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Suggerimenti per capire “le Calabrie”. Tra alterità estrema, senso dei luoghi e l’estetica del restare

A colloquio con l’antropologo Vito Teti: “Solo un Mezzogiorno aperto e cosmopolita potrà avere un futuro”. Parliamo degli  intellettuali e dell’identità calabrese con il professor Vito Teti, ordinario di etnologia presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di antropologie e letterature del Mediterraneo. 

Tra gli intellettuali meridionalisti più accreditati, Teti si è occupato negli anni di percorsi della costruzione identitaria, di antropologia dei luoghi e dell’abbandono, del rapporto tra antropologia e letteratura. Per conto della Rai ha realizzato  reportage fotografici e numerosi documentari etnografici.

Per i tipi della Einaudi ha appena pubblicato il saggio il Maledetto Sud, in cui affronta il tema degli stereotipi e dei luoghi comuni applicati alla meridionalità.  Dice:Il fatto di assumere la Calabria come ‘terra indecifrabile’ spesso porta i calabresi a considerarsi e a rappresentarsi come  incompresi, inconoscibili, oggetto di negazioni, in una parola vittime. Oppure sono prevalse spinte alla pigrizia e alla rinuncia a scorgere le contraddizioni, i contrasti, le luci e le ombre, le bellezze e anche le ‘bruttezze’ della regione. Gli intellettuali? Beh, non vedo più in giro tanti Alvaro e tanti Pasolini, mi chiederei piuttosto quale dovrebbe essere il ruolo di coloro che scrivono sui giornali, intervengono sui media, operano e controllano le televisioni, parlano dal web”.

Professor Teti, qualche anno fa in un suo articolo scriveva che “la Calabria è una sorta di luogo indecifrabile” e che gli stessi calabresi tendono ad “interiorizzare il punto di vista dell’osservatore esterno” rinunciando, quasi vergognandosene, al nome della terra di nascita o di appartenenza”. Spieghiamo questo concetto.

Corrado Alvaro parlava della Calabria come di una terra difficile da raccontare anche perché essa è stata inserita in una sorta di «geografia romantica». Calabria e Asturie: questo era l’accostamento che la sua padrona di casa berlinese ripeteva ad Alvaro come un ritornello. Viaggiatori e osservatori esterni, dal Cinquecento in poi,  hanno parlato di Calabria come terra lontana e primitiva, Africa, India interna e quindi come luogo dell’alterità estrema. Altre immagini hanno privilegiato aspetti esotici e di colore. E così abbiamo le immagini del buon calabrese, ospitale e generoso.

Spesso gli stessi osservatori lo descrivevano come sanguinario, brigante, vendicativo, feroce, crudele, inserito in una terra di bellezze e di rovine, con paesaggi incantevoli, sublimi, anch’essi inafferrabili. Tutto e il contrario di tutto. La regione rappresenta una sorta di luogo Ossimoro. Nel senso di terra indecifrabile, anche perché le élite della regione spesso per reagire agli stereotipi esterni hanno costruito un’identità difensiva, angusta, un senso di noi “opposto” agli altri. D’altra parte, il fatto di assumere la Calabria come “terra indecifrabile” spesso porta i calabresi a considerarsi e a rappresentarsi come  incompresi, inconoscibili, oggetto di negazioni, in una parola vittime. Oppure sono prevalse spinte alla pigrizia e alla rinuncia a scorgere le contraddizioni, i contrasti, le luci e le ombre, le bellezze e anche le “bruttezze” della regione. Ai luoghi comuni esterni si è risposto con altri luoghi comuni. Il risultato paradossale è stato quello di trasformare gli stereotipi in autostereotipi e di subire il fascino e la “maledizione” dello sguardo esterno. Se un giornalista del Nord dice la bestialità che i calabresi sono tutti criminali, si trova qualcuno disponibile a rispondere, con complementare stupidità, che la criminalità non esiste. Se qualcuno segnala i difetti e i ritardi della regione, subito si grida al razzista; e invece spesso a parlare  male, a dire le “peggiori cose” dei calabresi, sono le popolazioni stesse. C’è stata una tradizione culturale alta, capace di dialogare con la cultura esterna, di parlare all’Europa, ma spesso siamo dipesi dallo sguardo esterno, che esaltiamo quando si parla bene di noi e che detestiamo quando invece vengono segnalate criticità e difficoltà. Una bella trappola che le stesse popolazioni hanno teso a loro stesse e da cui solo loro potranno tirarsi fuori. Rinunciando a retoriche e localismi, ad autoesaltazioni e ad autodenigrazioni, a una depressione di maniera e a una euforia esasperata.

Esiste un’identità calabrese?

