di Marco Revelli
La voce della senatrice a vita Liliana Segre si leva alta, limpida e severa, nell’aula del Senato ammutolita. Parla con la forza del dolore che si porta dentro, del “numero di Auschwitz” tatuato sul braccio, delle tante voci spente delle vittime delle leggi razziali italiane e della deportazione nazista che si esprimono attraverso di lei. Parla in nome della sua esperienza vissuta: “Ho conosciuto la condizione di clandestina, e di richiedente asilo, ho conosciuto il carcere, ho conosciuto il lavoro operaio essendo stata manodopera schiava minorile”. Ricorda i Rom e i Sinti di Birkenau, dello speciale Zigeunerlager, che in una notte furono, tutti, “portati al gas”, intere famiglie, uomini, donne, bambini, e scandisce: “Mi rifiuto di pensare che la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da leggi speciali nei confronti dei popoli nomadi: se dovesse accadere mi opporrò con tutte le energie che mi restano”.
Parla Liliana Segre, e il suo è il vero momento che “spacca la giornata” – in qualche modo un piccolo miracolo che rivela, in un flash, un tratto di verità per il resto coperto, come da un velo, dalla trama delle parole del Presidente del Consiglio: nell’applauso scrosciante finale, vera standing ovation, la platea della maggioranza di governo apparentemente unanime si divide, per un attimo, fisicamente prima che politicamente, con i grillini in piedi ad applaudire e i leghisti immobili a braccia conserte (si divide, precisiamolo, lungo la linea di separazione tra umano e disumano, quella che oggi fa la vera differenza). E’ la fotografia – rivelatrice come sono le istantanee a infrarossi, che svelano particolari altrimenti poco visibili – di questo governo bifronte come Giano, uno e bino, nuovo di pacca e però anche un po’ antico (per un certo retrogusto di reazione), ossimorico e double face. Un oggetto ancora per molti versi “misterioso”, difficile da maneggiare, soprattutto da incasellare nelle consuete categorie del politico, lungo gli assi canonici destra-sinistra, conservazione-innovazione, reazione-progresso, persino fascismo-antifascismo… Un “oggetto” su cui dovremo imparare a raffinare per bene gli strumenti di analisi e di giudizio, e farlo più che in fretta, per sapere come rispondergli adeguatamente quando incomincerà a muoversi davvero, nei nostri mondi vitali, per non rischiare di mancare clamorosamente l’obbiettivo, e di esserne cancellati (come già in parte siamo).
Che si sia qui di fronte a una “soluzione di continuità” anche sul piano istituzionale – che si tratti cioè davvero di una svolta, di un “governo di cambiamento”, come lo chiamano loro, insomma di un “ribaltone” che trasferisce nell’involucro patinato e barocco delle aule di Palazzo lo schianto e il terremoto che il 4 marzo si concretizzò nelle urne -, non c’è dubbio. Almeno sul piano delle forme e delle parole. Lo dicono un po’ tutti, il direttore di Repubblica (“Il discorso del primo ministro Giuseppe Conte è il perfetto punto di arrivo di un percorso di rottura con il pensiero e le prassi politiche esistenti e segna un radicale cambio di stagione”) come la direttrice del Manifesto “(Il professore si è fatto aiutare dalle citazioni, l’avvocato ha fatto la relazione sul contratto, il politico ha guadagnato qualche punto nella replica, ma è evidente che con Giuseppe Conte, il 65° governo della repubblica cambia registro”). Lo testimoniava, questo inimmaginabile fatto di realtà, il suo stesso essere lì, lui, uomo qualunque – uno tra i tanti fino a un mese prima -, diventato Capo del Governo quasi per caso, e – per lo meno all’esordio al Senato – il suo starci tutto sommato a suo agio (dopo i primi minuti di leggero imbarazzo), a smentire chi malignamente l’avrebbe voluto impacciato e inadeguato, da usurpatore di CV.
