Una narrazione per simboli, popolata di citazioni discrete, come un’eco di lira in lontananza, come un soffio di vento sulla riva del mare. Tele essenziali nel rigore delle forme e avvolgenti e raffinatissime nella fenomenologia di un linguaggio aulico e contemporaneo insieme, fatto di pensieri profondi e di intuizioni geniali. Tra metafisica e surrealismo, la pittura di Carlo Ambrosoli sfugge a qualsiasi categoria di genere, sospesa com’è nell’iperuranio di una filosofia istintiva, comune anche all’espressività verbale e alla forbita dialettica, insieme criptica e dirompente, dell’artista laziale.
Nato a Roma nel 1947, questo pittore dell’immaginario realistico e di forme che rimandano ad archetipi ed architetture primordiali, si racconta in questa intervista, in occasione della ricca personale Nel corso del Tempo, allestita a Fiuggi e curata dal critico e artista Giovanni Stella (Officine della Memoria e dell’Immagine, fino al 20 novembre).
La diatriba intorno alla sopravvivenza dell’arte figurativa: quale legittimazione merita questo genere artistico e come ottenerla?
«Chi ha sostenuto la tesi della morte dell’arte deve fare i conti con i molti testardi che continuano a credere nel loro lavoro. La legittimazione non è un problema dell’artista, è un problema di chi pensa che l’arte e la cultura non ci siano necessarie o appartengano ad elite esclusive. Addentrarsi su terreni accidentati e interconnessi a logiche di mercato non risolve il problema della fruizione, che dovrebbe avvalersi di dinamiche, da reinventare, per riconsegnare ad un pubblico sempre più maturo la libertà di scegliere e giudicare senza suggeritori».
Qual è la sua formazione e quali artisti del passato rappresentano per lei fonte di ispirazione?
«Dapprima sono cresciuto nelle botteghe dei miei insegnanti di liceo e d’Accademia, poi ho frequentato studi di artisti come Avenali, Afro, Novelli, vivendo i fermenti degli anni ’60, quando la produzione e la percezione dell’arte tessevano una rete di viva umanità. Due borse di studio presso il Positano Art Workshop delle sorelle Lewis mi hanno messo in relazione con un ambiente internazionale e con insegnanti come Kodra e Nielsen. Ma le mie riflessioni e passioni sono riconducibili agli Artisti del ‘400, primo fra tutti a Piero della Francesca, che mi ha segnato nel perseguire il rigore dello spazio e della struttura compositiva, da cui non può esimersi anche l’Arte astratta. Il mio lavoro è intriso di classicità che tendo ad elaborare nel segno della modernità».
Ma nei suoi dipinti ho notato anche alcune citazioni da Savinio e Magritte.
«Indubbiamente, gli artisti che lei nomina sono stati influenti in percorsi che non mi sono estranei, e credo che sia evidente la mia tendenza a figurare il non visibile, in una sorta di narrazione che è comune ai linguaggi della psicanalisi e dell’esplorazione del Mito».
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Il percorso della mostra in corso a Fiuggi prende idealmente le mosse dalle due grandi tele con il soggetto della Badia. Come si è evoluto da allora il suo immaginario pittorico?
«Le due tele ispirate alla Badia di Anagni furono realizzate negli anni ’90, assecondando la proposta del Professor Giovanni Stella di riutilizzare a fini culturali questo importante monumento architettonico. Stella invitò alcuni artisti a contribuire al progetto, scegliendo la Badia come tema delle proprie opere. In questa sorta di committenza, mi sono attenuto a un linguaggio vicino ad una figurazione più esplicita, senza per questo tradire la mia cifra caratteristica».
Il simbolo e gli elementi primari: come ricorrono nelle sue opere?
«Nel mio immaginario sono stati spesso presenti i quattro elementi della tradizione alchemica: terra, acqua, aria, fuoco. Una serie corposa di opere è caratterizzata da tali riferimenti che, in un’accezione moderna, sono paragonabili ai progressi della fisica. Come gli antichi alchimisti tendevano a trasmutare gli elementi in oro, così i moderni fisici vanno alla ricerca dell’unica interazione che governa la materia a partire dalle quattro interazioni: forza nucleare debole e forte, gravità, elettromagnetismo. E proprio questa riflessione è stata oggetto della mostra Four, che si è tenuta alla Guidarte di New York nel 1989».
