È appena uscito il libro di Ernesto Screpanti L’imperialismo globale e la grande crisi. Lodevolmente, è stato pubblicato in edizione online scaricabile gratis. È un tentativo di spostare avanti, adeguandolo ai tempi, il dibattito sull’imperialismo. La globalizzazione sta realizzando una nuova forma di dominio imperiale nella quale il grande capitale multinazionale, attraverso il mercato, priva di sovranità e di autonomia politica le organizzazioni locali, i sindacati, i partiti e le istituzioni deliberative. La grande crisi del 2007-13 ha fatto esplodere le contraddizioni tra stato e capitale. Nello stesso tempo sta accelerando il processo di affermazione dell’imperialismo globale. Si configura come una crisi di transizione fra il sistema tardo-novecentesco delle relazioni e dei pagamenti internazionali e un nuovo sistema basato sul multilateralismo, su un Super-Sovereign Currency Standard e su una forma del tutto inedita del potere mondiale del capitale. Ho rivolto delle domande a Ernesto Screpanti per chiarire alcune questioni cruciali e per portare alla luce il senso in cui la sua analisi, che si presenta come altamente innovativa pur entro la tradizione marxista, ci permette di capire l’attuale fase dell’accumulazione capitalistica.
La differenza tra le sue tesi e quelle di Lenin sono legate a una nuova fase dell’accumulazione del capitale o si tratta di una diversa impostazione teorica nell’affrontare la questione?
Dai tempi di Lenin è cambiata non solo la fase dell’accumulazione, ma anche la forma del capitalismo. L’analisi di Lenin era adeguata per il capitalismo trustificato dell’era degli imperi coloniali. Il capitale di ogni nazione cresceva coi profitti monopolistici entro un mercato parzialmente protetto, e spingeva lo stato a espandere il mercato nazionale con l’impero. Oggi il grande capitale ha travalicato i confini degli imperi e si accumula su scala mondiale senza riguardo agli interessi nazionali di questo o quel paese, neanche quelli in cui risiedono le case madri delle imprese multinazionali. Degli imperi nazionali costituirebbero delle limitazioni geografiche all’espansione commerciale e all’accumulazione. Per questo il grande capitale di oggi è libero-scambista. La sua ideologia è quella della globalizzazione come processo di abbattimento delle barriere protezionistiche, mentre quella del capitale dei tempi di Lenin era il nazionalismo protezionistico. La mia impostazione metodologica è la stessa di Marx, e parte dalla tesi che la tendenza del capitale a proiettarsi sui mercati mondiali è una proprietà intrinseca dell’accumulazione capitalistica e non dipende da un difetto distributivo, come invece argomentava Hobson, il quale individuava la radice dell’imperialismo nella cattiva distribuzione del reddito e nella conseguente tendenza al sottoconsumo. Lenin, pur riprendendo molte tesi di Hobson, non dà importanza al sottoconsumo e, sulla scorta di Hilferding, sviluppa un’analisi più generale. Certamente è più marxista dell’economista laburista inglese: non pensa che l’imperialismo possa essere combattuto con una politica riformista di redistribuzione del reddito. La mia analisi non è in contrasto con quella di Lenin. È una generalizzazione della teoria dell’imperialismo e un adeguamento alla fase attuale dell’accumulazione.
Volendo fissare a scala storica il rapporto dei due conflitti mondiali con l’accumulazione capitalistica, questa era in espansione o in depressione quando esplosero i due conflitti?
La prima guerra mondiale scoppiò al culmine di un’onda lunga di crescita della produzione e del commercio internazionale. Scoppiò perché gli imperi coloniali avevano raggiunto il massimo di espansione geografica ed erano arrivati a un punto di conflittualità tale che solo una guerra poteva ridisegnarne i confini e i rapporti di potere. Tra le due guerre ci fu invece un periodo di depressione, di forte protezionismo, di svalutazioni e deflazioni competitive, specialmente dopo la crisi del ’29. Il sistema dei pagamenti internazionali vigente prima della prima guerra mondiale era entrato in crisi, il Gold Standard creava più problemi di quanti ne risolveva, la Gran Bretagna aveva perso l’egemonia economica e la capacità di regolare l’economia mondiale con la sua politica monetaria, ma gli Stati Uniti non erano ancora pronti a subentrare. Quindi il sistema dei pagamenti internazionali entrò nel caos, e ciò acutizzò alcune contraddizioni inter-imperiali. Il Giappone era uscito dalla crisi del ‘29 adottando forti politiche di riarmo e avanzava ambizioni imperiali sul Pacifico che gli americani non potevano tollerare. In Europa la Germania era uscita dalla crisi prima degli altri paesi, e anch’essa con delle politiche di riarmo. L’Unione Sovietica non aveva risentito della crisi e cresceva a ritmi sostenuti, suscitando grandi preoccupazioni in tutte le grandi potenze imperialiste. In altri termini il superamento della crisi del ’29 aveva consentito alla Germania, al Giappone, all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti di crescere in potenza economica, e aveva declassato le potenze inglese e francese. D’altronde la prima guerra mondiale non aveva risolto i conflitti inter-imperiali europei, né aveva fatto emergere una super-potenza capace di sostituirsi alla Gran Bretagna. Così i conflitti sono riesplosi. Insomma la seconda guerra mondiale si configura come una ripresa della prima, tanto che alcuni parlano di “guerra dei trent’anni”.
