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L’austerity nuoce alla salute

Se a guidare il riordino della sanità è la calcolatrice, anziché le esigenze del malato, son dolori… 

Se a guidare il riordino della sanità è la calcolatrice, anziché le esigenze del malato, son dolori! Ne sanno qualcosa i cittadini delle regioni sottoposte ai cosiddetti “Piani di rientro”, per i quali l’offerta sanitaria è sempre più costosa ancorché di livello più basso.

Tra le regioni “canaglia”, o “pigs”, per usare un termine in voga,  c’è la Calabria, dove il “risanamento”dei conti del comparto  – legittimo, per carità! – marcia ormai in una direzione diametralmente opposta a quella dei bisogni dei cittadini. Sotto l’occhio vigile del Tavolo Massicci[1], la “troika” delle regioni alle prese col deficit sanitario, si sta smantellando infatti pezzo dopo pezzo il vecchio sistema senza costruirne parallelamente uno nuovo, più efficiente, più qualificato.

Vediamo perché. Prima che iniziasse il percorso di razionalizzazione e di risanamento (2010-2011) la Calabria, con i suoi 2.011.677 abitanti, vantava una rete ospedaliera composta da 37 strutture pubbliche e 35 case di cura accreditate. Il rapporto tra strutture ed abitanti era di una ogni 27.937.

Il Piemonte, per fare un raffronto, con 4.214.466 abitanti (più del doppio della Calabria), aveva, nello stesso periodo, una rete ospedaliera composta da 39 strutture pubbliche e 40 case di cura accreditate. Il rapporto tra strutture ed abitanti era quindi di una ogni 53.350.

In questo quadro va valutato anche il peso della sanità privata sull’intera offerta sanitaria regionale.  E qui si scopre che la Calabria era la regione col più alto numero di posti letto nelle strutture private (il 32% contro il 19% nazionale), con una spesa complessiva tra le più alte d’Italia, pari a circa  1 miliardo e 200 milioni di euro all’anno (dato riferito al 2005), quasi identica a quella sostenuta per le strutture pubbliche.

Il sistema tuttavia non ha mai brillato per efficienza e qualità, salvo alcune isole felici, a dimostrazione del fatto che non era nel numero di ospedali e centri di cura la causa dei mali della sanità calabrese.

Bastano, da questo punto di vista, le cifre sull’emigrazione sanitaria. Solo nel 2008, stando alle stime fornite dal Ministero della Salute, sono stati 68 mila i pazienti calabresi che hanno lasciato la regione per curarsi altrove, e, nella maggior parte dei casi, per patologie di media e bassa intensità.

Ancora nel 2010 la Regione Calabria farà registrare un debito nei confronti di altre regioni – prevalentemente in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Lazio e Piemonte – per circa 240 milioni di euro, a titolo di rimborso delle spese sostenute dai presidi sanitari extraregionali ai quali i pazienti calabresi si sono rivolti per curarsi.

A spingere verso l’alto le cifre sui “viaggi della speranza” hanno inciso enormemente anche i casi di malasanità degli ultimi anni. Dal gennaio 2007 a oggi si contano infatti una decina di casi costati la vita ai pazienti, tra cui quelli emblematici di Federica Monteleone ed Eva Ruscio.

E arriviamo alla questione del debito, da cui discendono i problemi del presente. Fino al 2007 non si aveva neppure idea della sua entità (Ricordate la storiella dei “bilanci orali“?). Finché il 23 ottobre 2007, Regione e ministeri della Salute e dell’ Economia non hanno concordato una “ricognizione sullo stato dei conti”, da farsi con il contributo di un advisor indicato dal ministero dell’ Economia. Si arriva così alla prima stima: 1 miliardo e 750 milioni (dato della Ragioneria dello Stato), con un deficit corrente annuo pari ad altri 200-250 milioni di euro. La cifra, “certificata e reale”, che darà la giunta guidata da Scopelliti sarà alla fine di un miliardo e 45 milioni di euro al 31 dicembre 2007.

D’altronde non poteva essere diversamente, se è vero, come avrebbe rivelato il Direttore generale dell’ASP di Catanzaro Gerardo Mancuso nel corso di un’audizione davanti alla Terza commissione del Consiglio regionale della Calabria qualche anno fa, che in qualche ospedale della regione un piatto di pastina in brodo, una coscia di pollo con contorno di patate lesse e una mela sarebbe arrivato a costare alla Regione ben 350 Euro!

Risanare, tagliare, razionalizzare, combattere gli sprechi, dunque. Ma come? Nell’introduzione al “Piano di rientro” approvato dalla Giunta Loiero troviamo scritto che lo stesso “da mero strumento tecnico-amministrativo di rientro economico-finanziario”, dovrebbe diventare “la leva e l’occasione per un ripensamento complessivo del sistema sanitario regionale”.