La parola identità, in genere, mi mette in allarme: sento odore di retorica. Perché l’identità è vista, di solito, come qualcosa di granitico, astorico, monocromatico. Il termine “calabresità”, brandito come un slogan e come una certezza identitaria, non indica nulla di preciso e di definito. Spesso ubbidisce a logiche che nascondono interessi, appartenenze fittizie, folklorismi deteriori. La bellezza innegabile e commovente della nostra regione non è stata quasi mai risorsa e verità, se è vero che abbiamo avvelenato mari, coste, fiumi, devastato colline e montagne, occultato tesori artistici e archeologici.  Come possiamo parlare di un’identità calabrese astorica e mummificata se la regione fin dalla preistoria è stata luogo di arrivi, soste, partenze, passaggi, transiti, scontri e incontri di popolazioni diverse? Come possiamo immaginare compatta e omogenea una terra che è stata, non a caso, conosciuta come le Calabrie, e che ha visto anche le sue denominazioni mutare?  E perché i viaggiatori più attenti e penetranti parlavano della Calabria come di un “abito di Arlecchino”, di una terra con mille usanze diverse, dove ogni “città” si presentava come una “nazione”? E tra pescatori, marinai, contadini, braccianti, pastori, agrari, latifondisti, borghesi non esistevano forse delle differenze enormi a livello economico, con forte ricadute a livello sociale e culturale? Non sono la separatezza, la frammentazione, la “lunghezza” (come diceva Isnardi) a rendere questa terra tutt’altro che “afferrabile” e con micro-culture locali che spesso non dialogano con quelle vicine ma magari con altre di territori lontani?  E l’emigrazione non è stata forse una grande causa di trasformazione della Calabria, non ha disperso e dilatato gli antichi luoghi, non ha realizzato nuovi mondi che si rapportano con quello di origine? Se proprio vogliamo parlare di identità  dobbiamo declinarla a plurale, storicizzarla, individuarla nella sua mobilità, nel suo carattere aperto e dinamico, a volte controverso. Non penso che esista, come qualcuno pensa, il “vero calabrese”, il “tipo calabrese”, ma che esistono mille e mille modi di sentirsi calabrese, di vivere il rapporto con le persone e con i luoghi. Non amo l’espressione “noi calabresi”, anche perché dentro ci vedo inserite persone con cui non vorrei avere nulla a che fare, perché la regione ha prodotto persone oneste e laboriose e anche prepotenti e oppressori. Un conto è comprendere la storia e l’antropologia della regione, un altro è cercare di imbalsamarle magari per fini poco nobili.

Non c’è dubbio che la percezione esterna come di quella interna (L’immaginario identificante) che si ha della regione dipenda, oltre che da fattori oggettivi, anche dalla funzione che in essa hanno gli intellettuali e la cultura. Provocatoriamente, esistono ancora gli “intellettuali” in Calabria?

