In occasione della crisi in Ucraina, ripubblichiamo un estratto dell’editoriale di Limes 3/08 “Progetto Russia“. Le idee del presidente russo sul ruolo di Mosca nel mondo, sui rapporti con gli Stati Uniti, sull’importanza di Kiev.
«Capisci, George? L’Ucraina non è nemmeno uno Stato! Che cos’è l’Ucraina? Parte del suo territorio è Europa orientale. Ma l’altra parte, quella più importante, gliel’abbiamo regalata noi!».
Quando il 4 aprile 2008 Vladimir Putin si rivolse così al «caro amico» americano, qualcuno dei leader riuniti attorno al tavolo del summit Nato di Bucarest pensò che il gelido scacchista russo si fosse lasciato andare. Niente affatto. Era una provocazione calcolata, di quelle che nelle scuole dell’intelligence russa s’imparano nei corsi propedeutici.
Guardando dritto negli occhi George W. Bush, Putin scolpiva in poche frasi il senso dei suoi primi – forse non ultimi – otto anni da presidente della Russia. E cioè: siamo tornati una grande potenza ed è bene che tutti, amici, finti amici e nemici, ne prendiate buona nota. A cominciare dall’Ucraina, che insieme alla Georgia continua a battere alla porta della Nato. La Russia, avverte Putin, è in grado di disintegrarle. Se davvero Kiev e Tbilisi aderissero al Patto atlantico, lo farebbero da staterelli dimidiati.
L’Ucraina senza la Crimea (già parte della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, ceduta in comodato nel 1954 dall’ucraino Khrushchev all’Ucraina sovietica) e le più che russofile regioni orientali. La Georgia senza l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, semi-annesse da Putin con una delle sue ultime direttive. Tanto per non lasciar dubbi, Mosca ha rafforzato il suo schieramento militare nella repubblica secessionista abkhaza. Peacekeeping, giura il Cremlino. Piecekeeping, temono alla Casa Bianca.
Non che Mosca intenda scatenare le sue divisioni corazzate, oggi piuttosto sgangherate. Non usa più, anche se basta una provocazione per incendiare la Georgia e tutto il Caucaso. Altri e più sottili strumenti possono servire allo scopo, dalla leva energetica alle quinte colonne incistate fra i riottosi vicini. Bush lo sa bene. Soprattutto, lo sanno i suoi inaffidabili alleati francesi, tedeschi e italiani che hanno costretto il leader americano a rimangiarsi la promessa ad Ucraina e Georgia e a rinviarne a migliore occasione l’avvio dell’integrazione atlantica. Certo, la porta sarà aperta, assicura la Nato. Ma intanto resta chiusa. Il test di Putin ha funzionato. Il suo no ha diviso gli occidentali. A confermare che la Russia è risorta allo status di fattore inaggirabile dell’equazione di potenza eurasiatica, e dunque globale, che le compete da un paio di secoli.
Di più. La lezioncina inflitta da Putin a Bush, letta nel contesto di ciò che il restauratore dell’impero russo ha detto e fatto nei suoi due mandati presidenziali, aiuta ad illuminare la questione strategica: ora che la nuova/vecchia Russia ha recuperato sovranità e potenza, come intende spenderle? L’ambizioso Progetto Russia corrente al Cremlino e dintorni si lascia riassumere in tre punti.
Primo. La Federazione Russa è un elemento del tutto peculiare nella variopinta tavola di Mendeleev delle potenze mondiali. Come impero multinazionale d’impronta russo-ortodossa, ma anche «parte del mondo islamico» (così il ministro degli Esteri Sergej Lavrov), esteso ben oltre le steppe centroasiatiche fino all’Artico, al Pacifico e alla frontiera cinese, è un soggetto sui generis, non omologabile ad altri. Né solubile in alleanze, come la Nato, che implicano la rinuncia alla sovranità in favore del paese leader. Nelle parole di Putin, «la Russia sarà indipendente e sovrana, o non sarà».
