Un viaggio intimo e valoriale raccontato in un libro intenso e mai scontato, “Da Pericle a Papademos” (Betelgeuse editore). Dove Enzo Terzi, italiano trapiantato ad Atene, affresca i cambiamenti intercorsi in Grecia negli ultimi anni, ma bypassando l’avvento della troika con un vero e proprio diario di viaggio.
Che risale ai primi contatti con un mondo nuovo e inatteso, quei costumi e quelle abitudini che, oggi, si scontrano contro il muro invalicabile di una crisi sistemica. Che ha individuato Atene come drammatico capro espiatorio.
Quale Grecia vive oggi nella sua quotidianità di cittadino e osservatore?
Parto dal presupposto che osservare la quotidianità sia vedere al microscopio quanto la statistica ci riporta e nel contempo, verificare da cosa prende origine nella sua unità di misura: il cittadino. E qui le statistiche parlano di grandi ed impossibili numeri che esemplificano il disastro: 29% di disoccupazione, 64% di disoccupazione giovanile, oltre 500.000 imprese chiuse negli ultimi quattro anni, 500.000 posti di lavoro persi solo negli ultimi due anni, più di 100.000 bambini in condizioni abbondantemente sotto la soglia di povertà come indicato nell’ultimo Report 2013 dell’Unicef. Tutto questo su una popolazione complessiva di poco più di 10 milioni di abitanti.
E i numeri in positivo?
Al contrario le statistiche in positivo, non esistono. Nemmeno una. Neanche quella di una possibile ricrescita perché la data della possibile ripresa ogni anno viene rinviata al successivo. In sintesi: un 10-15% della popolazione è ricca, lo è sempre stata e sempre lo sarà, così come la povertà, quella cronica, esiste in ugual misura. La differenza è tutta in quel 70% di popolazione silenziosa, che oggi, riesumando antiche capacità dovute alla storia di un paese vissuto lungamente sotto dominazione o governo straniero, porta nel proprio dna: la capacità di arrangiarsi, di sopravvivere, confidando che i tempi cambieranno.
Quanta rassegnazione riscontra?
Direi un 70% di anonimato che oramai legge ed osserva i grandi numeri della propria catastrofe come se più non gli appartenesse, preoccupato unicamente di vedere quali altri balzelli o – in alternativa – diminuzioni di entrate, possano piovergli sulla testa. Gli uffici pubblici sono strabordanti sin dalle prime ore del mattino di gente che è lì a riconsegnare targhe di auto, a chiudere attività, a richiedere moduli di esenzione dal pagamento di quella o dell’altra tassa. O in farmacia sperando che la ricetta del medico sia valida ed il farmacista – non pagato dallo stato – fornisca le medicine con il solo pagamento del ticket (che pure è al 25% nella maggior parte dei casi); sperando di non dover in un futuro prossimo almeno, necessitare di un ospedale dove, in molti casi, anche per una semplice antitetanica, chiedono di andare prima alla farmacia ad acquistare la siringa perché non ne hanno più.
Troika, un nome che è diventato un incubo per i cittadini…
Pochi giorni fa la troika ha mandato qui ad Atene i suoi rappresentanti. Si sa cosa richiedono. E ripensavo cercando, peraltro in modo maldestro, di surrogare l’amarezza con l’ironia, ad un personaggio che fece epoca alla televisione italiana degli anni sessanta: il Prof. Otto Von Kranz, interpretato da Paolo Villaggio. Con uno spiccatissimo accento tedesco (non a caso), il bizzarro prestigiatore (certi alchimisti della finanza non mi sembrano molto diversi per i criteri utilizzati nelo stabilire un “valore a trent’anni”), chiamava di volta in volta con fare autoritario e perentorio alcune cavie dal pubblico presente, per esperimenti ignobili ed impossibili, al grido di “ki fiene di foi adesso?”. Ebbene la cosiddetta troika oramai così viene percepita: altri stranieri, gli ultimi di una lunga lista nella storia di questo paese, che vengono non a reclamare un debito reale ma a prendere, vengono a spogliare e depredare una terra già ridotta alla fame. Che vengono a dire ad un governo che rappresenta uno stato non più sovrano, cosa deve fare e a chi. E la gente, quel 70% del mio quotidiano, si aspetta soltanto che ancora una volta non tocchi a nessuno di loro.
Lì dove è nata la democrazia, sta morendo il concetto stesso di continente?