Le tele monumentali delle Ogdoadi sono sorprendenti: quale idea ha ispirato queste opere e qual è il messaggio che le sottende?
«L’origine dell’ogdoade è assai lontana nel tempo; la definizione egizia Khemenin propone l’insieme di otto divinità che esistevano prima della creazione, personificando le forze primigenie del Caos. Le acque primordiali, l’oscurità, l’illimitatezza, l’invisibilità. L’ogdoade viene ripreso da Carl Gustav Jung per indagare la natura umana, riferendosi alle enunciazioni di Plotino che le assimilava ai temperamenti: caldo- freddo, secco-umido ecc. Nelle mie dissertazioni, dall’uovo primordiale, alla diffusione dell’oscurità attraverso raggi di buio, fino alle fecondazioni acquatiche, l’intento è stato quello di coniugare CAOS e LOGOS, che prendono corpo in una rappresentazione essenziale con l’uso del solo carbone. Ad affermare, insomma, il concetto alchemico della terra nigra: il limo che dà vita al deserto».
Il tema della cornice: un approccio coraggioso alla figurazione e al confine tra realtà e immaginazione. Come nasce questo tema nella sua produzione e come si sviluppa?
«La marginalità in cui è stata confinata la Pittura (almeno in Italia) è stata il pretesto per affermare che, seppure al confine, nella zona borderline della cornice la pittura continua a vivere».
Il dramma della contemporaneità e il mutismo delle masse informi di pesci. Prima o poi questo Ourobouros di silenzio si spezzerà?
«In questa serie di quadri ittici, il richiamo simbolico e metaforico prende forma: la contrapposizione all’idea del silenzio, insinuatosi nella nostra realtà massificata, prende le sembianze di pesci di allevamento (Giorgio Gaber avrebbe detto polli di allevamento). La via d’uscita è suggerita dal quadro in viaggio che prelude ad un esodo ineluttabile».
Ma nella sua opera c’è anche il ritorno all’espressione?
«Mi fa piacere che abbia evidenziato, in alcuni quadri, rimandi di tipo espressionista: talvolta queste dinamiche mi sopraffanno e cedo volentieri e istintivamente al gesto che, solitamente, contengo in una struttura compositiva ragionata».
Arte contemporanea non figurativa e figurativa: possono convivere?
«Credo che le annose, quanto sterili contrapposizioni, siano superate. Forse ai nostri tempi l’astrazione ha esaurito la sua forza dirompente e provocatoria anche per i limiti imposti dalla tecnica, per cui sento la necessità di pretesti visivi per ristabilire la comunicazione e la dialettica delle idee. L’astrazione, attualmente, forse soffre di certe cadute estetizzanti in cui a prevalere è l’intrattenimento visivo».
Penelope e il tema del viaggio e del ritorno. L’attesa che declinazione assume nella sua arte?
«Osservando con attenzione il quadro a cui si riferisce, si nota come presenti un principio d’incendio che potrebbe mettere in serio pericolo il ritorno ad Itaca e quindi a Penelope».
A parte i classici e i grandi caposcuola del ‘900, quali artisti contemporanei le piacciono e la ispirano?
«Credo di avere risposto, almeno in parte, a questa domanda, anche grazie alle sue osservazioni… La mia natura mi porta a percorrere sentieri appartati. Talvolta incontro altri viandanti con caratteristiche analoghe, e magari faremo assieme alcuni tratti e ci ritroveremo ricongiunti su strade un po’ più ampie».
Sta lavorando a nuovi cicli?
«Ho iniziato a realizzare piccole sculture in terracotta, calandomi nei panni dell’apprendista di un’altra disciplina. Non so cosa potrà venirne fuori: mi sento libero di non affezionarmi a sicure cifre di ripetitività».
Prospettive: quanto è importante la tecnica pura nella sua arte?
«Cerco l’essenza spogliandola da inutili orpelli estetizzanti e ruffiani. Una bella battaglia nell’epoca del carino».
di Isabella Pascucci