Il termine “intellettuale”, che un tempo indicava una figura abbastanza precisa e riconoscibile, oggi ha assunto un significato e un valore ambigui, polisemici. Nei tempi della rete, di internet e di un analfabetismo di ritorno l’intellettuale non è più la figura depositaria di un sapere appreso sui libri e che tendeva ad usare nella sua professione e per acquisire uno status sociale desiderabile e invidiabile.  Vorrei ricordare come siano stati proprio gli emigrati a porsi il problema dell’istruzione dei figli, del loro accesso alla scuola e quindi alle professioni. Per contadini e braccianti emigrati, fare studiare i figli costituiva un sogno e anche una sorta di riscatto sociale e non a  caso i notabili vedevano con fastidio  la scalata sociale che tentavano gli appartenenti ai ceti popolari. Penso – per rispondere meglio alla sua domanda – che dobbiamo abbandonare definitivamente l’idea sociologica (weberiana e non solo) che si è occupata degli intellettuali come un ceto sociale, organizzato, con una sua visione coerente del proprio posto nel mondo. Allo stesso modo andrebbe aggiornata e rivisitata la concezione gramsciana (che ha ancora molti epigoni) dell’intellettuale organico, di un intellettuale al servizio del partito o di una causa considerata nobile, dell’intellettuale impegnato. Questa concezione è stata definitivamente messa in crisi dalle grandi trasformazioni sociali ed economiche che si sono verificate negli ultimi decenni, dal crollo del Muro, dalla fine dei partiti tradizionali, dalle difficoltà della democrazia, dalle nuove forme di costruzione del consenso. In un senso molto vasto e anche generico, se intellettuale indica qualcuno che adopera l’intelletto nel suo lavoro, la mente e non le braccia, qualcuno che ha studiato e si è laureato, penso che non solo esistono gli intellettuali, ma siano anche una grande maggioranza della popolazione: non a caso un tempo la disoccupazione riguardava i lavoratori delle braccia e oggi riguarda giovani diplomati e laureati e si parla di disoccupazione intellettuale e si denuncia la fuga dei cervelli.Quando si parla di intellettuali bisogna domandarsi perche questo termine venga adoperato in maniera restrittiva con un’idea antica e superata dell’intellettuale come costruttore e sostenitore di opinione e di consenso. E bisogna chiedersi come mai laureati, tecnici, ingegneri, medici, avvocati, geologi, docenti e così via vengono indicati come professionisti e non invece come intellettuali, visto, mi si scusi il gioco di parole, che la loro attività è prevalentemente intellettuale. Di queste categorie sociali, che spesso formano delle lobbies ci si attenderebbe anche – mi pare che questo è implicito nella sua domanda – un contributo di tipo civile, volto al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Si potrebbe segnalare come molti professionisti provenienti dai ceti popolari si siano staccati dalle loro origini, dal loro mondo di appartenenza, si siano adeguati, accontentati di un posto, e spesso si siano rivelati totalmente subalterni alla politica, alla pubblica (si fa per dire) amministrazione, a chi ha in mano le leve del potere. Per non dire dei professionisti che costituiscono la zona grigia della criminalità e spesso sono diventati loro stessi componenti e rappresentanti o esponenti di associazioni criminali. Dalle élite intellettuali, che sono numerose nella regione, ci si attenderebbe capacità, impegno, rigore, rispetto delle regole, senso etico, autonomia dalla politica. E invece, purtroppo, pure con lodevoli e significative eccezioni, non sempre è stato così. Noi contrastiamo fermamente il Porcellum e il fatto che i partiti (gruppi di potere) nominino direttamente la rappresentanza parlamentare, ma dirigenti e responsabili del Asp, primari, direttori dei lavori, consulenti e così via non vengono nominati direttamente dalla politica o dal politico, prescindendo spesso dalle loro competenze e dalle loro capacità? Noi denunciamo la devastazione e il degrado del territorio incolpando la politica e i partiti e ci mancherebbe altro, però bisogna domandarsi quanto tecnici, ingegneri, architetti, geometri, geologi non siano stati