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Rosa Villecco Calipari: La forza militare è lo strumento per sostenere la politica estera ma non per sostituirsi ad essa

Rosa Villecco Calipari, è parlamentare del Partito Democratico e vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati. L’abbiamo ascoltata sulle prospettive di difesa comune degli stati dell’Ue in vista del prossimo Consiglio Europeo che dedicherà una sessione specifica sull’argomento.

Il 19 dicembre prossimo il Consiglio europeo svolgerà una discussione tematica sulla politica di sicurezza e di difesa comune. L’Italia tra pochi mesi assumerà la presidenza di turno dell’Ue, due occasioni per un nuovo protagonismo in Europa per il Paese.

La proposta italiana per una difesa europea è contenuta in un documento che si intitola “More Europe” presentato dal nostro Governo lo scorso marzo ai partner europei.

Il documento indica la necessità di gettare le basi di una nuova comunità transatlantica di sicurezza sulla base di una più forte presenza europea, non sostitutiva della NATO ma utile anche a rinforzare le capacità di operazione euro-atlantica.

Successivamente, Italia, Lituania, Polonia e Paesi Bassi hanno presentato un documento di riflessione che auspica una più stretta collaborazione UE-NATO.

Nell’ambito della Delega al Governo per il recepimento delle Direttive europee (recentemente approvata dal parlamento) è stato semplificato lo scambio di informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell’Unione europea per quanto riguarda indagini penali o operazioni investigative di contrasto alle organizzazioni criminali transnazionali. Non sfuggono le implicazioni di sicurezza che possono essere connesse a tali attività in relazione alla tutela di interessi nazionali di natura strategica, tenuto conto del raggio di azione e della capacità d’impatto di tali organizzazioni criminali, come d’altra parte è emerso anche in occasione di recenti audizioni. Inoltre, sempre nell’ambito della Delega, un altro argomento di rilievo riguarda il recepimento dell’intero corpus normativo europeo in materia di protezione internazionale e di diritto d’asilo che prospetta una ricognizione su tutta la normativa interna per garantire protezione e rifugio alle vittime di «persecuzioni e pericoli derivanti da stati di guerra» e per il riconoscimento della protezione internazionale, a sua volta finalizzata ad armonizzare le prassi applicative vigenti nei Paesi membri, con particolare riferimento alla tutela dei minori e di altre categorie di persone vulnerabili.

Il problema relativo alla contrazione dei bilanci della difesa viene aggravato dalla persistente frammentazione dei mercati europei, che conduce a un’inutile sovrapposizione di capacità, organizzazioni e spese. La cooperazione e la concorrenza nell’UE continuano ad essere un’eccezione, con oltre il 75% degli investimenti per equipaggiamenti nel settore della difesa effettuati a livello nazionale. La difesa comune europea può essere la soluzione per ridurre la spesa militare e rendere più efficiente il sistema?

La costruzione di una Forza militare europea è l’unica prospettiva realistica per superare i limiti, anche di bilancio, che i singoli stati incontrano per realizzare una politica di sicurezza e difesa all’altezza delle sfide attuali. I paesi europei non possono più permettersi di lavorare ciascuno per conto proprio alla ricerca di eserciti integrabili solo sulla carta. Un esercito europeo può fornire alla Nato e all’Onu le forze di cui hanno bisogno, spendendo un decimo di quanto si spende oggi e garantendo anche un sostegno istituzionale che lo distingua nettamente da ciò che viene affidato alle agenzie di servizi mercenari o alle varie SpA. A mio avviso, è un passaggio obbligato per garantire la deterrenza e la difesa collettiva del continente e consentire all’Europa un’autorevole presenza politica sulla scena internazionale.

L’Italia sta giocando su due tavoli la partita dell’innovazione militare. Si espone per una cooperazione europea della difesa, ma partecipa al programma F35 dopo aver abbandonato la coproduzione dell’Eurofighter. Una contraddizione che non ha sciolto nemmeno il governo Letta, anzi sembra l’abbia rafforzata con la conferma dell’acquisto degli aerei statunitensi. E il sottosegretario Roberta Pinotti in Usa partecipa all’ultimo test del missile Meads…

Il problema è complesso. Noi dobbiamo dare una risposta a tre diverse esigenze: riqualificare la spesa militare, rinnovare alcune linee di volo dell’aeronautica e garantire un futuro al nostro sistema industriale. Sono tre questioni connesse tra loro e dobbiamo risolverle in positivo aiutando l’Europa a recuperare un ritardo evidente in questo settore. Sono problemi molto seri e il Partito democratico non solo non si è sottratto all’impegno di affrontarli, come dimostra la nostra determinata presa di posizione in parlamento che ha portato, nel luglio scorso, alla attuazione di una indagine conoscitiva sui sistemi d’arma, ancora in corso, e ad ottenere l’impegno del Governo a sospendere ulteriori acquisizioni per il programma F35: molti dubbi sul programma F35 e su altri programmi non meno costosi hanno trovato conferma e legittimità istituzionale in quella sede. Prima ancora avevamo vinto una importante battaglia parlamentare riformando la legge sull’acquisto dei sistemi d’arma e riservando al Parlamento un parere definitivo e vincolante su questa delicata materia. Un punto è emerso con chiarezza: ridimensionare un programma non vuol dire disarmare il nostro Paese. Ciò che conta è mettere insieme uno strumento militare bilanciato e sostenibile.

