Oggi gli ungheresi saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo parlamento. Saranno le prime elezioni generali da quando è entrata in vigore la nuova costituzione. L’Ungheria è da qualche anno nel mirino della stampa internazionale per le virate autoritarie del governo in carica e queste elezioni, che si svolgeranno con una nuova legge elettorale sfacciatamente confezionata sulle esigenze del partito al potere, risentiranno anche degli strombazzi governativi sullo stato dell’economia.
Ma andiamo con ordine. Dal 2010 il paese è guidato da Viktor Orbàn, capo indiscusso degli “arancioni” della Magyar Polgári Szövetség (Fidesz), un partito che negli anni novanta si è fatto strada tra gli elettori magiari mostrando un volto liberale e progressista, fermamente anticomunista.
Oggi la Fidesz è membro del Partito Popolare Europeo (Ppe) e nei suoi documenti ufficiali non è dato alcun indizio della sua vena reazionaria e autoritaria. Sono però i fatti ad incaricarsi di denunciare l’anomalia incarnata da questo partito, che da alcuni anni persegue con impareggiabile tenacia il suo esperimento di “rivoluzione nazionale”. Di cosa si tratta? Presto detto. Una serie di modifiche alla costituzione, tre il 2011 ed il 2012, hanno decisamente cambiato il volto del paese. È stato inserito nella legge fondamentale dello stato il principio che riconosce “il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione”, che, unito all’invocazione della benedizione di Dio nel preludio al testo ed all’uso dell’espressione “Nazione magiara” in luogo di “Repubblica ungherese”, evidenzia una deriva illiberale delle istituzioni repubblicane. Tanto più che da questi principi sono discesi, a cascata, una serie di provvedimenti che hanno inferto colpi durissimi alle libertà fondamentali ed allo stato di diritto.
Orbàn vinse le elezioni quattro anni orsono giovandosi della grave crisi economica che attraversava allora l’economia nazionale. E’ utile ricordare a tal proposito che l’Ungheria è stato uno dei primi stati europei ad essere contagiato dalla crisi finanziaria scoppiata oltreoceano nel 2007. Il paese, allora governato dai socialisti, per evitare la bancarotta si rivolse al Fondo monetario internazionale ed all’Unione europea, con i quali pattuì, in cambio di misure di rigore, un piano di aiuti da 20 miliardi di dollari.
Contemporaneamente furono adottate drastiche misure di austerità che, sommate ai sacrifici compiuti dalla popolazione precedentemente per entrare nell’Unione, finirono per appesantire lo stato di salute dell’economia e la condizioni materiali di vita delle famiglie. Uno schema che si ripeterà presto anche in altri paesi europei, a cominciare dalla Grecia per finire all’Italia.
E alla fine a rimetterci è stata anche la democrazia. L’Ungheria, da questo punto di vista, ha anticipato i tempi: crisi economica e austerità hanno fatto da brodo di coltura per il populismo più estremo e le tendenze più reazionarie presenti nel panorama politico del paese.
Così, quando la Fidesz è ritornata al governo, si è mossa su un doppio binario: politica identitaria da un lato e riduzione degli spazi di libertà dall’altro. Un tentativo di uscire per via populistica dal pantano in cui si trovava immerso il paese, mescolando liberismo economico, nazionalismo, anticomunismo e politiche repressive.
Il risultato?
Su alcuni media europei, e segnatamente sul web, si parla con insistenza di un presunto “miracolo” ungherese. Tanto che da parte di alcune correnti “sovraniste” ed anti-euro del continente questo paese viene elevato al rango di modello. I contenuti della narrazione sono questi: l’Ungheria ha cacciato il Fondo monetario internazionale e recuperato la sua sovranità monetaria; cosi facendo ha rilanciato la sua economia e risolto una serie di problemi sociali, a cominciare dalla disoccupazione dilagante. Cosa c’è di vero? Molto poco.