compartecipi e complici di pratiche devastatrici, assecondando il politico o il datore di lavoro di turno, anche quando compivano chiare irregolarità e scelte illegali? La funzione che questi “intellettuali” avrebbero,  sarebbe invece alta e nobile: quella di sottrarsi ai ricatti e alle promesse della “politica”, di chiedere dignità professionale ed autonomia, di vedere riconosciute le loro enormi capacità e competenze, spesso faticosamente acquisite, di lavorare secondo regole e procedure legali, con un’etica della loro professione e anche sorvegliando perché la loro missione non venga tradita e devastata dalla politica. E adesso arrivo al cuore della sua domanda. Quando lei mi chiede se in Calabria esistono ancora gli intellettuali, è evidente che si riferisce (come avviene di solito) a un intellettuale “creativo”, capace di narrare e rappresentare la realtà, di denunciarne i mali, di fare scelte civili ed etiche, di fornire analisi convincenti e di offrire prospettive credibili. Un’idea nobile che probabilmente si richiama a quella dell’intellettuale impegnato e radicato o a quella del meridionalista, che faceva una scelta di campo precisa e che si poneva problemi concreti e politici. Non vedo una grande “folla” in questo campo che va diversamente esplorato e coltivato. D’altra parte non bisogna immaginare che l’ “intellettuale” sia, quasi antropologicamente, migliore degli altri. Carlo Maria Cipolla ha scritto nel suo bel saggio sulla stupidità che gli stupidi sono rappresentati in proporzioni uguali tra analfabeti, contadini, professionisti, docenti universitari e persino premi Nobel. E così l’apatia, l’indifferenza, l’amoralità, la soggezione al potere, la mancanza di giudizio libero sono presenti non solo nella società civile e nella politica, ma anche nel “mondo intellettuale”, anche in quello accademico. Tra gli “intellettuali”, che non solo dovrebbero interpretare il mondo, ma, attualizzando un’idea superata, migliorarlo, trasformarlo, renderlo conoscibile e vivibile, vedo molte cautele, tanti interessi particolari, calcoli e timori, una tendenza al conflitto e alla litigiosità, la dipendenza dalla politica e dal potere, la tendenza ad ottenere finanziamenti comunque e da chiunque, l’incapacità di mettersi in gioco, un parlare per luoghi comuni, la tentazione di restituire un’immagine retorica della regione e anche di privilegiare gli aspetti esotici, edulcorati o criminali, andando incontro alle aspettative di un pubblico di lettori pigri o viceversa ubbidendo alla moda, ai giornali, a gruppi editoriali del Nord. Insomma, mi pare che spesso si tenda a restituire l’immagine, negativa o positiva, della regione che possa compiacere tutti e attrarre gli altri. E, tra retoriche, fughe in avanti, rimpianti sterili, nostalgie inautentiche, mancata denuncia dei veri mali della società, la regione resta sempre agli ultimi “posti” negli indici che contano e dobbiamo accontentarci di qualche edulcorata immagine sul bel paesaggio, sull’ospitalità, sulla buona cucina e così via. Ci sono intellettuali lucidi, eccezionali, onesti, innamorati, senza lacrimucce artefatte, della loro terra, capaci di “narrarla” nelle sue verità, ma spesso sono e vengono appartati, vivono separati, sono marginalizzati, non riescono a fare “gruppo”, a incidere. Ci sono bravissimi studiosi, scrittori, artisti – molte donne e tanti giovani – che non sempre trovano spazio e non sempre hanno voce. E così – ma non è solo il caso della Calabria – prosperano figure compiacenti col potere, perché dipendenti dai potenti, a volte “utili idioti” (le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici esigono fedeltà), altre volte indifferenti e rassegnati. Non di rado sono, come ho detto, costruttori di autostereotipi, proprio nel tentativo di criticare gli stereotipi esterni. Più che del ruolo dell’intellettuale (come veniva inteso nel passato), che ormai non ha molto capacità di incidere e di influenzare, e d’altra parte non vedo più in giro tanti Alvaro e tanti Pasolini, mi chiederei quale dovrebbe essere il ruolo di coloro che scrivono sui giornali, intervengono sui media, operano e controllano le televisioni, parlano dai web.