E poi, se non bastasse il “linguaggio del corpo”, le parole vere e proprie. Quella sua rivendicazione di “populismo”, la parola totemica colpita da interdetto (“Se essere populista significa l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente; se anti-sistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere, noi siamo populisti”) è come una riga, profonda, tracciata a segnare la differenza ben netta con ogni “prima”. Il passaggio di un qualche Rubicone. Con quelle espressioni il “dilettante” Giuseppe Conte propone la definizione di un “prodotto politico” relativamente inedito: di una sorta di “populismo dolce” – un “populismo all’italiana”, qualcuno l’ha chiamato un “populismo dandy” -, comunque una formula nuova, diversa dal populismo hard di un Orban o di una Le Pen, o dal populismo imperial-western trumpiano. L’unica formula – di “mediazione” – in cui potevano ritrovarsi i due divaricati populismi giallo e verde, ricompresi sotto un solo, grande, ombrello lessicale. E d’altra parte erano quelle le parole, le espressioni, che l’elettorato trasversale grillino e leghista voleva sentirsi dire. Le parole che – trasversalmente – quegli elettori, maggioritari nella loro somma, si aspettavano dal “loro” Capo del governo. Ascolto dei propri bisogni e svolta radicale rispetto al passato: il messaggio elementare affidato alle urne che è rimbalzato, come un’eco, dal cuore del Palazzo.
Per il resto, nei 72 minuti di discorso “programmatico”, scandito da 62 applausi (quasi uno ogni minuto) e da due standing ovation, è andato in scena il canovaccio di due spezzoni di programma nettamente divaricati. Strutturalmente contrapposti. Di quelli che un Salomone vetero-testamentario avrebbe separato con un colpo di spada, e che invece l’avvocato Conte, post-moderno “Conte zio” come è stato definito (quello del “sopire, troncare, padre molto reverendo”) ha tenuto insieme nella propria persona, come provvisorio punto di mediazione. Da una parte la “priorità assoluta”, riaffermata nella sua centralità, del soddisfacimento dei diritti sociali: pensione, reddito di cittadinanza, sanità pubblica (indicati come “la prima preoccupazione del governo”) insieme alla lotta alla corruzione, alla diseguaglianza, alla povertà; insomma la “questione sociale”, sacrificata dai governi precedenti alla logica di austerità e al paradigma liberista dominante e ora rimessa al mondo. Dall’altra parte le politiche securitarie, la legittima difesa illimitata, la libertà di armamento e di sparo, le misure restrittive, soprattutto la mano dura sulle politiche migratorie, la damnatio actionis per le Ong che salvano vite (un terreno su cui, peraltro, si era già ampiamente inoltrato il precedente ministro dell’interno Marco Minniti), la segregazione negli asili, la minaccia di sottrazione dei figli alle famiglie rom e l’abbattimento dei loro campi senza dignitose alternative. Due carichi in equilibrio instabile, e sappiamo purtroppo che quanto meno questo governo riuscirà a soddisfare la domanda di maggior giustizia sociale sul primo fronte, tanto più sarà tentato di ricuperare consenso “caricando” sul secondo, sul terreno della disumanizzazione del sociale, ricorrendo alla tecnica sperimentata della costruzione del capro espiatorio, perché sui fragili, i deboli, gli ultimi è facile infierire. Quanto più fallirà nell’affrontare la questione sociale, tanto più tenterà di rifarsi con la devastazione morale. Quanti meno diritti sociali saprà restaurare, tanti più diritti umani proverà a cancellare.