Le frasi ad effetto, di cooperazione tra i 27 stati d’Europa in vista del consiglio europeo sulla difesa comune non mancano, ma c’è un realtà concreta, fatta di rivalità tra partners che non sono uniti in uno Stato federale. Può funzionare un sistema di difesa comune senza un’integrazione politica effettiva?

Il Trattato di Lisbona ribadisce che il perseguimento della politica di sicurezza e di difesa comune non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri, rispetto agli obblighi derivanti dal Trattato del Nord-Atlantico. Alcuni passi avanti ci sono stati, come per esempio la nomina di un Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza (AR) e l’istituzionalizzazione dell’Agenzia europea per la difesa (EDA) – già creata nel 2004 – chiamata, tra le altre cose, a promuovere la cooperazione europea in materia di armamenti. E tuttavia, è certo che si può e si deve fare molto di più: in materia di consorzi industriali, nella ricerca, nella predisposizioni di assett operativi e addestrativi comuni, nel sostenere il ruolo delle piccole e medie imprese che operano nel settore della Difesa. L’unione non ha ancora la fisionomia di uno stato federale ma proprio per questo credo che l’iniziativa debba partire dal basso, dalle proposte dei singoli paesi. Mi auguro che il nostro Governo assuma con decisione l’impegno di aiutare il processo di costruzione dell’identità di Difesa europea piuttosto che accodarsi a quanti mettono avanti le difficoltà e le resistenze che questo processo incontra. 

E’ del tutto evidente che si tratta di un processo condizionato da un contesto geopolitico in continuo cambiamento che certamente può accelerare e confermare le decisioni già prese sulla politica di sicurezza e di difesa comune e aiutare a trovare accordi significativi anche laddove non esiste una integrazione politica e istituzionale di tipo federale.

“Solo una politica di difesa comune consentirà all’Europa – secondo Barroso – di far sentire il nostro peso sulla scena mondiale”. Sembra una affermazione da periodo di Guerra Fredda. Secondo lei si può sopperire alla mancanza di strategia e di visione politica dell’Europa attraverso una integrazione delle forze armate degli stati europei?

La forza militare è lo strumento per sostenere la politica estera ma non per sostituirsi ad essa. L’allargamento ad Est dell’Unione europea ha superato per sempre i confini della guerra fredda. Pesare sulla scena mondiale significa farsi carico di problemi strategici che riguardano un uso sostenibile delle risorse del Pianeta, l’affermazione dei diritti umani senza zone franche e infine una ridistribuzione della ricchezza con maggiore equità. Gli interventi militari realizzati con l’invio di forze multinazionali o servono a realizzare questi obiettivi o rimangono una inutile e sterile prova di forza.

Nel loro rapporto, “US tactical nuclear weapons in Europe, 2011“, Hans Kristensen e Robert Norris stimano in circa 70 le testate atomiche tattiche, modello B61, presenti in Italia: 50 dislocate nella base militare di Aviano, le altre 20 in quella di Ghedi di Torre. Ritiene che la presenza delle bombe nel suolo italiano sia un rischio oppure uno strumento di più ampia deterrenza della Nato in Europa e quindi di sicurezza per il Paese?

La questione già stata discussa nel vertice di Lisbona nel novembre del 2010 e in quello di Chicago del 2012.

Gli Stati Uniti non hanno più un prevalente interesse strategico a mantenere sul suolo europeo armi nucleari. Del resto quelle ancora presenti sono anche superate sul piano delle valutazioni tattiche. Paradossalmente le resistenze a mantenerle schierate sono venute da alcuni stati europei. L’Europa nella sua ancora imperfetta struttura di Difesa europea registra la presenza di una forza nucleare presente in Europa quale è la “Force de Frappe” francese, che però è tutt’altro che un assett europeo. Il tema non è quindi militare ma politico. Negli ultimi anni c’è stata una forte riduzione, decisa in sede Nato, delle armi nucleari presenti in Europa. In ultima analisi ogni ulteriore passo della NATO in fatto di disarmo nucleare resta collegato a misure equivalenti da parte russa in un ottica di maggiore reciprocità.

E’ stato aspro e duro in Italia il dibattito sull’opportunità di acquistare gli F-35, che rientrano nel programma “Joint Strike Fighter” di rinnovamento dei veicoli da guerra per gli Usa ed i suoi alleati. Cosa pensa al riguardo?

Ho già accennato alla Legge delega sulla riforma dello strumento militare, approvata su impulso del partito democratico nella scorsa legislatura, la quale afferma la centralità del Parlamento nelle decisioni che riguardano le spese per gli investimenti e quindi anche per gli F-35 (o JSF) che è solo il più conosciuto tra i 71 programmi esistenti per altrettanti sistemi d’arma. Scelte che vengono da lontano e sulle quali la volontà politica (Governo e Parlamento) finora ha avuto pochissima voce in capitolo. Dobbiamo comunque concludere l’indagine conoscitiva sui sistemi d’arma nella Commissione difesa della Camera: durante le audizioni sono state ascoltate tante voci che hanno messo in luce i limiti di un accordo che, così come è stato prefigurato, può essere sicuramente rinegoziato. Il Parlamento sarà chiamato a dire una parola definitiva proprio in sede di conclusione dell’indagine conoscitiva, si impone una razionalizzazione e un contenimento della spesa per investimenti che già sommando i fondi al Bilancio della Difesa e quelli allo Sviluppo Economico superano il 25% previsto nella stessa leggi di riforma dello strumento militare.

di Francesco Madrigrano

 

 

Scritto da Redazione

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