E’ vero che il governo di Orbàn ha ripagato in anticipo (un anno prima) il debito che aveva col Fmi. L’ha fatto in tre valute: 1,7miliardi di dollari Usa, 570 milioni di euro e 255 milioni di sterline di Sua Maestà Britannica. In totale, Budapest ha ripagato in anticipo una somma che espressa in SDR (Diritti speciali di prelievo, il metro di calcolo del Fmi) è circa 2,15 miliardi di euro.
Alcuni media europei, tra cui anche alcuni giornali italiani, hanno parlato di “mistero” a proposito della provenienza dei capitali che hanno consentito di estinguere anticipatamente quel debito. Oggi però si fa sempre più insistente l’ipotesi (per molti una certezza) che i soldi per fare l’operazione Orbàn li abbia avuti da una finanziaria americana, per di più ad un tasso superiore di quello praticato dal Fmi.
In questo caso si sarebbe trattato di una mera operazione di facciata, di una trovata propagandistica, da dare in pasto all’opinione pubblica interna.
Anche con riguardo alla “ritrovata sovranità monetaria” le cose non stanno proprio come alcuni propalatori del mito ungherese vorrebbero darla ad intendere. Se da un lato è vero che il governo ha posto sotto il proprio controllo la Banca centrale, la stessa cosa non si può dire a proposito di politiche monetarie espansive che di fatto non ci sono mai state. Lo dimostra il tasso di inflazione, fermo al 2,3 per cento, il più basso di sempre. E ciò non tanto per un’encomiabile prudenza delle autorità di governo, quanto per il rapporto, mai veramente incrinato, che quest’ultime mantengono con la Bce e l’Unione europea.
Da questo punto di vista la strategia di Orbàn è chiara: usare la retorica della sovranità all’interno per fini politico-elettorali e mantenere rapporti più o meno corretti con Bruxelles, da cui provengono ingenti risorse per l’ammodernamento infrastrutturale del paese.
E qui si apre un altro capitolo. C’è una società, la Közgép Zrt, una holding specializzata nella costruzione di strutture in acciaio e di grandi opere ingegneristiche, che fa capo a Lajos Simicska, ex responsabile finanze della Fidesz passato per incarichi di governo nel primo gabinetto Orbàn nel 1998, che, secondo i dati forniti dal giornale di sinistra Magyar Narancs, verificati anche da Reuter, avrebbe vinto appalti pubblici negli ultimi anni per oltre 200 miliardi di fiorini (circa un miliardo di dollari). Per la maggior parte opere finanziate con fondi europei. L’ipotesi che gira insistentemente in Ungheria è che una quota dei profitti miliardari della Közgép Zrt andrebbe proprio al partito di governo, che in questo modo si finanzierebbe attraverso proventi europei destinati allo sviluppo del paese.
Che Orbàn, al di là della retorica, non abbia alcuna intenzione di sganciarsi dall’Unione europea (Il suo ingresso nel club dell’Euro non avverrà comunque prima del 2020) lo dimostrano peraltro tutte le sue scelte in materia fiscale ed economica, che, sebbene abbiano destato qualche preoccupazione iniziale presso la Bce e la Commissione, sono tutte orientate a far rispettare al proprio paese i parametri imposti dai trattati, compreso quello che fissa la soglia del rapporto tra deficit e Pil al 3% (Dal 4,2 per cento del 2010 si è giunti all’attuale 1,9 per cento!).
Un’altra prova dei rapporti “sostanzialmente” cordiali tra Budapest e Bruxelles? Eccola. Nel gennaio del 2012 la Commissione europea aveva aperto contro l’Ungheria tre procedure d’infrazione, una riguardante l’indipendenza della Banca centrale, un’altra per la riforma della magistratura, la terza per le norme varate in tema di privacy e gestione dei dati personali dei cittadini. Il 1 agosto dello stesso anno due di esse erano già state chiuse, tra cui proprio quella sull’indipendenza della Banca centrale, a seguito dell’approvazione di alcuni emendamenti alla legge di riforma concordati da Orbàn direttamente con José Maria Barroso.
