Non mi cimento, in questa sede, in un’opera di decodificazione del fenomeno “Forconi”, cercando di individuarne matrici “culturali” e ragioni “politiche”. Anche perché, forse, non ce ne sono nemmeno.
Quando il movimento nacque, assumendo un profilo squisitamente siciliano e meridionale, ne scrissi all’interno di un saggio1 che analizzava, ante litteram, la crisi di sistema che non da oggi investe il nostro paese. Eravamo in un’altra fase politica però, e, sebbene gli elementi di ribellismo, così come la composizione sociale del movimento, costituiscano un’invariante nell’evoluzione del fenomeno, molte cose sono cambiate da allora.
A cominciare dalla dimensione territoriale della protesta. Nel 2011 il movimento interessò essenzialmente la Sicilia e si tinse anche di connotati indipendentisti. I capi locali della rivolta giocavano sul crinale tra rivendicazionismo economico e rigurgiti separatisti, pur muovendosi, per quanto riguarda questo secondo aspetto, sul filo dell’ambiguità. Non fu un caso, peraltro, che in quel dicembre di due anni fa i primi ad esprimere la loro “vicinanza” ai forconi furono quelli della Lega Nord. D’altro canto ad unire simbolicamente la lotta dei “padani” e quella dei siciliani non era solo il tema del separatismo e quello della sfiducia nella stato centrale, ma anche talune suggestioni per così dire vandeane, il richiamo ai miti di un certo ribellismo reazionario dei secoli passati. Le stesse suggestioni che hanno da sempre costituito un pilastro fondamentale dell’universo ideologico e simbolico della destra radicale, in Italia come nel resto d’Europa.
Guardando però alla storia personale dei capi rivolta, tutti con un passato di appartenenza al sottobosco del potere berlusconiano e lombardiano, ciò che veniva immediatamente da pensare in quei giorni era che alla radice del fenomeno, accanto ad un disagio reale che attraversava larghi strati della società e dell’economia isolana, anche al di là dei simboli e delle parole d’ordine utilizzate, ci fosse essenzialmente un tentativo di riposizionamento di alcuni gruppi di potere, che, nella nuova fase della vita politica nazionale, si erano ritrovati orfani dei loro vecchi riferimenti politici, sia a Roma che a livello locale. Com’è andata a finire l’abbiamo visto, ma questa ormai è un’altra storia.
Oggi, sebbene si parli ancora di “forconi”, non siamo più in presenza di una protesta locale, ma di un fenomeno di dimensioni nazionali, nel quale, peraltro, la componente siciliana non sembra nemmeno la più combattiva, la più rumorosa. La base sociale però è la stessa, al nord come al sud: agricoltori e padroncini, pescatori e commercianti, artigiani, ambulanti, piccoli imprenditori, martiri delle banche e di Equitalia. Insieme a loro disoccupati e precari, varia umanità colpita duramente dalla crisi di questi anni. Un coacervo di interessi uniti tra di loro dal filo livido della rabbia, dal disagio sociale che ha ormai travalicato i confini di classe tradizionali. Si chiama, lasciatemelo dire, proletarizzazione dei ceti medi.
Il contesto politico è quello nel quale si registra la più drammatica crisi della rappresentanza dalla fine del fascismo. I partiti, quelli di massa che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento, non esistono più: sono stati sostituiti da marchi in franchising, funzionali unicamente alle carriere personali dei vari leader, la cui indipendenza rispetto al potere economico-finanziario ed ai centri di comando europei, inutile dirlo, è pari a zero. In Europa la “funzione politica” è ormai transitata dai governi e dai parlamenti alle burocrazie tecnico-finanziare, e la crisi della politica, soprattutto nei paesi periferici come l’Italia, risiede sempre più nella percezione della sua inutilità. Politica oggi in Italia è sinonimo di spese folli con i fondi dei gruppi regionali, di stipendi da capogiro, di privilegio, non di attività che, nella dialettica delle posizioni in campo, è volta a far avanzare la società, a migliorare le condizioni di vita delle persone, a “cambiare lo stato di cose presenti”. Una percezione vieppiù suffragata dalle limitazioni imposte alle decisioni nazionali in tema di politica economica dal “vincolo esterno” europeo.
Ci sono infiltrati in questo movimento? E’ probabile. Qualcuno, fascisti acclusi, vuole approfittarne? E’ evidente. I capi della rivolta sono personaggi che non ispirano fiducia? Certamente. Si tratta di una protesta senza obiettivi chiari che mira al tanto peggio tanto meglio? Così sembra. Ciò che conta però, adesso, non sono tanto questi aspetti, quanto la comprensione delle ragioni che stanno alla base del fenomeno. Il benzinaio ed il fabbro del mio piccolo paese, per intenderci, con i quali ho parlato nei giorni scorsi e mi hanno detto della loro partecipazione ad incontri per la preparazione della mobilitazione del 9 dicembre, non sanno nemmeno cosa significhi la parola “eversione”, mentre sanno benissimo cosa significa non essere più in grado di mandare avanti la famiglia e la propria attività. Stiamo parlando di quel ceto medio impoverito dalla crisi che fino a qualche anno fa guardava con sospetto ed aria di sufficienza a chi scendeva in piazza per manifestare.
Tutti e due, i miei compaesani, hanno votato per Grillo alle scorse elezioni, ma oggi si sentono traditi dalla sua inconcludenza parolaia. A loro ed ai tanti come loro cosa vogliamo dire? Che sono burattini nelle mani di fascisti e di impostori? Sarebbe, a mio modo di vedere, la cosa più sbagliata da fare. Piuttosto queste esplosioni di rabbia sociale dovrebbero far riflettere, a sinistra, sulla necessità di costruire un’alternativa a questa Europa che utilizza la crisi come metodo di governo, per imporre le sue folli politiche di riduzione fiscale (Fiscal compact) e di precarizzazione del lavoro. Una necessità impellente, se non si vuole consegnare definitivamente alla destra – ed all’estrema destra – la bandiera della lotta all’austerità. In Italia già scalpitano Berlusconi e la Lega, Storace ed altre frattaglie post-missine, ovviamente il Movimento 5 Stelle. Marine Le Pen è lanciatissima in Francia, Alba Dorata fa la sua parte in Grecia, ovunque in Europa i motori della destra xenofoba, razzista, identitaria, neofascista, sono accessi.
Ha ragione l’esponente della Fiom piemontese: con questi fenomeni bisogna sapersi sporcare le mani. Comprenderli, assorbirli in una politica di reale cambiamento.
di Luigi Pandolfi
1 Crack Italia, La politica al tempo della crisi (Laruffa, Reggio Calabria, 2012)
Da : Huffingtonpost.it