L’Europa era un concetto ambizioso. Molto ambizioso. Ma era un concetto che nei princìpi dei suoi primi fautori, era l’idea elevata di pensatori che volevano credere che le società nazionali fossero talmente evolute e mature da essere possibile. Era un concetto che ancora prima di pensare ad un più ampio mercato di scambio di merci e denari, ipotizzava una grande fucina di libertà, di comunanza di intenti, di maturità sociale. Era una grande agorà che non solo recuperava gli intenti filosofici della migliore democrazia greca, ma ne dilatava confini e principi fino a farne terreno aperto di convivenza, di solidarietà, di partecipazione, di crescita, di progresso.
Ed invece si è partiti nel 1957 (accordi di Roma) creando un “mercato” comune che, non a caso, si chiamava Comunità Economica Europea.
Nel mezzo quanti passi falsi?
Sulla strada degli accordi economici si è proseguito sostituendoli a quelli dei principi e degli ideali che sono, via via passati quasi di moda e solo recentemente ricomparsi quando certi fondamenti dei diritti umani hanno iniziato a vacillare. Nel frattempo, spinti dal paradigma secondo il quale più si è ricchi in denaro, più si è forti, con metodi che hanno abbondantemente travalicato i confini dell’inganno si è, per motivi politici e finanziari, accelerato l’entrata di tanti paesi che, in realtà erano molto, ma molto lontani dall’Europa che, nel frattempo era stata disegnata a Maastricht i cui scopi politici, innestati sulle direttive della collaudata CEE, niente più avevano a che vedere con quel concetto di Europa pensato dai suoi antesignani. Gli adeguamenti per entrarvi erano soprattutto di carattere economico (ad esclusione del caso Turchia che è storia tutta particolare). Non importava come ci si arrivasse (e ben abbiamo visto come si sono comportate Grecia e Italia ad esempio). Non vi era altro collante né alcuna verifica tesa a controllare che il paese entrante avesse una solidità ed una maturità sociale che lo sostenesse e rendesse credibili e vere le ricchezze di cui si proclamava portatore. E la Grecia compì il folle gesto.
I giochi olimpici come atto finale di un disastro annunciato?
Folle, meravigliosamente folle perché ad esso seguirono anni di felice ubriacatura conclusisi poi con il fallimento finanziario delle Olimpiadi del 2004. La Grecia era l’anello debole di questa Unione Europea, era un dato risaputo. Non a caso è stata la prima a capitolare. Ma è con quanto è successo dopo con i cosiddetti tentativi di “salvataggio”, con le misure d’austerità poi in parte considerate improprie (vedi le affermazioni di Christine Lagarde) e con tutti qui provvedimenti, ahimé non finiti, che tendono unicamente ad un disperato pareggio di conti e non a curare cause ed effetti dello sfacelo, che si percepisce come la vera natura della Unione Europea attuale sia unicamente quella economica varata nel 1957. Una unione commerciale, oggi più che mai gestita dai privati (non esiste infatti banca pubblica in Europa), dove per le esigenze finanziarie si sono calpestati tutti i principi della democrazia, tutti gli ideali di una società allargata ed evoluta, solidale, progredita ed attenta ai propri figli. Dove ogni paese ha iniziato a palesare immediatamente interessi regionali e la difesa dei propri interessi personali e dove non è minimamente emersa una vera azione politica comunitaria se non nelle parole vuote delle conferenze stampa. La Grecia dunque diviene simbolo ancora una volta: così come lo fu per la nascita della democrazia lo è oggi per la morte dell’Europa dei padri che l’ebbero pensata e che mai, probabilmente è stata realizzata.
Quanto ha inciso nelle pagine del suo pamphlet il fatto di aver conosciuto nel corso degli anni tante (e diverse) Grecie?