Potrebbe chiarire meglio la tesi secondo cui un paese di giovane capitalismo ma di grandi dimensioni, come per esempio la Cina, soffre meno l’influsso depressivo della globalizzazione e del dominio delle multinazionali rispetto a paesi minori come per esempio la Siria, la Tunisia o l’Egitto?
La Cina, dopo un periodo di accumulazione primitiva durato quasi mezzo secolo, si è aperta agli scambi internazionali e ha potuto far trainare la sua crescita dalle esportazioni. Ha usufruito di vantaggi competitivi connessi al basso costo del lavoro e alle deboli politiche ambientali. Tuttavia non ha adottato l’ideologia neoliberista. Il governo ancora dirige l’economia nazionale: con le politiche monetarie (L’80% del sistema bancario cinese è controllato pubblicamente); con le politiche fiscali (ad esempio ha risentito poco della crisi dei subprime perché ha adottato politiche fiscali espansive, compensando la diminuzione delle esportazioni con un aumento dei consumi pubblici); con le politiche industriali, che mirano ad attrarre investimenti esteri mentre favoriscono al formazione di grandi agglomerati industriali nazionali, e che sostengono gli investimenti pubblici e privati nella ricerca scientifica e tecnologica; con le politiche commerciali verso il Sud del mondo, in cui i cinesi propongono ai singoli paesi accordi bilaterali di baratto che non sono in linea con l’ideologia libero-scambista del WTO. Tuttavia il fattore più importante del successo cinese è che le politiche governative si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale, i cui investimenti diretti esteri in Cina e le cui esportazioni di merci dalla Cina sono incoraggiati e favoriti. Tutti i paesi emergenti godono di questi vantaggi, ma quelli piccoli che hanno liberalizzato completamente i movimenti di capitale, e che dipendono dagli investimenti esteri speculativi, sono più vulnerabili alle crisi finanziarie, e i loro governi hanno meno margini di autonomia politica.
Sembra di capire che una sua tesi, in sintonia con Marx, è che l’imperialismo abbia creato nei paesi di giovane capitalismo solo il proletariato, che il movimento dei capitali nel suo insieme non abbia consentito il formarsi di più classi sociali al di sopra del proletariato, ovvero di una vera e propria borghesia indigena. Da alcuni dati empirici, relativi a Cina, India, Brasile, ma anche Siria, Libia, Tunisia, Algeria e cosi via, sembrerebbe che le cose non stanno così. Puoi chiarire meglio l’argomento?
La globalizzazione fa aumentare la disuguaglianza economica in tutto il mondo, fa diminuire la quota salari sul reddito nazionale e aumentare la concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani dei grandi capitalisti finanziari e industriali. Tuttavia, per quanto riguarda le classi medie, ha effetti diversi nei diversi paesi. In quelli avanzati, in cui l’accumulazione rallenta, le classi medie s’impoveriscono e, in seguito alla crisi 2007-13, larghi strati di piccola borghesia si stanno proletarizzando. In quelli emergenti invece, a causa del forte sviluppo economico, le classi medie tendono a crescere sia in ricchezza che in numerosità.
Alexander Gerschenkron, in Il problema storico dell’arretratezza economica, formula questo tipo di interrogativo: “è stato il capitalismo a ‘creare’ lo spirito del capitalismo o è stato lo spirito capitalista a ‘creare’ il capitalismo? Puoi fornire una tua risposta?
Sono propenso a credere che, nonostante alcune ideologie religiose (come il calvinismo) abbiano favorito la formazione del capitalismo moderno, tuttavia è lo sviluppo materiale del capitalismo che ha fatto emergere le ideologie che lo sostengono. E le ideologie possono essere le più diverse. Anche il cattolicesimo può essere adattato per servire l’accumulazione del capitale, come dimostra il successo del capitalismo italiano dei secoli XIII-XV e i miracoli economici italiano e francese del secondo dopoguerra. Anche lo stalinismo ha potuto essere utilizzato per sostenere l’accumulazione del capitale (nei sistemi a capitalismo di stato).
