare il ruolo dei docenti, riconoscendo l’insegnamento come una professione logorante e usurante.
4. Abolire il finanziamento (223.000.000 €) alle scuole non statali e private, rispettando l’art. 33 della Costituzione che recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.
5. Demolire, partendo dalla riforma Berlinguer (giustamente ritenuta da Matteo Renzi come quella che ha “di sinistra solo il nome”), la cultura e la visione della scuola-azienda. Solo in tal modo si potrebbero invertire le proposte dell’accorpamento delle istituzioni scolastiche, finalizzate, compromettendo ogni forma di didattica, al risparmio economico.
6. Riconoscere lo status delle scuole a rischio e di quelle di eccellenza.
7. Valorizzare e non abolire i titoli di studio. Il mercato, la destra e i poteri forti aspirano ad abolire i titoli di studio per emarginare le classi sociali più deboli.
8. Equiparare diritti e doveri dei docenti italiani a quelli europei (compresi orario di lavoro e stipendio).
9. Assumere la consapevolezza che la colonna portante della scuola è rappresentata dagli studenti e dai docenti.
10. Fare acquisire alle scuole la funzione di palestra della democrazia per costruire, attraverso una cittadinanza attiva, una società aperta e interculturale.
11. Considerare gli studenti come soggetti di diritto e di doveri verso il mondo sociale e immaginare la scuola come un bene pubblico e condiviso.
12. Permettere agli studenti di valutare i docenti. Nelle scuole secondarie di secondo grado, ad esempio, a ogni docente di una classe di concorso (ad esempio A037 – Filosofia e storia) deve essere, dopo che la scuola si è data un regolamento, assegnato un’aula; gli studenti possono, in tal modo, scegliere, stabilendo in regolamento il numero massimo, liberamente il corso del docente che intendono seguire.
13. Abolire l’insegnamento obbligatorio di ogni tipo di religione. Gli studenti che intendono usufruirne dovrebbero con rette mensili pagarsi tali insegnamenti, evitando, in tal modo, che, ad esempio, per quanto concerne la religione cattolica, lo Stato italiano paghi insegnanti di uno Stato straniero (Vaticano).
14. Riorganizzare la scuola italiana in 2 cicli d’istruzione dai 2 ai 18 anni (8 anni – Scuola dell’infanzia, dai 2 ai 4 anni, e primaria, dai 5 ai 9 anni – 8 anni – scuola secondaria di primo grado – 5 anni – e scuola secondaria di secondo grado – 3 anni).
di Pietro Boccia