Allo stesso tempo, il cuore della Russia sta in Europa. A suo modo, dunque, in Occidente – anche se a questa conseguenza molti russi visceralmente riluttano. In futuro non è escluso che la Russia possa accomodarsi nel club occidentale, si chiami Nato o meno. «Ma lo faremo solo da grande potenza», avverte uno dei più influenti strateghi russi, Sergej Karaganov. Spiega un altro autorevole analista, Vitalij Tret’jakov: «Quando la rinascita russa avrà raggiunto un sufficiente grado di maturazione, (…) la Russia proporrà all’Unione Europea e agli Stati Uniti di formare un’alleanza politico-militare. E forse di fondare una confederazione euroatlantica, con un parlamento e un governo comuni».
Utopie, forse. Comunque rivelatrici. Giacché stabiliscono a contrario la fondamentale alterità della Russia rispetto alla Cina. Con gli europei, e persino con gli americani, ogni litigio ha un sapore familiare, o almeno condominiale. Con la Cina no. I due imperi restano irriducibilmente altri, anche quando si trovano a cooperare per affinità di interessi. Lo stesso varrebbe per il Giappone, dovesse mai coltivare ambizioni neoimperiali. Come spiegò una volta Brežnev a Margaret Thatcher: «Signora, noi abbiamo una missione comune: difendere la razza bianca». Dal «pericolo giallo», s’intende.
Secondo. La potenza della Russia non è fine a se stessa. Putin non ha riportato Mosca nel girone dei sovrani per compiacersene. La Grande Russia non balla da sola. Vuole costruire insieme alla superpotenza Usa, alla Cina, all’India e a pochi altri egemoni regionali – l’Europa, se mai si farà, i suoi paesi maggiori, nell’attesa – un nuovo equilibrio globale della potenza. In quel «capisci, George?» non è inscritta solo una minaccia, ma un appello: vogliamo decidere insieme. Stati Uniti e Russia non saranno mai più nemici, ripete l’ormai ex presidente ogni volta che il confronto con Washington si arroventa. Ma non accadrà più che Mosca accetti un dettato americano. O sia costretta all’arrocco, umiliata e offesa. Il contromodello di Putin che fa la lezione a Bush non è solo la clownesca sudditanza di El’cin a Clinton, è anche il gesto dell’allora premier Primakov, costretto nel marzo 1999 al dietrofront mentre, in volo per Washington, apprende che la Nato sta bombardando Belgrado. Il rapporto Russia-Usa deve essere di scambio. Duro, se necessario. Pur sempre quid pro quo.
Terzo. Il tronco d’impero denominato Federazione Russa, residuo della disintegrazione dell’Urss, è troppo piccolo. Deve ricrescere. Per questo occorre anzitutto consolidarne le fondamenta. A partire dalla riduzione della complessità geopolitica. In omaggio alla «verticale del potere», per cui il centro è l’alfa e l’omega dello Stato – decida il lettore se definirlo federalismo centralista o centralismo federalista – i soggetti federati vanno ridotti (ad esempio, fondendo San Pietroburgo con la regione di Leningrado, e la repubblica ugro-finnica di Marij El con qualcuna delle regioni russe limitrofe, ad accrescere il peso dei soggetti russi nell’impero interno). In prospettiva, alcuni territori già sovietici vanno reintegrati nello spazio federale. Compresa «la parte più importante» dell’Ucraina, citata da Putin a Bucarest.
Secondo il progetto di Vitalij Tret’jakov, che riflette inclinazioni geopolitiche diffuse fra i decisori russi, nella Federazione dovrebbero rientrare Ossezia del Sud (da annettere all’Ossezia del Nord-Alania), Transnistria, Crimea, Ucraina sud-orientale e forse Kirghizistan. Quanto a Bielorussia, Ucraina (meno le regioni occidentali) e Abkhazia, Armenia (insieme al Nagorno-Karabakh), Kazakistan e Tagikistan, entrerebbero in una confederazione denominata Unione Russa (Ur). Infine, l’Uzbekistan sarebbe associato alla Russia in un’alleanza militare. Insomma, rispetto all’Urss, l’Ur rinuncerebbe alle tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia, Lituania), all’Ucraina occidentale (carta 1), alla Moldova a ovest del Dnestr, alla residua Georgia, all’Azerbaigian e al Turkmenistan. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, tornerebbe sotto Mosca. Punto. […]
Il Progetto Russia parte dalla constatazione che il «momento unipolare» è finito. La parabola dell’impero americano è discendente. La pretesa alla monopotenza si è rivelata eccessiva. Autodistruttiva. Il fallimento della «guerra al terrorismo» e la relativa perdita di influenza nel mondo costringono gli Stati Uniti a cambiare rotta. Ma come? Il modello che Mosca offre a Washington è il vecchio «concerto delle potenze», elevato da europeo a globale.
