di Francesco Perrella
Come nasce un mistero? Quasi sempre dai fatti di cronaca che ci toccano da vicino. Spesso dalla nostra mente, dai nostri desideri o dalle nostre paure. Forse da una realtà che, per un motivo o per un altro, ci appare diversa da com’è realmente.
Sono passati trentatré anni dalla Strage di Ustica, ed è inevitabile, guardando alla storia che questa tragedia si porta dietro, chiedersi come siamo arrivati a parlarne come di un mistero. Perché non sappiamo, certamente.
Probabilmente perché una parte di noi stessi sa che, forse, non sapremo mai. E l’interrogativo principale, quello che la nostra memoria collettiva si porta sulle spalle come un peso indegno e gravoso è: com’è possibile che un aereo di linea con ottantuno civili a bordo possa sparire, dai radar e dal cielo, e sprofondare in uno dei punti più inaccessibili del Mar Tirreno senza che un solo responsabile di tutto questo venga assicurato alla giustizia. O forse no, perché effettivamente più di un tribunale ha riconosciuto le responsabilità di interi apparati del nostro Stato per la mancata messa in sicurezza di quella maledetta aerovia. Ma gli assassini che materialmente hanno tirato giù quel DC-9 di una compagnia privata tutta italiana, l’Itavia, rimangono nascosti in un cono d’ombra che ha allungato i suoi margini fino ad inghiottire trent’anni della nostra storia recente.
Facendo di tutto per trasformare un fatto di cronaca in un mistero. Un mistero che inizia la sera di un venerdì di fine giugno del 1980. Il volo Itavia IH-870, partito da Bologna e diretto a Palermo con alla cloche il comandante Domenico Gatti ed il primo ufficiale Enzo Fontana, sta sorvolando il braccio di mare tra le isole di Ponza ed Ustica. Praticamente al centro del Tirreno. Il cielo è sereno e manca circa un quarto d’ora all’atterraggio. Un volo tranquillo, che ha avuto come unico imprevisto le due ore di ritardo alla partenza. Il controllo radar di Ciampino segue la rotta del velivolo che disegna sugli schermi radar una lunga scia di puntini, in gergo “plots”. Sono le 20.58 di venerdì 27 giugno 1980, tra un paio di minuti i controllori di volo romani “cederanno” il DC-9 Itavia ai colleghi siciliani, che assisteranno i piloti nella discesa. Alle 20.59.45 succede l’inspiegabile: il segnale trasponder del volo IH-870 sparisce improvvisamente dagli schermi radar. Non un segnale di allarme, non una richiesta di aiuto. Pochi minuti dopo, ciò che resta di quell’aereo si sarà già schiantato sulla superficie del mare.
In quanti modi può precipitare un velivolo? Escludendo ipotesi fantasiose – dai meteoriti, agli ufo, all’impazzimento simultaneo dei piloti – non ce ne sono molti. Può essere vittima di un cedimento strutturale: la sua stessa (e delicata) struttura, sollecitata dai carichi aerodinamici cui è continuamente sottoposta, se non è mantenuta correttamente può “rompersi” in qualche punto e compromettere l’intero velivolo. Oppure di un attentato terroristico: un ordigno dinamitardo collocato su un aereo può non lasciare scampo. Può scontrarsi in volo con altro velivolo, caso non tanto improbabile quanto si possa pensare. O infine, può essere abbattuto da un missile. In trent’anni tutte queste ipotesi sono passate al vaglio degli inquirenti. Finché, il 28 gennaio di quest’anno, la Cassazione ha dichiarato di ritenere “congruamente ed abbondantemente motivata la tesi del missile”, condannando i Ministeri della Difesa e del Trasporti a risarcire alcuni familiari delle vittime. La strada che porta a questa storica sentenza non è solo lunga, ma anche tortuosa e dai contorni incerti. E soprattutto, non si ferma con questa decisione della Suprema Corte.