Secondo un concetto di Vico, ripreso da Lafargue in Il determinismo economico di Marx, esiste una legge fondamentale dello sviluppo delle società secondo cui tutti i popoli raggiungono le stesse tappe storiche, qualunque siano le loro origini etniche e il loro habitat geografico. Possiamo affermare a questo stadio di sviluppo dei rapporti sociali a livello mondiale che il capitalismo si è ormai imposto in tutto il pianeta con le sue leggi in maniera irreversibile?
Non tutte le nazioni raggiungono il capitalismo con le stesse tappe e con le stesse modalità. Basti confrontare la Gran Bretagna e la Russia. Ma è vero che tutte hanno ormai raggiunto o stanno per raggiungere la fase di piena affermazione del capitalismo. Storicamente si è verificato un processo di convergenza al capitalismo attraverso diverse fasi, diverse istituzioni, diverse ideologie, diverse politiche. Il capitalismo del grande capitale multinazionale oggi domina incontrastato tutto il globo, che tende a rendere sempre più omogeneo in termini di struttura produttiva, di composizione sociale e di egemonia ideologica. E’ irreversibile? Certamente lo è rispetto alle forme economiche precedenti. Ma non c’è ragione di credere che sia eterno.
Il cuore del libro mi pare risiedere nella tesi sull’impersonalità dei capitali, sulle leggi naturali che ne regolano il funzionamento del moto, sull’accettazione di queste da parte del personale burocratico, amministrativo, politico e cosi via. Ma i luoghi fisici potranno essere soltanto le sedi delle multinazionali e dei grandi istituti finanziari?
Quando parlo di “Leggi naturali” ci metto sempre le virgolette. Sono “naturali” nel senso che non risultano da un piano centrale, né dai complotti di alcuni circoli esclusivi (Trilaterale, Bildenberg ecc.). Benché ci siano indubbiamente alcuni centri di potere che cercano di dirigere l’orchestra, nessuno è in grado di dominarla. Le leggi “naturali” che regolano i mercati internazionali sono la risultante inintenzionale delle azioni intenzionali di miriadi di agenti decisionali (i manager delle grandi multinazionali in primis, ma anche le lobby, i dirigenti degli organismi economici internazionali, i governatori di alcune banche centrali, i capi di alcuni governi). Gli agenti decisionali sono così tanti e così “piccoli” rispetto al concerto complessivo, che nessuno di essi (e nessuna loro coalizione) riesce a dettar legge a tutto il sistema. Le leggi che lo regolano tuttavia sono coerenti, per il semplice fatto che (quasi) tutti gli agenti perseguono, direttamente o indirettamente, lo stesso obiettivo: l’accumulazione del capitale. Né si deve credere che la crescita delle dimensioni delle imprese e la loro tendenza a creare potere oligopolistico possa portare prima o poi alla formazione di pochi grandi centri decisionali cartellizzati, come riteneva Kautsky. Le multinazionali crescono di scala ma anche di numero. Nel 1976 ce n’erano circa 11.000. Nel 2010 sono diventate 103.788. La forma di mercato prevalente nel capitalismo contemporaneo non è il monopolio, bensì la concorrenza oligopolistica.
Ad un certo punto affermi che “La legge del valore è una legge fondamentale del capitalismo. E’ essa che determina il suo ‘equilibrio sociale’”. Puoi chiarire meglio cosa intendi per “equilibrio sociale”?
Il concetto di “equilibrio sociale” è di Marx. Io mi limito a riprenderlo e applicarlo all’analisi del capitalismo contemporaneo. Marx con quel concetto vuol dire che attraverso la concorrenza di mercato il capitale riesce ad allocare il lavoro in modo efficiente, cioè in modo da massimizzare il profitto estraendo dal lavoro il massimo di produttività e pagando il minimo di salario. È un equilibrio di riproduzione, nel senso che vengono eliminate dalla concorrenza le imprese inefficienti e quindi gli usi scarsamente produttivi del lavoro e nel senso che la risultante distribuzione del reddito assicura la riproduzione del capitale su scala allargata. È un equilibrio sociale capitalistico in quanto determina un rapporto di classe compatibile con il perseguimento della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale.