Di fatto la sua applicazione da parte del nuovo governo regionale, sotto l’egida del tavolo ministeriale, sta arrecando non pochi problemi al comparto, nonostante alcuni buoni risultati in termini di mero risparmio, come è stato recentemente certificato anche dall’Università Bocconi di Milano, che, tuttavia, c’è chi ascrive perfino alla rinuncia a curarsi da parte di molti cittadini.

E ciò perché la riorganizzazione del sistema, fortemente ripiegata su una logica ragionieristica di tagli e sottrazioni, non sta comprendendo un’organica politica per la salute, con al centro il malato e i suoi bisogni. Si sono chiusi o dismessi ospedali (17 in tutta la regione)senza riordinare, e potenziare,  la rete di medicina del territorio (Medicina di prossimità) e quella delle emergenze (Le caratteristiche orografiche di certi territori, le distanze enormi dai primi centri ospedalieri, incidendo sulla tempistica dei trattamenti d’urgenza, espongono i cittadini di alcune aree della provincia e della regione a rischi serissimi)

La chiusura di alcuni presidi ospedalieri minori poi, persino quelli di “confine” e di “montagna”, ha spogliato interi territori di riferimenti sanitari, soprattutto nella provincia di Cosenza.

Cosicché gli ospedali Hub, quelli situati nei capoluoghi, che in teoria dovrebbero garantire il massimo di offerta specialistica, oggi sono costretti a far fronte a una domanda crescente di servizi e di prestazioni sanitarie che invece andrebbero gestite dai presidi periferici, filtrati attraverso i centri di medicina territoriale e le strutture di primo livello (E di primo soccorso).

E questo scenario riguarda tutta la rete. Anche i cosiddetti ospedali Spoke, dislocati nei centri minori, sono ormai intasati e soffrono di carenze di organico e tecnologiche che espongono a seri rischi sia l’utenza che gli stessi operatori. Per non parlare ormai dei ricoveri, che, anche quando necessitati da patologie serie, sono diventati un miraggio.

Se non fosse per l’eroismo di medici e paramedici che operano in queste strutture, insomma, molti dei quali tra l’altro precari (1135 medici, 490 operatori sanitari e  41 lavoratori interinali), l’intero sistema andrebbe letteralmente a picco.

Eppure in Calabria i servizi sanitari si pagano profumatamente, tra ticket ed addizionale Irpef. Con alcuni paradossi: se sei un bambino di 7 anni e vivi in Lombardia, indipendentemente dal reddito, per una visita specialistica non paghi niente; se sei un bambino della stessa età e vivi in Calabria, sempre indipendentemente dal reddito, paghi invece tutto! Ancora: un giovane che guadagna 800 euro al mese in Calabria paga il ticket, mentre un suo coetaneo umbro che ne guadagna  36.151 all’anno (Tremila euro al mese!) non paga niente. Anche se il reddito medio procapite in Lombardia e Umbria è rispettivamente di 23.210 e  18.233  euro, mentre in Calabria è di 14.230 euro!

La legge stabilisce che il Servizio Sanitario nazionale garantisca in tutte le regioni, ed a tutti i cittadini, gratuitamente o in compartecipazione, gli stessi Livelli Essenziali di Assistenza Sanitaria (LEA). Stando così le cose, si può dire che i LEA vengono garantiti allo stesso modo su tutto il territorio nazionale e che tutti i cittadini italiani ne beneficiano in condizione di uguaglianza?

Evidentemente no. E dire che la Costituzione, ancora vigente fino a prova contraria, stabilisce perentoriamente, insieme al principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge (Art. 3), che la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”(Art. 32).

Oggi, però, se sei indigente in Calabria questo diritto non puoi esigerlo. E oltre al danno si unisce la beffa, perché la Calabria, come le altre regioni sottoposte a Piano di rientro, oltre a pagare più tasse per il suo sistema sanitario non certo efficientissimo, ha dovuto rinunciare anche ad una quota del Fondo per le Aree Sottoutilizzate (FAS), lo strumento di finanziamento del governo per le aree del paese in ritardo di sviluppo, per destinarlo alla copertura del debito.

In pratica a Roma trattengono una parte di questi soldi, liquidandoli a tranche dopo aver verificato che la Regione, di volta in volta, ha fatto fino in fondo i compiti a casa. Un meccanismo molto simile a quello messo in piedi in Europa per “salvare” alcuni stati dalla bancarotta. Aiuti in cambio di austerity.

Più tasse, meno servizi, meno fondi per lo sviluppo, ordunque. Lo chiamano “risanamento”, ma di mezzo c’è la salute dei cittadini. Intanto chi può va a farsi curare fuori regione. 



[1] Il Tavolo Massicci è organismo tecnico (interministeriale) presso il Ministero dell’Economia deputato a verificare la congruità e lo stato di attuazione dei Piani di rientro. Francesco Massicci è a capo dell’Ispettorato generale per la spesa sociale della Ragioneria Generale dello Stato (Igespes) e coordina il “Tavolo”.

 

Scritto da Redazione

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