In un primo momento, l’ipotesi sbattuta in prima pagina è quella del cedimento strutturale di una carretta dei cieli. Il principale imputato è l’Itavia, che soccomberà sotto il peso delle voci incontrollate e dei debiti nel giro di neanche un anno: il 21 gennaio 1981 il Ministero dei Trasporti revoca la licenza di concessione dei servizi alla compagnia, che dichiara lo stato di insolvenza il 14 aprile successivo. Rende bene l’idea del clima in cui si trovava la compagnia dell’anconetano Aldo Davanzali una dichiarazione del Ministro Rino Formica, che promise: “taglieremo le ali all’Itavia”. Si parlò degli aerei acquistati usati da una compagnia hawaiiana che li usava per trasportare pesce, ai quali la salinità dell’acqua marina avrebbe corroso la struttura portante.
Se ne parlò senza curarsi molto dell’effettivo percorso di manutenzione e revisione che quei DC-9 subivano una volta entrati a far parte della compagnia nostrana. Basta poco per rendersi conto che quella del cedimento strutturale è un’ipotesi inconsistente: innanzitutto perché la destrutturazione è stata immediata, fulminea; in secondo luogo perché – ed è una conseguenza della prima motivazione – l’equipaggio non ha avuto modo alcuno di rendersene conto, non ha avvertito nessuno dei rumori che accompagnano solitamente questo tipo di eventi. Uno scenario che viene scartato definitivamente quando due perizie, nel 1982 e nel 1987, rivelano la presenza di esplosivo sui pochi resti recuperati del DC-9. Si inizia a parlare con maggiore insistenza, quindi, delle ipotesi di una bomba esplosa a bordo e di un missile che avrebbe abbattuto l’aereo.
A livello radaristico, ed è questo uno degli aspetti più controversi e paradossali di tutta la vicenda, l’unica prova è il tracciato registrato dai radar di Ciampino. Un documento che da solo può non dire tutto, ma che presenta sicuramente alcuni elementi di singolarità. Come i plots doppi che vengono registrati immediatamente prima e dopo il disastro: due puntini luminosi che appaiono nelle vicinanze del DC-9 prima della sua scomparsa dai radar, ed un altro immediatamente dopo, tutti e tre posti all’incirca su una linea perpendicolare alla rotta del nostro volo. Il primo ad attribuire un significato a queste anomalie – che qualcuno giustifica come “echi radar”, altri come un malfunzionamento dell’antenna – è un esperto americano, John Macidull, che già nel dicembre del 1980 ipotizza uno scenario di battaglia aerea: i doppi plots registrati prima e dopo il disastro altro non sarebbero che i segnali del passaggio di un aereo caccia che dapprima vola affiancato al DC-9, successivamente si pone in una rotta ad esso ortogonale, gli lancia contro un missile colpendolo nell’area compresa tra la cabina di pilotaggio e l’ala destra, e dopo averlo abbattuto prosegue oltre verso Est. Nei primi anni, le indagini rimangono al palo. Si dovrà aspettare il 1987 per l’inizio di una campagna di recupero del relitto che risposa in uno dei punti più profondi del Tirreno. Si da incarico all’Ifremer, una ditta francese che in seguito qualcuno riterrà legata ai servizi d’oltralpe, e si riporta in superficie il 96% dell’aereo: un’operazione che termina soltanto nel 1991. E nel 1989 la Commissione Stragi, presieduta dal senatore Gualtieri, decide di indagare anche sui fatti di Ustica. Sono gli anni in cui iniziano ad emergere le prime inspiegabili mancanze documentali da parte dei siti di controllo radar facenti capo all’Arma Aeronautica, come quelli di Marsala e di Licola. Non si riescono a trovare prove che lascino intendere cosa sia accaduto nei nostri cieli quella sera. Lo scenario continua a palleggiare insistentemente tra l’ipotesi di una bomba a bordo e quella dell’abbattimento: due scenari senza dubbio gravissimi, ma con implicazioni molto diverse. Se mettere una bomba è affare da terroristi, chi è che può lanciare un missile contro un aereo civile, e perché? Nel 1990 le indagini passano al giudice istruttore Rosario Priore, che dedicherà nove anni di imponente lavoro investigativo per rispondere a questa domanda.