“Ebbene – scrive a pagina 124 – nell’imperialismo globale contemporaneo non si può certo dire che s’è raggiunta la pace mondiale o che si stia realizzando anche solo una vaga tendenza a raggiungerla. Tuttavia ha preso corpo una certa predisposizione collaborativa dei principali stati. Tale predisposizione si manifesta sia nella tendenza a organizzare operazioni militari concertate nei tentativi di aprire i paesi recalcitranti alla penetrazione del capitale, sia negli sforzi più o meno velleitari dei vari G2, G7, G10, G20 volti a predisporre delle politiche economiche concordate. In molti casi entrambe le tendenze sono incoraggiate dal grande capitale. Possono essere favorite dall’azione di potenti lobby capitalistiche nazionali. La cosa interessante è che nel sistema capitalistico globale queste lobby, che siano americane, europee o giapponesi, si lavorano le classi politiche nell’interesse di tutto il capitale multinazionale.” Emergerebbe in questo modo una sorta di equilibrio di “paura” da parte delle varie componenti lobbystiche che tendono all’accordo contro i paesi più deboli piuttosto che sfidare il concorrente per sbranare il dominato? Insomma gli imperialisti più forti si sono indeboliti e quelli meno forti si sono rafforzati al punto da tenersi in “pauroso”equilibrio come gli ultimi accadimenti per la Siria dimostrerebbero?
I conflitti politici sono determinati innanzitutto dalle ambizioni geopolitiche delle grandi potenze, le quali esprimono gli interessi di potere delle classi politiche che governano gli stati. Non dipendono direttamente dagli interessi del capitale. Questi ultimi si fanno sentire attraverso l’azione delle lobby, le quali però non sempre riescono a determinare direttamente l’azione degli stati. Tuttavia accade che, alla lunga, il conseguimento degli obiettivi politici delle grandi potenze viene piegato, attraverso il mercato, a servire gli interessi del grande capitale globale. Oggi viviamo in un’epoca in cui l’unilateralismo americano segna il passo, incalzato com’è dalla crescita della potenza economica dei paesi emergenti. I recenti avvenimenti della guerra in Siria si capiscono in quest’ottica. I russi appoggiano Assad soprattutto per conservare le proprie basi militari nel Mediterraneo. Gli americani vorrebbero intervenire in Siria sia per contrastare i russi sia per favorire la politica di Israele, che vorrebbe cronicizzare la guerra civile in Siria in modo da indebolire il suo principale nemico. Gli interessi del capitale russo non sono in cima alle preferenze di Putin, così come quelli del capitale americano non sono in cima alle preferenze di Obama. Non sappiamo come andrà a finire, ma non si può escludere che gli accordi delle grandi potenze portino all’apertura dei mercati e dei porti siriani alla penetrazione del grande capitale americano, russo, cinese, europeo ecc. In tal caso gli interessi politici delle grandi potenze sarebbero stati piegati a servire gli interessi economici del capitale multinazionale.
A pagina 136 pone in evidenza il ridursi dello stato a mera funzione di poliziotto per il mantenimento dell’ordine sociale e addirittura a una aperta contraddizione tra le multinazionali e gli apparati burocratici e politici – dunque anche partiti e sindacati – dello stato nazionale. La domanda è d’obbligo: ma esisterebbe una linea di tendenza verso il superamento degli stati nazionali, una sorta di estinzione di confini geografici per arrivare a istituzioni internazionali derivanti e perciò immediatamente controllati dalle multinazionali, insomma il rapporto esistente a livello nazionale si accrescerebbe a livello internazionale polverizzando in questo modo il ruolo delle burocrazie nazionali degli stati?
Il potere che il capitale esercita sugli stati deriva dalla capacità degli investimenti diretti esteri e di portafoglio di muoversi liberamente nei mercati mondiali. Gli stati, così come i sindacati e le grandi organizzazioni politiche nazionali, sono messi sotto ricatto: o si abbassa il costo del lavoro, la pressione fiscale sulle imprese, il costo sostenuto dalle imprese per la tutela ambientale e la difesa dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, oppure il capitale delocalizza. Ciò genera crisi fiscale dello stato, riduzione dello stato sociale e redistribuzione del reddito dai salari ai profitti. Lo stato perde la capacità di agire come “capitalista collettivo nazionale”, cioè di creare un blocco sociale che coinvolga tutte le classi nella difesa degli interessi “nazionali”. Le politiche fiscali degli stati sono sottoposte a vincoli così stretti che i governi possono decidere solo come distribuire i tagli di benessere sociale. In queste condizioni s’inaspriscono le spinte alla conflittualità e i governi nazionali sono indotti a svolgere il ruolo di repressione e controllo del conflitto, cioè ad assumere esclusivamente la funzione di “gendarme sociale”. Il grande capitale multinazionale mira a una governance globale senza sovrano, cioè un governo del mondo assicurato dai mercati, non dai parlamenti. L’ideologia neoliberista dello “stato minimo” si è infine concretizzata in un sistema in cui non esiste uno stato globale, mentre gli stati nazionali sono ridotti a svolgere solo una funzione di disciplanamento della classe operaia e di repressione poliziesca interna. Per questo non esiste alcuna tendenza al superamento degli stati nazionali e alla formazione di organismi di governo sopranazionali. Le multinazionali non sanno che farsene dell’ONU. Né hanno bisogno di forze armate dell’ONU. Le azioni di polizia locale sono assicurate dagli stati nazionali. Quelle di apertura dei “paesi canaglia” alla penetrazione del capitale sono svolte dalle forze armate degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Lo “sceriffo globale” produce un bene pubblico nell’interesse di tutto il capitale mondiale, meglio di quanto possa fare l’ONU, e per il semplice fatto che le forze armate americane non sono controllate da un parlamento mondiale.