Sarebbe facile liquidarlo in toto, questo ircocervo, con un unico tratto di penna: “il governo più a destra di tutta la nostra storia”; l’ampliamento a sud dell’Europa di Visegrad; la reincarnazione del fascismo da terzo millennio, riproposizione post-moderna della già nota “autobiografia della nazione”… Sarebbe facile e tutto sommato rassicurante: noi qua, nella nostra purezza disgustata, loro là, nella loro natura degradata. Ma forse non del tutto saggio. E comunque inadeguato al tempo scomposto, stravolto, ossimorico che viviamo, e che sembra richiedere più un atteggiamento “multi-tasking” chiamiamolo così. Selettivo e ambivalente, che ci veda impegnati, per quello che possiamo contare, a incalzarli e pressarli con intelligenza sul primo fronte, e a contrastarli, con intransigenza, e con tutti i mezzi possibili, sul secondo. Sappiamo benissimo che la parte del “contratto” relativa alle risposte al disagio sociale è abborracciata, in molti punti ingenua, tecnicamente traballante, vaga sulle coperture, ambigua sui meccanismi (penso ai “centri per l’impiego” e alle approssimazioni gravi sul “reddito di cittadinanza”). Ma credo che non dovremmo limitarci a fargli le pulci o a irridere le improvvisazioni, o peggio contrapporvi ragionieristicamente i vincoli di bilancio, come fossimo professori bocconiani. Dovremmo al contrario rilanciare creativamente con risposte innovative (un “reddito di cittadinanza” come misura universalistica di contrasto alla povertà è comunque un istituto presente in tutti i paesi civili, una rimodulazione della Fornero, l’aumento dei minimi salariali, sono punti di un nostro ipotetico programma, persino la necessità di rimediare allo scandalo di chi è costretto a fallire per i crediti mai onorati da parte dello Stato che pretende invece il pagamento immediato delle tasse è questione di giustizia sociale…). Nel contempo, dovremmo prepararci a intervenire attivamente, mettendoci in gioco personalmente, sul piano del contrasto alle misure più apertamente inumane, per alloggiare, accompagnare, rifocillare, salvare le vittime della “guerra ai poveri” che si prepara, spingendoci fino ai limiti di questa legalità illegale del Palazzo (e anche oltre).
C’è poi un secondo problema aperto dall’entrata in carica di questo governo: quello dell’opposizione. Questo è uno dei governi, nella storia dell’Italia Repubblicana, con l’opposizione parlamentare più debole e inconsistente a memoria d’uomo. Sia alla Camera che al Senato, l’unica opposizione dura, aggressiva e determinata, al Governo Conte è stata quella di Forza Italia. Con un unico punto di contrasto, ma d’acciaio: l’irritazione, anzi la vera rabbia, per conflitto d’interesse e prescrizione, i due crucci del Capo. Il Pd è apparso un fantasma, con Matteo Renzi preoccupato solo tra un viaggio di conferenze in Cina e uno in America, di riaffermare il proprio ruolo di capo morganatico, con un discorso autoreferenziale e pieno di fuffa retorica: un’entità residuale in via d’estinzione in cui le grida di Del Rio apparentemente minacciose sembrano tristemente a quelle di chi urla nel buio per farsi coraggio. Il che significa che in quell’arena non ci sarà battaglia. E’ una Bisanzio caduta in mano a barbari in via di bizantinizzazione. Fuori invece – nelle sfere che contano, soprattutto in quella mediatica -, l’opposizione appare totale. Non si era mai visto nascere un governo con un tale fuoco avverso, trasversale, distribuito su tutto l’arco dei media mainstream, da Libero al Giornale fino a tutto il gruppo Repubblica-Espresso (compreso Huffington Post) e – in forma meno virulenta – al Corriere di Cairo, passando per le quattro copie del Foglio. E poi Rai 1, Rai 2, Rai 3, Mediaset (solo Mentana mantiene un piccolo margine di curiosità e sospensione del giudizio). Per il resto tutti apertamente ostili, come d’altra parte Confindustria, Bankitalia, Nomisma, Bce, Fmi, Commissari europei, ecc. ecc.
Se applicassimo il vecchio motto secondo cui il nemico dei nostri nemici è nostro amico dovremmo schierarci senza se e senza ma per questo neonato governo. Ma, com’è chiaro, quell’antica e quasi sempre applicata regola della politica non è più applicabile oggi, in questo tempo nuovo del “rovesciamento di tutti i valori”, nei confronti di chi pur essendo considerato nemico dai nostri nemici non possiamo assumere come amico, perché in ampia misura incompatibile con ciò che più nel profondo noi siamo. Né possiamo considerare amici quei vecchi nemici (Alessandro Sallusti, Vittorio Feltri, Giuliano Ferrara, Bruno Vespa, giù giù fino agli acritici costruttori del mito di Matteo Renzi e ai custodi feroci dell’austerity di marca berlinese), solo perché oggi si oppongono a Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Il che la dice lunga sulla nostra attuale solitudine. E su quanto possa essere stretta, ripida e accidentata – e nonostante questo necessaria – la strada per uscire dall’impasse.
