di Francesco Perrella
Quando si frequenta un qualunque corso di giornalismo si arriva prima o poi alla meravigliosa lezione sul come fare un titolo. E viene spiegato che la prima distinzione è tra i “titoli freddi” ed i “titoli caldi”.
I primi dicono il fatto nudo e crudo, e c’è poca speranza che rimangano a futura memoria. I secondi sono quelli che prendono contenuto dell’articolo, ne colgono il gli aspetti emotivi e lo spediscono dritto agli occhi del lettore tramite metafore, similitudini ardite, ampio uso di locuzioni spesso logore ed esasperate. E’ un piccolo peccato di vanità in cui cadiamo tutti prima o poi. Ed alla vicenda della Strage di Ustica sono stati dedicati tanti “titoli caldi”. Alcuni molto fortunati, altri molto meno. “Taglieremo le ali all’Itavia”, ad esempio, è il titolo roboante di un’intervista rilasciata nel 1981 dal ministro dei trasporti Rino Formica. “Battaglia aerea poi la tragedia” scrive il 12 febbraio 1992 Nino Tilotta, cronista dell’Ora, spiegando che, secondo dichiarazioni rilasciategli da un ex militare in servizio allo SHAPE di Mons, in Belgio, causa della tragedia sarebbe stato lo scontro aereo avvenuto tra due caccia F-14 Tomcat della US Navy ed un Mig23 libico. Ma la parola più (ab)usata tra titoli, sottotitoli ed occhielli è sicuramente “verità”. Verità “inconfessabile”, verità “affondata”, ma soprattutto verità “negata”. Cercando su Google “Ustica verità negata” appariranno articoli di giornale, un documentario (tra l’altro molto ben fatto) e qualche trasmissione televisiva dedicata al caso. Solo nei titoli, non nei testi. Riferirsi di una verità negata non è del tutto sbagliato. Lo può diventare quando si parla di una verità totalmente negata che lascia il posto all’alone del mistero. Quando la verità finisce per dissolversi nei rivoli delle verità, che assumono un significato del tutto relativo. Ed allora chiediamoci: conosciamo una verità che possiamo assumere come assoluta? Al momento no. Ma questo non vuol dire che non esista, e soprattutto che sia del tutto intangibile. Per non scadere nelle fazioni del “secondo me è andata cosi” atteniamoci alla realtà accertata processualmente. Nel 1999 il giudice istruttore Rosario Priore conclude le sue indagini. L’ipotesi di reato per cui si indaga, ovviamente, è quella di strage. Per questo capo d’accusa, però, non si trovano sospettati. Non si riescono ad individuare i possibili esecutori materiali, o i mandanti del massacro. E dato che un processo penale non può essere celebrato senza un imputato, il procedimento penale sulle cause della Strage non ha mai avuto luogo. Priore ritiene, però, che ci siano stati dei soggetti che, a vario titolo, possano aver operato in maniera evidentemente illecita per depistare le indagini. Il 28 settembre 2000 compaiono nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia, in qualità di imputati, i generali dell’Aeronautica Militare Lamberto Bartolucci, Franco Ferri, Corrado Melillo e Zeno Tascio. La sentenza di primo grado arriva il 30 aprile 2004 ed assolve i generali Melillo e Tascio “per non aver commesso il fatto”, mentre Bartolucci e Ferri vengono ritenuti colpevoli, ma di un reato caduto in prescrizione essendo passati più di quindici anni. Un verdetto che lascia tutti insoddisfatti: presentano ricorso in Appello gli imputati, la Procura e le parti civili. A dicembre 2005 arriva il giudizio di secondo grado: assolti gli imputati Bartolucci e Ferri “per non aver commesso il fatto”. Verdetto confermato nel 2007 dalla prima sezione della Cassazione penale. Si chiude cosi il processo sui presunti depistaggi alle indagini. Un processo, quindi, che non ha riguardato direttamente le cause della Strage. Un discorso a parte merita invece il secondo ramo di questa complessa storia giudiziaria, quello dei processi civili. Si deve insomma capire se ci siano dei soggetti direttamente o indirettamente responsabili del disastro di cui è stato vittima il DC9 dell’Itavia ed i suoi passeggeri, tenuti quindi