Cosa possono fare gli intellettuali e la cultura per la nostra regione?

Da quello che ho detto fin qui, sono lontano da considerazioni generiche e generaliste, preferisco la problematicità e soprattutto non credo che si possano scrivere manifesti per gli intellettuali o anche considerarli tali soltanto perché scrivono, filmano, fotografano, raccontano qualcosa della regione. Penso che gli intellettuali prima di domandarsi cosa possono fare per la loro regione (ma perché solo per la loro regione e non per l’Italia e per il mondo), debbono porsi il problema di come “essere” e operare nella loro regione. Mi piace adoperare termini antichi, ma sempre nuovi, come responsabilità, dignità, senso del pudore, vocazione alla libertà. La nostra regione ha una storia, una tradizione e una cultura (direi al plurale storie, tradizioni e culture) che vanno conosciute, narrate, valorizzate, ma l’intellettuale deve ubbidire alla propria coscienza, alle proprie tendenze, alle proprie vocazioni. L’intellettuale che immagino deve essere profondamente (faticosamente) radicato (senza dover vivere necessariamente in Calabria) e nello stesso tempo sentirsi sempre “fuori luogo”. Deve con autenticità e con persuasione facilitare l’incontro e nello stesso tempo essere sempre all’opposizione, andare contro corrente. Naturalmente, questo non vuol dire essere pregiudizialmente contro e non riconoscere le positività e quanto di buono viene realizzato nella regione. Non è auspicabile essere demolitore ad ogni costo o pifferaio per interesse. La libertà interiore non può che tradursi in libertà dal potere, dai vincoli, in ricerca di nuove strade, di aperture. Non so quanti accademici possano dirsi anche “intellettuali”, ma comunque io ho sempre avuto l’idea che i docenti universitari di tutte le discipline e gli insegnanti in genere debbano essere bravi studiosi, ottimi e coscienziosi educatori, con la vocazione a leggere e a interrogare il territorio. Non credo che l’accademia debba essere una torre d’avorio. L’intellettuale, lo scrittore, il saggista, il tecnico, l’artista debbono uscire fuori da se stessi, dal loro gruppo di lavoro, dalla loro sede o sedia comoda e operare dialoghi, contaminazioni. Sottraendosi a quel chiacchiericcio sterile e “localistico” che si traduce in facoltà di sostenere tutto e il contrario di tutto. A volte senza competenze, per luoghi comuni. L’intellettuale (quello che io sogno) deve porsi il problema di cambiare e di trasformare, ma percorrendo sempre una via credibile ed etica. Fare non basta: a volte il fare, senza un orientamento etico, provoca devastazioni e degrado. Bisogna correre il rischio di “sporcarsi” le mani a condizione di non sporcarsi l’anima. Un fare che è necessario, una concretezza che è auspicabile, una partecipazione alla vita sociale e politica comportano una tensione morale ed etica, un rigore intellettuale e culturale, un atteggiamento aperto e non pregiudiziale. Credo che l’intellettuale non possa essere una monade, vivere in solitudine, non occuparsi degli altri, non partecipare a lotte sociali, civili, culturali. L’intellettuale è anche un flaneur, che vuole camminare, spaziare, navigare, conoscere, scoprire il mondo, raccontarlo con i propri strumenti, per sé prima che per gli altri, sperando che il suo interrogarsi, magari il suo lacerarsi, interessi anche agli altri. L’intellettuale non deve ammiccare, essere borioso e vanitoso, cercare il consenso facile. Inutile dire, però, che l’intellettuale è uno che studia, non dorme la notte, è ossessionato dalla scrittura o dalla sua produzione, e, allora, deve sapere che è anche un “monaco” un solitario, un cercatore di silenzio e non di clamore. C’è un tempo per studiare, operare, insegnare, scrivere e un tempo per meditare, riflettere, essere soli con se stesso (o con la natura o con Dio). Ma mi piace pensare che questo “doppio” statuto non sia solo dell’intellettuale, ma di ogni donna e di ogni uomo che si interroga sul proprio essere nel mondo, sulla proprie identità, sulla propria storia. Non dobbiamo caricare soltanto gli “intellettuali” del compito di interpretare e pensare, ma cerchiamo di cogliere quanto di “intellettuale” (in senso utopico e innovativo) ci sia in ognuno di noi. Ho conosciuto contadini, braccianti e artigiani, con una cultura e un’intelligenza che non ho visto mai in tanti colleghi e che anche tanti osannati intellettuali si sognano. Delle domande provocatorie: non sarà che andare alla ricerca del ruolo e della funzione dell’intellettuale, spesso non possa nascondere il tentativo di allontanarci dalle nostre responsabilità, dai nostri doveri, dai nostri diritti di cittadini, di appartenenti a una comunità? Non sarà che a furia di parlare di intellettuali, grandi o piccoli, organici o disorganici, servili o liberi, si dimentica che la regione è all’ultimo posto per la lettura, che le scuole sono penalizzate, che i docenti bravi e volenterosi non vengono sostenuti, che la scuola non viene sorretta e tutelata, e che nella regione abbiamo più scrittori che lettori, con la sensazione amara che molti di quelli che “scrivono” nemmeno leggono? Non sarà che si adotta un atteggiamento indulgente nei confronti delle clientele, della cosiddetta “società civile”, che, se esiste, fatica ad apparire nella sua alterità rispetto alla politica e al potere?