Le cause fondamentali della crisi attengono all’economia reale – scrive a pag. 145. Stante dunque la legge del valore, siamo in presenza di una sempre più accentuata caduta tendenziale del saggio di profitto a livello globale?
Non so se oggi il saggio di profitto globale stia cadendo. È difficile misurarlo. Come calcoliamo il valore del capitale e dei profitti cinesi, russi, indonesiani? Come li omogenizziamo al livello mondiale? In Dollari, in Parità di Potere d’Acquisto, in valute nazionali? E nei profitti includiamo anche le rendite finanziarie e speculative incassate dalle multinazionali, i guadagni di capitale incassati dai manager con le stock option, le entrate pubbliche fornite dalle imprese statali? E ci mettiamo anche i profitti delle banche, dei fondi speculativi, delle assicurazioni, dei conduit? E gli stipendi dei grandi manager li consideriamo profitti o reddito da lavoro dipendente? E i portafogli finanziari degli speculatori, delle banche e delle imprese industriali li consideriamo capitale? E il valore del capitale e delle attività che lo rappresentano lo calcoliamo ai costi storici, al valore nominale o al valore di mercato? La scelta che si fa riguardo al modo di trattare tutte queste variabili influenza il tasso di profitto rilevato, per cui chi vuole dimostrare che è caduto potrebbe riuscirci, ma anche chi vuole dimostrare che è aumentato. Quello che si sa per certo comunque è che la quota salari sul reddito nazionale sta diminuendo in quasi tutti i paesi del mondo, avanzati, emergenti e in via di sviluppo. D’altra parte la ricerca empirica ha dimostrato che anche la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sta aumentando, così come sta aumentando la concentrazione della ricchezza nelle mani dei capitalisti e degli speculatori. Dubito che questa tendenza implichi la caduta del saggio di profitto. La legge del valore di per sé non può far diminuire il tasso di profitto, perché serve la valorizzazione del capitale. E’ probabile che il saggio di profitto sia diminuito negli ultimi decenni in alcuni paesi avanzati, ma questa non è la causa della globalizzazione, invece ne è la conseguenza. Non sembra comunque che il saggio di profitto stia diminuendo a livello globale.
Nella conclusione del V capitolo, a pag. 169, afferma: “Oggi i governi dei paesi avanzati sembrano incapaci di capire e fronteggiare il problema andando alle radici, e quindi di risolverlo”. Spontanea la domanda: possono governi diversi fronteggiare e risolvere problemi strutturali dell’economia reale? Se si, in che modo?