Ha inciso molto. Senza dubbio. Ma è stata una esperienza vissuta mentre il testo progrediva. Non vi era stata nella vita di tutti i giorni una reale percezione se non limitatamente a quei confronti che si fanno nell’osservare il cambiamento delle cose. Sensazioni ed apprezzamenti che restavano slegati e che solo dopo, ad “acque decantate”, sono diventati piccoli elementi di quell’insieme che mi avrebbe permesso di ricostruire una mia visione della storia recente di questa terra. Anche perché quanto l’esperienza a suo tempo aveva assimilato e conservato con gli occhi del turista – innamorato ma sempre tale – iniziava ad avere riscontri che permettevano di connotare i cambiamenti come sviluppi o regressi sociali, progressi tecnici o stagnazioni. Permettevano di intravedere i simboli del nuovo benessere economico e, nel contempo, il persistere di certi atteggiamenti un poco approssimativi ravvisabili, ad esempio, nella disordinata crescita della città di Atene che più di ogni altra cosa, era ed è, nelle sue periferie, lo specchio dei mutamenti demografici e sociali di questo paese, e non solo, come lo era stato prima del mio trasferimento, un fattore caratteristico di una terra curiosa dove il Mediterraneo tutto, da quello delle sponde nord-africane ai boulevard di Nizza (che per estensione raffiguriamo bagnati da acque mediterranee) si scontravano ed incontravano in un crocevia di storie, di popoli, di culture che sembravano convivere sotto una enorme quanto fragile cupola di tolleranza.
In occasione del suo primo incontro con l’Ellade, quale il primo aspetto che le balzò agli occhi?
Risale al 1975 il mio primo incontro con questo paese e vi arrivai già carico di tutte quelle informazioni che compagni di università, greci, mi avevano fornito. Era un periodo particolare per quel paese, reduce da una dittatura appena conclusasi e che mi aspettavo di trovare romanticamente libero, così come ci si può immaginare in gioventù. Ma non feci in quella occasione scalo ad Atene, se non per cambiare aereo. E venni subito proiettato, come per un viaggio indietro nel tempo sull’isola di Mitilini. Ed una immagine su tutte è rimasta: quella di un vecchio autobus – al quale attribuii, vista l’età, l’onore di aver ospitato anche Churchill – sul quale salii appena sceso dall’aereo, un fiammante Airbus della Olympic che al tempo era orgoglio della nazione. In quel contrasto, oggi so con ancora più coscienza di quanta non ebbi allora quando ancora ero disposto a interpretarli come i retaggi di una società di tipo tribale (in senso antropologico s’intende), che in quei simboli vi era tutto il filo delle contraddizioni e delle diversità che sopravvivono ancora oggi in questo paese dove ad una storia, tragica come quella contemporanea, figlia della modernità, l’antico, la tradizione, la conservazione dei valori, fanno da muro di contenimento, da barriera frangiflutti. Non a caso nell’alveo della famiglia oggi si ritrova l’arma più potente disponibile per tanta di questa gente, per contrastare la crisi. Un valore che sopravvive ed anzi si erge imperioso in un momento in cui di valori se n’è persa traccia. Ma non gli si potrà chiedere l’impossibile. Oggi sono i nonni che aiutano i figli che aiutano i nipoti. Sono i nonni che offrono le case a loro volta ereditate o costruite piano piano negli anni ai figli ed ai nipoti. Ancora una volta il clan familiare è la vera – e spesso viene da pensare l’unica – anima che cementa questa più che mai divisa società che solo in questo patrimonio comune oltre che nell’orgoglio (quello sano e non certe autarchiche derive) che pervicacemente mostra ad ogni non-greco, sembra ritrovarsi.
di Francesco De Palo – twitter@FDepalo
Enzo Terzi nasce il 02.11.1955 a Firenze, ove compie i propri studi presso il Liceo Scientifico e l’Università alla Facoltà di Lettere e Filosofia dedicandosi particolarmente a Storia Moderna e Storia del Teatro. Dal 1975 al 1979 collabora come giornalista con il quotidiano nazionale “Nazione Sera” curando 3 volte la settimana la pagina dello spettacolo teatrale. Sarà proprio il teatro la prima grande passione che lo porterà a seguire per 2 anni da vicino Gabriele Salvatores (al tempo regista teatrale della compagnia Il Gruppo della Rocca) e successivamente Ariane Mnouckine fondatrice e trascinatrice del Theatre du Soleil a Parigi. Seguiranno anni di studio e di collaborazione con l’Università di Milano per una ricerca storica sul teatro italiano. Dal 1990 cominciano le prime collaborazioni con case editrici. Ha gestito per 4 anni la rivista per le scuole medie superiori “The Wall” e nel 1995 ha costituito una propria azienda, la “ETP Books”. Fino al 2007 è stato responsabile esterno delle pubblicazioni per il Dipartimento Museale (etrusco e romano) di Fiesole (Fi). Risiede dal 2008 ad Atene.