a risarcire i danni derivati. Già nell’aprile 1981, infatti, la compagnia di Aldo Davanzali chiede conto della perdita nel suo aereo ai Ministeri della Difesa, dei Trasporti e dell’Interno. Danni che vanno ben oltre il valore di quel bimotore, dal momento che la Strage ha portato l’Itavia direttamente nel baratro del fallimento. Senza alcuna responsabilità da parte della compagnia. Solo nel 2003 il Tribunale di Roma condanna i ministeri convenuti a risarcire la l’Itavia per oltre 108 milioni di euro. Nel 2007 la corte di Appello ribaltala sentenza, sostenendo che, qualora la Strage fosse stata causata da un’azione di abbattimento, non esistono elementi che colleghino l’evento con la sfera di prevedibilità che rientra negli oneri di controllo degli enti preposti a vigilare sulla sicurezza dei nostri cieli. La Cassazione emette sentenza nel 2009 cambiando nuovamente scenario. La Suprema Corte rileva che – attenzione – essendo stata esclusa l’ipotesi della bomba a bordo da un terrorista, non si può ravvisare alcuna responsabilità da parte del Ministero dell’Interno. Vengono però accolti quasi per intero i ricorsi verso i Ministeri della Difesa e quello dei Trasporti, responsabili della mancata sicurezza di quell’aerovia civile. L’Itavia viene quindi definitivamente “scagionata” da ogni possibile responsabilità. Ventotto anni dopo la sua chiusura. Il 28 gennaio 2013 si conclude invece il primo processo civile che vede come attori i familiari di alcune vittime della Strage. La Cassazione, confermando la precedente sentenza d’Appello, condanna i Ministeri della Difesa e dei Trasporti ritenendo “congruamente ed abbondantemente motivata la tesi del missile”. Viene quindi accertato in via definitiva lo scenario lo scenario dell’abbattimento da parte di un aereo militare. Nel 2007 prende il via a Palermo un secondo processo civile, per alcuni aspetti simile a quello arrivato a sentenza definitiva. Il 10 settembre 2011 il giudice Paola Proto Pisani della terza sezione civile del tribunale di Palermo condanna i Ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire circa 110 milioni di euro nei confronti di quarantadue familiari delle vittime della Strage. Come leggiamo nel testo della sentenza, si può ritenere “provato che l’incidente occorso al DC9 si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia, che nella parte finale della rotta del DC9 viaggiavano parallelamente ad esso, di un velivolo militare precedentemente nascostosi della scia del DC9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il DC9”. Quel che rende estremamente importante questa sentenza – soprattutto qualora venisse confermata in Appello ad aprile 2014 – è che il giudice riconosce non solo la responsabilità dei ministeri convenuti per la mancata messa in sicurezza dell’aerovia civile, ma anche per l’occultamento e la distruzione degli elementi probatori che avrebbero potuto concorrere al raggiungimento della verità. In altre parole, la violazione del diritto alla verità viene considerata alla stregua di un danno ingiusto, suscettibile di essere risarcito economicamente. E’ qui che le cause della Strage vengono accertate processualmente. Quando si pensa ad un processo civile si tende a considerarlo solo come portatore di istanze di risarcimento. Un luogo comune che va troppo stretto ai procedimenti civili legati alla Strage di Ustica. Perché qui le richieste degli attori non sono che un veicolo per accertare una verità che fino a poco tempo fa è mancata del tutto. Anzi, la verità. Verità che per molti anni è stata sì negata, ma che ora non lo è più del tutto. Acclarato lo scenario, mancano i nomi degli esecutori materiali. Ci manca sapere chi è stato, e possibilmente anche perché era li quella sera con il suo aereo da caccia nel bel mezzo di un’aerovia civile. La verità c’è. E’ un sentiero tortuoso e poco battuto che stiamo percorrendo con difficoltà. Ciò non di meno, sarebbe molto sbagliato decidere a priori di non poter raggiungere la fine.