Si dice spesso : “dobbiamo fare in modo che i giovani restino in Calabria”. Sull’argomento lei si è pronunciato anche col saggio  “Pietre di pane. Un’antropologia del restare”(Quodlibet, 2011) . Ma è poi cosi importante “restare”?

Il libro che lei ricorda comincia con un saggio in cui mi interrogo sul senso del restare e sulla restanza e continua con storie di emigrazione, viaggi, ritorni, nostalgie, voglia di ripartire, spaesamenti. D’altra parte i miei interessi sono stati fin dalla fine degli anni Ottanta rivolti alle tematiche dell’emigrazione, alla nascita del doppio, all’antropologia del viaggio. Partire, tornare, restare sono motivi di una medesima vicenda storica, sono legati a un’esplosione del mondo tradizionale, alla frammentazione narrata da Alvaro, o in altri contesti di Joseph Roth. Rimasti e partiti diversamente da come sono stati considerati e da come si sono considerati spesso in conflitto sono inseparabili: schegge di un universo scomparso. Alvaro capiva e scriveva bene che un calabrese sta fermo anche quando parte ed è in viaggio anche da fermo, anche quando è seduto dietro una scrivania.  La Calabria ha avuto fin dall’antichità una storia di calamità, di catastrofi, di abbandoni di siti e di nascita di nuovi siti e questo ha segnato un’antropologia di una terra mobile, in cui radicamento e fuga sono indissolubilmente legati. Partiti e rimasti, soprattutto con la discesa lungo le coste delle popolazioni e con la nascita dei paesi doppi, e ancora di più con l’emigrazione, sono gli uni ombra, specchio, riflesso dell’altro. Bisogna considerare vicende di lunga durata e storie recenti, anche quella che riguarda i tanti arrivi nella nostra terra, per evitare sia una retorica del viaggiare che la retorica del restare. Erranza e restanza vanno comprese nel loro legame difficoltoso e nelle loro dinamiche. Ho studiato le “donne sole” degli “americani” a fine Ottocento, che erano rimaste e che pure erano diventate più mobili degli uomini che erano partiti, avevano allevato figli, coltivato i campi, gestito la famiglia, avevano creato una nuova identità.  Si può partire e restare ancorato sterilmente a un mondo perduto e si può restare creando innovazione e mutamento. Non sostengo affatto l’idea del restare, inteso in maniera consolotoria e pacificata, come una sorta di pigrizia o di merito di cui andare fieri. Anzi: auspico che i giovani viaggino, si muovano, magari visitando prima i loro paesi e i loro luoghi e che poi decidano. Il dilemma partire o restare segna la nostra storia, la nostra antropologia, la nostra anima, il vissuto di tutti i calabresi, il loro amore e la loro rabbia, i loro disincanti e la loro speranza. Ma oggi il problema è quello dell’ “abitare”, di avere un senso dei luoghi in cui si vive, rispettarli, di mostrare riguardo e cura per i luoghi e non pensare che debbano essere gli altri ad occuparsene, difenderli dalle devastazioni. Sogno una pratica politica che metta i giovani nelle condizioni di scegliere, che sappia creare soluzioni al problema del lavoro qui ed ora, che non espella chi vuole restare e che non costringa a restare chi desidera partire.  Penso poi che chi sceglie di restare non possa vantare una qualche superiorità morale o di altro genere su chi va via (e viceversa), ma che invece abbia l’obbligo di dare un senso etico alla sua scelta, di adoperarsi non per conservare  ma per trasformare, di camminare e muoversi pure restando fermo. Restare significa non adeguarsi, non adattarsi, non accettare l’ordine esistente, rendere e restituire vita a luoghi mortificati, sapere accogliere, scoprire, nei fatti e non a parole, una vocazione all’accoglienza e all’ospitalità. Restare ha senso se non si resta prigionieri del passato, delle ombre e dei localismi ma se scatena fantasie, immaginazione, passione, voglia di aprirsi, dialogo, confronto, attesa e quindi è un restare che è dinamico e impegnativo almeno quanto il viaggiare. Restare oggi deve comportare capacità di mettersi e mettere in discussione, di sentirsi a disagio anche nel posto in cui si vive, di essere allo stesso tempo appaesato e fuori luogo.

Cosa consiglierebbe ad un giovane calabrese che ha appena finito il suo percorso di studi?

Non è facile dare consigli a qualcuno, tanto meno agli appartenenti a una generazione cui è stato sottratto il futuro e che si trova disorientata e senza certezze. Prima di dare un consiglio a un giovane, direi ai politici, agli amministratori, alle Università, al mondo dell’impresa, al sindacato, alla Chiesa, ai movimenti dal basso, a chi lotta per i beni comuni di adoperarsi per rendere vivibili questi luoghi, per renderli abitabili e quindi per creare occupazione, posti di lavoro. Naturalmente i giovani non debbono essere soggetti passivi di questa grande rivoluzione, ma debbono essere protagonisti attivi, convinti, propositivi perché sono in gioco il loro presente e il loro futuro. Quello che invece penso di poter consigliare è di continuare a studiare, a  leggere, a tenersi informati, a viaggiare (sperando che possano farlo), ad avere la voglia di cambiare il mondo e di farsi promotori di una cultura delle regole, della legalità, del merito. Questo vuol dire creare una società che sappia creare nuove opportunità, offrire nuove possibilità di scelta. Ad un giovane potrei dire (lo dico ai miei figli) che si può essere “paesani” in senso angusto o in senso positivo; che una sottile linea d’ombra separa persuasione e retorica. Non si fugge dalle proprie origini, ma non bisogna restare prigionieri delle origini. Tradizione vuol dire anche “traduzione” e “tradimento”. Il “tradimento” prevede anche il ritorno, il riconoscimento del valore del passato.  Non esiste alcuna autentica modernità senza un sofferto legame col passato. La produzione di località e di appaesamento riguarda i giovani di tutto il mondo.E spesse volte il mondo che cerchiamo altrove si trova proprio da noi, o dentro di noi. Aprirsi al mondo significa anche ripensare la propria storia con orgoglio che non può diventare supponenza, con amore che non può diventare enfasi. I nostri luoghi hanno storie, paesaggi, reperti, vicende che meritano di essere conosciuti e valorizzati.  Ai miei studenti del primo anno, chiedo in apertura del corso, se hanno letto Alvaro e visitato Stilo. Il novantanove per cento risponde negativamente. Ecco la scuola e l’università hanno un grande compito: quello di legare luoghi di appartenenza e mondo, cultura scientifica e cultura letteraria. A un giovane che ha finito il suo percorso di studi, direi: continua  a studiare e adoperati perché quelli che vengono dopo di te possano studiare meglio di quanto non è stato possibile alla tua generazione. Direi: vivi nel mondo e nel presente, non dimenticando che anche il tuo luogo è il mondo, e che il presente lo devi condividere con altri per inventare il futuro.  Queste ed altre cose direi… poi non lo tormenterei, lo lascerei libero nella sua ricerca, nella sua voglia di vivere, di andare dove lo portano il cuore e la mente e di “diffidare” di quanti gli vogliono spiegare cosa deve fare. Naturalmente questo non vuol dire cadere in un relativismo assoluto o rinunciare alla creazione di punti di riferimenti autorevoli, anche se non autoritari.  Un bel tema – di cui mi occuperò l’anno prossimo all’Università – è come si è trasformata o come è mutata notevolmente la figura del padre nella nostra realtà e nella società occidentale.