Probabilmente sarebbe una strada senza uscita, se applicassimo una logica, come dire?, “sovranista”. Se cioè considerassimo l’orizzonte del nostro mondo di riferimento chiuso entro i confini della Nazione. Se però pensassimo la crisi italiana non come separata ma inserita nel più ampio sistema di interrelazioni cui apparteniamo, ci renderemmo conto che essa è parte della più generale crisi europea, e per molti versi della crisi occidentale. Quasi esattamente nelle ore in cui, tra convulsioni e traumi, nasceva questo nuovo governo italiano, cadeva il governo centrista di Rajoy in Spagna e contemporaneamente nasceva quello del socialista Sanchez, Donald Trump dichiarava definitivamente la propria guerra commerciale all’Europa, la Slovenia si confermava parte dell’onda nera euro-orientale con la vittoria degli xenofobi di Janez Jansa e a Lussemburgo saltava la “riforma” del trattato di Dublino… Il maelstrom, il grande gorgo che da tempo destabilizza l’ordine di Maastricht, accelerava il proprio moto vorticoso quasi con la forza di un fenomeno naturale, trascinando governi ed elettorati. E’ dentro questa circolazione ciclonica che Steve Bannon, il visionario nero che aveva accompagnato l’ascesa di Trump prima di rivelarsi troppo a destra anche per lui, dopo aver insediato il suo quartier generale per l’occasione nel cuore della Ciociaria, nella splendida Certosa di Trisulti, ha progettato la propria “rivoluzione conservatrice”, che dalla costola orientale del gruppo di Visegrad e avendo Roma come nuovo caput mundi (o “centro della politica mondiale” come lo chiama lui), dovrebbe spazzare come un’ “onda populista”, da est a ovest, la vecchia Europa.
E’ una possibilità. Non solo ipotetica. Ma non è detto che la direzione dell’onda debba essere (solo) quella. E anche il colore. E gli stesse Paesi che ne fanno da propulsore. Niente impedisce di pensare (da visionari di segno opposto, quantomeno come ipotetica del terzo tipo e come esercizio di scuola o di dopo-scuola) a un’onda meridionale anziché orientale, che dai paesi dell’asse mediterraneo – Grecia, Spagna, Portogallo, in cui l’Italia potrebbe fare la differenza per il suo peso specifico se “costretta” dai suoi vicini a sciogliere l’ambivalenza in senso “progressivo” -, muova verso nord, o nord ovest, con un programma di scongelamento democratico e sociale (non social-democratico!) che riprenda quello della Syriza vincente delle elezioni greche del 2014 – ristrutturazione del debito, politiche sociali europee, sostegno a salari e occupazione – non distruggendo la costruzione europea ma cambiandone i connotati, da gigantesca macchina produttrice di disagio sociale e, per questo, di populismo e tendenzialmente di fascismo, in motore di un diverso sviluppo umano, civile e politico.
Visione per visione, è su questa che potremmo scommettere, approfittando della liquefazione di tutti gli equilibri che oggi apre piste insperate nel monolite europeo di ieri. E’ forse quella la luna in cielo a cui guardare da lontano, con occhio d’aquila, mentre da formichine quali siamo noi di Volerelaluna costruiamo la nostra luna in terra, aprendo luoghi di aggregazione, di mutuo soccorso, di sostegno attivo e di accoglienza a tutti i bisognosi soli, esuli in patria o esuli senza più patria, homeless di tutte le case perdute, richiedenti asilo italiani o stranieri che siano, come il nostro statuto ci impone.