La parola da sottolineare in quella frase è sembrano. Nel libro spiego che in realtà dietro l’incapacità di risolvere la crisi in Europa c’è una precisa volontà di usarla per fare le cosiddette “riforme strutturali”, cioè tagli al costo del lavoro, privatizzazioni di imprese pubbliche e di risorse comuni ecc. Ma facciamo l’ipotesi che i governi volessero veramente risolvere la crisi migliorando le condizioni di vita dei popoli e dei lavoratori. Potrebbero farlo? La mia tesi è che nei paesi piccoli, come l’Italia, la Francia, la Gran Bretagna, il Giappone, non possono farlo. Prendiamo il Giappone, in cui Il governo Abe sta cercando di rilanciare l’economia con una politica fiscale e monetaria di tipo keynesiano. Ebbene la stessa politica prevede un attacco pesante ai salari, con l’inflazione scatenata dalla svalutazione dello Yen e con forti aumenti delle imposte indirette. È inevitabile, se le merci giapponesi devono diventare competitive con quelle cinesi. Alla fine si scoprirà che quella politica avrà fatto aumentare un po’ il tasso di crescita del PIL, ma avrà fatto diminuire ulteriormente la quota salari sul reddito nazionale. Né si può escludere, come sostengono alcuni, che porti prima o poi allo scatenamento di una grave crisi. Nei grandi paesi emergenti invece i governi hanno maggiori spazi di manovra perché quelle economie si trovano in sintonia con gli interessi del grande capitale multinazionale e possono godere dei vantaggi del basso costo del lavoro e dell’attrattività per gli investimenti diretti esteri. In Cina infatti il governo ha reagito alle crisi dei subprime e dell’euro adottando delle politiche keynesiane che hanno in parte sostituito le esportazioni con i consumi interni, soprattutto pubblici. Anche per la Cina tuttavia c’è il rischio dello scoppio di una grande crisi (forse per l’esplosione di una maxi-bolla immobiliare). Gli Stati Uniti hanno reagito alla crisi dei subprime con timide politiche fiscali espansive e audaci politiche monetarie. C’è la ripresa del PIL, ma anche una tendenza alla crisi fiscale dello stato, oltre al gonfiamento di bolle speculative che creano instabilità mondiale. Vedremo come andrà a finire. La mia previsione è che la ripresa americana sarà debole e di breve durata. E veniamo all’Europa. Forse questa è l’unica economia in cui una politica keynesiana espansiva potrebbe avere successo. Ma sottolineo forse. Se la Germania espandesse fortemente la sua spesa pubblica, portando l’economia alla piena occupazione e la bilancia commerciale in deficit, cioè assumendo il ruolo di locomotiva, tutte le economie del continente si rimetterebbero in moto. La bilancia commerciale europea tenderebbe al disavanzo cronico, ma questo non sarebbe un grosso problema, visto che l’euro verrebbe usato come moneta di riserva internazionale a fianco del dollaro. L’euro stesso avrebbe una tendenza alla svalutazione, che potrebbe essere controllata dalla BCE in modo da renderla non dirompente. La svalutazione stessa sosterrebbe le esportazioni e quindi la crescita del PIL. Perché l’Europa potrebbe avere questo privilegio politico mentre gli Stati Uniti lo stanno perdendo? Perché l’economia europea resta la più grande del mondo dal punto di vista commerciale. Oggi, se la Germania fosse capace di sostituirsi agli Stati Uniti nel rapporto privilegiato con la Cina, potrebbe svolgere insieme a questo paese il ruolo di motore dell’accumulazione mondiale. Ma allora perché le classi dirigenti tedesche non si muovono in questa direzione? Perché sono stupide? No. Perché in questa fase vogliono sfruttare la depressione e la crisi per fare le “riforme strutturali” in tutta Europa.
Accumulazione e forza dell’imperialismo. Nel VI capitolo, a pag. 183, affronta la tendenza all’indebolimento del signoraggio degli Usa, ovvero alla messa in discussione delle tre funzioni storiche su cui quel paese ha dominato per molti anni: banchiere, motore dell’accumulazione e sceriffo. Potresti precisare il rapporto crescente o decrescente degli investimenti Usa negli armamenti in rapporto alla propria decrescita dell’accumulazione? Secondo l’Engels dell’Antidhuring la forza di uno stato, di una nazione, è l’espressione concentrata della forza dell’economia a un certo stadio di sviluppo. Ne dovrebbe conseguire, con la decrescita dell’accumulazione, una decrescita degli investimenti negli armamenti, se è vero che ‘la moneta non figlia valore’ per dirla con Rosa Luxemburg, così come emerge a pag. 202 circa l’uso smodato della pompa monetaria. A che punto è dunque quel tipo di rapporto?