Finiamo allargandoci un po’. Come definirebbe l’attuale condizione del Mezzogiorno?

La domanda, come le altre, è bella, interessante e complessa. Rischio anche in questo caso di apparire riduttivo, e, pure con tanto spazio disponibile, mi limiterò a delle considerazioni provvisorie. Partiamo dall’attuale crisi che investe l’Italia, la Grecia, la Spagna e altri paesi europei, all’interno di una crisi globale su cui si è scritto e detto molto. Il Mezzogiorno d’Italia, nella sua complessità, conosce difficoltà maggiori delle regioni del Nord, ha un indice elevato di disoccupati, e alcune zone appaiono davvero esplosive. Questo vuol dire che quella “questione meridionale”, di cui da decenni ormai non si parla (e saluto con piacere l’uscita di una nuova antologia della questione meridionale scritto con competenza e passione da Pasquino Crupi), una questione che è stata rimossa, occultata, cancellata per decreto, è tutt’altro che risolta. Certo in termini diversi dal passato, il divario Nord-Sud non solo permane, ma è aumentato. Mentre la Germania ha colmato in meno di vent’anni quell’enorme divario, di gran lunga superiore a quello Nord-Sud, tra Est e Ovest, al punto che la Germania dell’Est appare oggi l’area trainante dell’economia tedesca. D’altra parte, dobbiamo dire che, in questo periodo di crisi, al Sud forse le difficoltà individuali e familiari presentano aspetti meno drammatici e disperati di quanto non siano quelle in alcune aree metropolitane del Nord. Cosa vuol dire? Non solo che certi dati e indici a volte sono falsati o male calcolati, ma che al Sud “resistono” relazioni economiche, sociali, produttive, comunitarie che consentono anche ai più poveri di non cadere nella disperazione più nera. Permangono una socialità e una senso di sostegno magari all’interno del nucleo familiare, e non solo, che consentono di supplire a carenze del pubblico. E qui, però,  c’è da notare che, al Su, non solo non si è affermata un’etica pubblica, una politica capace di dare risposte, ma che abbiamo distrutto anche quelle forme culturali e produttive che consentivano una vita associata, che non escludeva nessuno. Senza mitizzare parole come solidarietà e accoglienza, è vero che l’affermazione di una modernità selvaggia e criminale è avvenuta con la distruzione indiscriminata della tradizione, di quella tradizione che oggi viene invece inventata, enfatizzata e ridotta a colore: folklorizzata. Il mito della fabbrica e del Nord ha alimentato la leggenda che le zone interne e montane fossero invivibili e improduttive. Il mito dell’industrializzazione ha portato alla distruzione della Piana, di boschi, di colture, di valori, e alla creazione di incompiute, di fabbriche e depuratori mai aperte, a una cementificazione che ha sepolto anche dignità e senso della fatica della popolazione. Il risultato è lo svuotamento (anche morale) delle zone interne e l’intasamento delle coste, la nascita di non luoghi e di nuovi deserti. Abbiamo avvelenato, o abbiamo assistito complici e passivi, i nostri pozzi petroliferi, le nostre risorse, in cambio di un’assistenza che ha generato clientele, malapolitica, mafie, in un percorso in cui è difficile separare la causa dall’effetto. Abbiamo pensato, in molti, che il Nord fosse il responsabile di tutto, ma, adesso, a cinquant’anni dalle illusioni moderniste e del boom economico, dobbiamo riconoscere che i ceti politici meridionali, che hanno contato e come nella prima e nella seconda Repubblica, hanno avuto responsabilità a volte maggiori di quelli del Nord. Abbiamo contrastato le immagini odiosamente razziste della Lega, ma spesso, con i nostri comportamenti, abbiamo finito per dare consistenza agli stereotipi più cupi. Questo è avvenuto anche a livello di immagini, di narrazioni, di rappresentazioni. Siamo stati vittime delle immagine negative esterne, ma ne abbiamo costruite anche noi di più negative. Al razzismo leghista abbiamo finito col rispondere con retoriche identitarie, con mitizzazione di un Meridione bello e solare, con invenzione di identità, svendendo invece i valori e i modelli tradizionali. Lungi da ogni nostalgia inconcludente, penso che il passato vada rivisto