Per quanto riguarda le altre procedure rimaste aperte, relative alla riforma in senso autoritario della costituzione, il governo ungherese si è detto invece “disposto ad un compromesso”.
Tornando all’economia ed al presunto “miracolo”, alcuni dati ci permettono di inquadrare meglio la situazione e di smontare con facilità alcuni luoghi comuni.
Nel 2012 il Pil dell’Ungheria è arretrato dell’1,7 per cento, prolungando il ciclo negativo già registrato nel 2010 e 2011, rispettivamente con un -1,3 per cento e -1,6 per cento. Per il 2013 si stima una crescita intorno allo 0,2 per cento, mentre nel 2015 è prevista una crescita dell’1,2 per cento. Dati che la collocano dietro tutti i suoi vicini di casa, dalla Repubblica Ceca, alla Slovacchia passando soprattutto per la Polonia.
Un po’ meglio vanno le cose sul versante occupazionale, se è vero che nell’ultimo trimestre del 2013 il tasso di disoccupazione si è attestato al 9,1 per cento, dato più basso dal 2008 (La media europea è sopra il 12 per cento).
Molto controversa è invece la questione dell’aumento dei salari minimi, anch’essa presa a modello da alcuni per glorificare le politiche “sociali” di Orbàn. E’ vero, in base all’accordo siglato con i sindacati nell’anno appena trascorso è stato stabilito un aumento del 5,3 per cento, da 93mila a 98mila fiorini, per i lavoratori di base e del 5,6 per cento, da 108mila a 114mila fiorini, per le professioni che richiedono qualifiche specifiche. Tali aumenti, tuttavia, devono essere valutati alla luce della riforma fiscale che il governo Orbàn ha approvato nel 2011. Una “riforma” che ha cancellato la progressività della tassazione sul reddito delle persone fisiche attraverso l’introduzione di un’aliquota fissa del 16% (“Flat tax”).
Oggi l’Ungheria è uno dei pochi paesi al mondo ad aver addirittura costituzionalizzato il principio della tassazione “piatta”, senza scaglioni di reddito. Il risultato è stato che più della metà dei cittadini ungheresi oggi vivono in condizioni di maggiore difficoltà economica rispetto al passato, con netto vantaggio per i redditi più elevati. Chi ci ha guadagnato da questa riforma fiscale sono stati certamente i grandi gruppi industriali, che si sono visti innalzare la soglia per la tassazione agevolata degli utili da 50 milioni di fiorini (180 mila euro) a 500 milioni di fiorini (circa 1,8 milioni euro).
A tutto ciò si deve aggiungere poi che tra le “riforme” fatte dal governo in nome della “rivoluzione nazionale” ci sono anche quelle sul mercato del lavoro, con le quali sono stati resi più facili i licenziamenti, soprattutto a danno di chi fa politica e di chi è impegnato nel sindacato, ma anche delle donne in gravidanza e delle madri.
E se da un lato sono state ridotte le bollette di luce e gas, questo risparmio è stato del tutto compensato dall’aumento dell’Iva (Afa) al 27 per cento (La più alta d’Europa) e dall’aumento del costo del trasporto pubblico, treni in primis (+15 per cento). La tanto sbandierata aliquota al 5 per cento si riferisce solo a medicinali, apparecchiature medicali e giornali e per gli alimenti di base l’aliquota è al 18 per cento, contro quella italiana, ad esempio, che è stabilità al 4 per cento.
In Ungheria, insomma, non c’è alcun “miracolo” da registrare, ma un mix di autoritarismo e di furbizia diplomatica che consentono al paese di fare la voce grossa senza mai pestare i piedi ai poteri che contano, in Europa ed oltreoceano. Questo Bruxelles l’ha capito, per questo le sue “censure” sono rimaste finora solo grida manzoniane.
di Luigi Pandolfi
Fonte: http://www.linkiesta.it/elezioni-parlamentari-ungheria-2014