Gli Stati Uniti stanno perdendo egemonia, e per il semplice fatto che la loro economia ha cessato di essere la più forte del mondo. Sul commercio internazionale pesano il 10%, quando nel 1948 pesavano il 25%. Sul PIL mondiale pesano il 19%, e nel 2010 sono sati superati dalla Cina (22%). Il dollaro è in un lungo trend di svalutazione rispetto allo yuan e all’euro. Le spese militari sono massicce. Nel 2008 costituivano il 17,1% della spesa pubblica, la quota più alta di tutti i capitoli di spesa, (le spese in istruzione costituivano il 3,2%). Il PIL non cresce abbastanza, poiché i salari e i consumi ristagnano, mentre le imprese tendono a delocalizzare gli investimenti. Quindi gli Stati Uniti, se vogliono continuare a fare lo sceriffo globale, dovranno aumentare il peso delle spese militari sul Prodotto Nazionale. Cosa che però farebbe aggravare i problemi di bilancio e la tendenza alla crisi fiscale dello stato. La bolla immobiliare d’inizio decennio ha consentito di sostenere lo sviluppo, ma ha generato un grave deficit della bilancia commerciale e quindi una forte crescita dell’indebitamento estero, e poi ha portato alla grande crisi. Insomma gli Stati Uniti stanno vivendo in una contraddizione insanabile. Se restano al servizio del capitale multinazionale, continuando a svolgere la funzione di sceriffo globale, aumentano il debito pubblico, il debito privato (delle imprese e delle famiglie) e il debito estero, sprofondano nella crisi fiscale, e il dollaro perde valore e prestigio. Se vogliono evitare tutti questi problemi devono rinunciare all’egemonia. Il governo non può più svolgere la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Tendenzialmente non potrà neanche svolgere bene la funzione di banchiere mondiale, visto che in tale veste genera più crisi che sviluppo. E comunque il mantenimento del signoraggio del dollaro dipende sempre più dalla benevolenza della Cina e di altri grandi paesi emergenti, che acquisiscono nei confronti degli USA un crescente potere di ricatto monetario.
Punto complicato, circa l’oggettiva collusione di rapporto tra Usa e Cina, ove sostieni che la Cina ha alimentato la bolla statunitense. Ora se lo scoppio della bolla ha significato l’evaporazione di valore precedentemente accumulato – in Cina, con lo sfruttamento del proletariato indigeno di quel paese – quali potranno essere le conseguenze rispetto all’accumulazione in termini di valore, il non ritorno di quei prestiti sia in Cina che negli Usa stessi?
Per il momento sembra che la Cina non voglia rovesciare il tavolo. Sta consentendo una sistematica rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro, così favorendo la ripresa delle esportazioni e della produzione americane. Accetta di perdere valore delle proprie riserve, e continua a finanziare l’economia americana seppure a ritmi meno sostenuti che nel passato. Nello stesso tempo, senza troppo rumore, si sta sostituendo agli Stati Uniti come potenza dominante in Asia, Africa e America Latina. Inoltre sta rinsaldando i propri legami diplomatici con la Russia e la Germania. Sul piano monetario non ha fatto mistero della propria intenzione di superare il Dollar Standard, ad esempio con la trasformazione del Fondo Monetario Internazionale in una vera banca centrale mondiale che emetta una moneta (diritti speciali di prelievo) che gradualmente sostituirà il dollaro. Peraltro sta espandendo enormemente i propri investimenti diretti esteri, i quali nel 2030 (secondo una previsione della Banca Mondiale) saranno il 30% di quelli globali! Insomma la Cina sta lavorando ai fianchi. Quando arriverà l’uppercut, gli Stati Uniti perderanno il signoraggio del dollaro e la Cina rileverà (forse insieme all’Europa) la funzione di motore dell’accumulazione mondiale. Comunque anche la Cina ha i suoi problemi. La grande crisi 2007-13 non ha generato una recessione nella sua economia, ma ha fatto diminuire il tasso di crescita del PIL dal 12% al 7,5%. Nel 2013 sarà probabilmente ancora più basso. Si tenga presente che la Banca Centrale cinese ha calcolato che un tasso di crescita di almeno l’8% è necessario per la stabilità sociale interna. Al disotto di quel tasso la disoccupazione aumenta in modo preoccupante. La conflittualità operaia è endemica e crescente. Nel 2010 è partita un’ondata di scioperi senza precedenti che è continuata fino a tutto il 2012. E sono azioni industriali spontanee e di massa che scavalcano il sindacato ufficiale e che tendono ad assumere contorni illegali ed effetti politici dirompenti. Questo è il tallone d’Achille della Cina: una classe operaia supersfruttata (dalle imprese multinazionali, ma anche da quelle nazionali e da quelle statali). Gli operai vengono disorganizzati dal sindacato ufficiale e quindi devono esprime le loro rivendicazioni sfidando l’ordine costituito. Non è da escludere che il disegno neo-imperiale e mercantilista della Cina venga messo in crisi da una nuova “rivoluzione culturale”.