e riletto per capire cosa di buono ha da insegnare e anche da trasmettere. Non si può tornare indietro, ma non si può camminare senza sapere da dove siamo partiti e dove siamo diretti. Non si sogna il ritorno alla campagna, ai paesi, alla montagna del passato, ma si immaginano nuovi mestieri, nuovi saperi, nuove produzioni legati alle risorse locali. Questo vuol dire rinunciare a slogan e a politiche devastanti. La difesa e la protezione del territorio, la messa in sicurezza delle scuole, dei paesi, dei centri storici, la valorizzazione e la promozione dei prodotti, la cura del bello che ancora permane a dispetto di distruzione: da qui bisogna partire per una nuova soggettività, ma anche per nuove economie locali che possono arrestare le fughe e gli esodi, che sono ripresi. Tutto questo deve diventare piano (ma non gli strumentali piani propinati negli ultimi anni), progetto, idea di una nuova Calabria e di un altro Sud. Deve diventare obiettivo condiviso anche dalle popolazioni, dovere etico, senso di appartenenza vera e non fittizia. Richiede un rinnovamento (che non è un fatto anagrafico) del ceto politico, dei gruppi dirigenti, di quanti non vogliono creare occasioni per i giovani, richiede passione, verità, responsabilità, anche fantasia e immaginazione. Non so se la via imboccata porta in questa direzione. Bisogna cercare altre vie, altri soggetti, nuovi protagonisti. Penso a una nostalgia utopica, come la intendeva Pasolini, come critica dell’esistente e pietas su quello che è stato distrutto violentemente. Certo bisogna uscire dalla trappola da un “noi meridionali” belli, puri, buoni con la conseguenza di dare la colpa sempre agli altri. Se è vero che sono odiosi gli stereotipi dei meridionali oziosi, sporchi, criminali, è anche vero che non possiamo nascondere le nostre responsabilità. E non può consolarci il dato che “così fan tutti” o che la ndrangheta è una problema nazionale. Dobbiamo capire come e perché da noi è così avvolgente, incisiva, catastrofica. Insomma, a livello di rappresentazioni, bisogna uscire dalla sindrome dagli assediati e da quella complementare degli inascoltati, dalla sindrome del ce l’hanno tutti con noi a quella di nessuno si occupa di noi. Bisogna recuperare orgoglio che non è superiorità, fiducia che non è rivendicazionismo sterile, senso del passato che non può trasformarsi in rimpianto del buon tempo antico. Dobbiamo sapere dire verità amare, senza nasconderci. Solo così potremo vedere meglio le bellezze e le virtù del Sud. Un Sud che non può essere astoricizzato, ridotto a favola o a stereotipo, o presentato  come qualcosa di unitario e di compatto o, romanticamente, come luogo incontaminato e come isola scampata alla modernità. C’è il Sud e ci sono tanti Sud. Il Meridione non è un’entità geografica, culturale, economica: ci sono doppiezze e articolazioni, aree più depresse e aree più sviluppate. C’è il Sud che accoglie davvero e c’è un Sud che usa la retorica dell’accoglienza per interessi non sempre trasparenti e legittimi. C’è il Sud delle mafie che devastano e inquinano tutto e c’è un Sud che non accetta più lo strapotere mafioso, che non tace, si ribella. Insomma, il “noi meridionali”, come l’identità meridionale, mi sembra sterile. Non mi riconosco in un “noi” dove vengono inseriti criminali e politicanti e invece mi sento vicino ad altri che, pure lontani, pure al Nord e nel mondo, non accettano la mortificazione dei loro luoghi e si ribellano a un’omologazione e una globalizzazione che parla di sfruttamento e di danaro e non di persone con diritti e dignità. Se il Meridione non rivendica una tradizione culturale alta, utopica, aperta, “cosmopolita” e si rinchiude in angusti localismi, in rivendicazioni passatiste, in difesa di angusti e aspri orticelli, in contrapposizione contro gli altri, penso che non avrà molto da dire e che le giovani generazioni non potranno scegliere se partire o restare, viaggiare o tornare.

di Luigi Pandolfi

 

pubblicato anche su http://www.calabriaonweb.it/2013/08/05/suggerimenti-per-capire-le-calabrie-tra-alterita-estrema-senso-dei-luoghi-e-lestetica-del-restare/

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