Veniamo alla madre di tutte le questioni, ovvero se questa crisi ha come sbocco possibile o addirittura obbligato una guerra mondiale come lo furono la Prima e la Seconda. “…Nel nord del mondo – è scritto a pag. 226 – la disoccupazione è continuata ad aumentare. Se nel 2013 gli speculatori realizzeranno che, trascinata verso il basso da Eurolandia o dal Giappone o addirittura la Cina, l’economia dei paesi avanzati continuerà a ristagnare, è possibile che si verifichi a breve una nuova ondata di crash finanziari. Allora tutti i nodi dei contrasti economici mondiali verranno al pettine repentinamente e il riaggiustamento dei rapporti di forza tra blocchi politici continentali potrebbe essere brusco. Si tratta di rivalità inter-imperiali insanabili, di quelle che sboccano in grosse conflagrazioni belliche come prima e seconda guerra mondiale? Non credo. Oggi esiste il grande capitale globale. S’incarna in imprese multinazionali che hanno il mondo intero come campo d’azione. E tali imprese, che siano americane, europee, giapponesi, cinesi, hanno tutte un interesse comune all’abbattimento delle frontiere nazionali, cioè alla liberalizzazione dei mercati”. Si tratta di una tesi abbastanza ardita, perché assegnerebbe al meccanismo oggettivo del moto capitalistico l’attenuazione della concorrenza fra nazioni, il che potrebbe anche starci; ma la concorrenza fra le merci, e dunque fra gli stessi gruppi dell’oppressione del capitalismo globale, in base a quale principio ridurrebbe fino ad annientarli i motivi della guerra?
Oggi le spinte alla guerra tra grandi potenze provengono più dalle ambizioni geopolitiche degli stati che dagli interessi del capitale multinazionale. La crisi ha accentuato la conflittualità tra stati. Una guerra mondiale è già in atto, ma è una guerra valutaria: Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone hanno usato svalutazioni competitive (L’Europa ha adottato politiche di deprezzamento reale) con cui hanno cercato di scaricare sui paesi emergenti l’onere del rilancio della domanda mondiale. Ma non ha funzionato, in quanto ha scatenato delle crisi valutarie in molti di quei paesi (specialmente India, Brasile, Indonesia) spingendoli al rallentamento della crescita. Tanto che la Federal Reserve ha dovuto rivedere i suoi programmi di “assottigliamento” delle politiche di moneta facile. Una guerra mondiale vera e propria mi sembra altamente improbabile. Più facile una qualche guerra per interposta persona in Medio Oriente, oppure la continuazione di una guerra economica di tipo mercantilista, combattuta col protezionismo e le svalutazioni e le deflazioni competitive. Il capitale globalizzato non gradisce questo tipo di guerra, perché riduce gli scambi internazionali e quindi i profitti. Per lo stesso motivo non gradirebbe una devastante guerra mondiale distruttiva. Il capitale multinazionale non si identifica con gli interessi delle classi politiche nazionali. Non è la competizione tra nazioni che gl’interessa, ma la concorrenza oligopolistica tra le imprese sui mercati delle merci e del controllo societario, e la concorrenza a cui i mercati sottopongono gli stati. Questo tipo di guerra non si fa coi carri armati e i bombardamenti “chirurgici”, bensì con le innovazioni, la pubblicità, il marketing, il potere di mercato, la corruzione dei politici ecc. Gli stati servono, certamente, ma più per abbassare il costo del lavoro e assicurare la disciplina sociale che per erigere e allargare le barriere e i confini degli imperi nazionali.
In ultimo, nelle conclusioni, delinea una linea di tendenza verso una chiusura della forbice tra la condizione del proletariato delle metropoli e quello dei paesi emergenti o di giovane capitalismo, e l’estinzione dell’aristocrazia operaia, fino a ipotizzare quasi una tendenza verso un’oggettiva unità internazionale del proletariato gravida di possibili sbocchi rivoluzionari. Detto altrimenti: il capitalismo come Sistema Sociale e moto-modo di produzione si avvierebbe per sue stesse cause e leggi di funzionamento ad una sorta di crisi generale obbligando in questo modo il proletariato in quanto riflesso agente ad una azione rivoluzionaria dagli esiti tutt’altro che capitalistici?
La contraddizione fondamentale del capitalismo è quella di classe. La globalizzazione la sta esasperando, in quanto tende a redistribuire reddito dai salari ai profitti e ad aumentare la povertà relativa del proletariato. Nello stesso tempo sta livellando su scala mondiale le condizioni di lavoro e i salari (diretti, indiretti e differiti). Sta creando un proletariato mondiale sempre più omogeneo in termini di livelli di sfruttamento e di destituzione politica. Non solo, ma sta evirando le organizzazioni sindacali e riformiste del movimento operaio nei paesi avanzati, perché riduce la massa di valore che può essere usata per sostenere politiche d’integrazione operaia nei blocchi sociali capitalisti. E mentre si riducono fortemente gli spazi di manovra per le politiche riformiste nazionali, la conflittualità sociale aumenta in tutto il mondo. Non è detto che non possa sboccare in una grande ondata insurrezionale mondiale.
di Michele Castaldo