Con la consueta punta nostalgica per il buon tempo (bipolare) andato, Putin lo ha teorizzato nel discorso di Monaco (10 febbraio 2007), summa della sua geopolitica: «Noi abbiamo un debito con l’equilibrio della potenza tra le due superpotenze. C’era un equilibrio e una paura della distruzione reciproca. In quei giorni una parte temeva di fare un passo in più senza consultare l’altra. Certo era una pace fragile e basata sulla paura. Ma come vediamo oggi, era affidabile. Oggi sembra che la pace non sia così affidabile».
L’equilibrio della potenza non ha fondamento giuridico o morale. È geopolitica allo stato puro. Nel sogno di Putin, un’esigua élite di Stati sovrani più eguali degli altri si attribuisce la responsabilità di regolare il sistema mondo così come nell’Ottocento postnapoleonico Metternich e i suoi pari cogestivano l’Europa. Lo status quo come bene in sé. Da serbare pacificamente o, se necessario, da restaurare con la forza, ma sempre attraverso il compromesso fra i grandi. Al cui tavolo è tornata a sedersi la Russia. Per restarci.
Nulla di più alieno alla cultura dominante a Washington. Il balance of power incarna la visione del mondo che i padri fondatori e poi, con varie modulazioni, tutti i loro successori hanno sempre aborrito in nome dell’eccezionalismo a stelle e strisce. Dunque di un esibito moralismo. Nel quale interessi nazionali e aspirazioni ecumeniche si sostengono reciprocamente. Giacché l’America non è una nazione fra le altre, ma la «nazione indispensabile» dotata di una missione universale, rivoluzionaria: portare la libertà in terra. Non è parte del sistema internazionale, è il sistema, in quanto suo regolatore di ultima istanza.
L’approccio statunitense alla Russia postsovietica è esemplare di questa ideologia. Fosse stata una normale superpotenza all’europea, dopo la vittoria nella guerra fredda l’America avrebbe imposto a Mosca una pace capestro. Per poi ancorarla come socio minore a un nuovo equilibrio eurasiatico dominato da Washington. Persino Zbigniew Brzezinski, non proprio un russofilo, noterà che dopo il crollo dell’Urss «il corso logico per l’Occidente sarebbe stato costruire una politica di lungo termine disegnata per stringere un legame più solido tra Russia ed Europa, ma esistono scarse prove che qualcuno a Washington avesse dedicato alla questione riflessioni costruttive».
Forse Bush padre immaginava qualcosa del genere. Non ebbe però il tempo di configurare una strategia verso la Russia. Clinton avrebbe potuto farlo, ma nella sua idolatria della globalizzazione non c’era spazio per la geopolitica. A forza di ripeterlo, avrà finito per credere che la Russia di El’cin fosse davvero approdata alla democrazia, una delle tante di cui à gravido il «mondo globale». Quanto a Bush figlio, il suo approccio al dossier russo à cominciato e finito nell’estate 2001, scrutando per la prima volta Putin: «Ho guardato l’uomo negli occhi. Ho potuto comprendere la sua anima». Che cosa abbia capito, non à chiaro. In quello sguardo di ghiaccio deve avere intravisto qualcosa di affascinante, visto che da allora, pur fra mille contrasti, non ha cessato di considerare «amico» quel leader che farà di tutto per rovesciare il risultato della guerra fredda. E per il quale «il sistema delle relazioni internazionali è proprio come la matematica: non esiste la dimensione personale».
Risultato: quasi vent’anni dopo il crollo del Muro, gli Stati Uniti non hanno ancora deciso che cosa fare della Russia. Oscillano fra il malign neglect e l’ostilità aperta. Temono possa sbandare verso la Cina o ipnotizzare la Vecchia Europa per allentarne il già lasco vincolo atlantico, ma non pensano di integrarla in Occidente. Putin ne ha dedotto che se la Nato non è con la Russia, è contro la Russia. Anzi, la pulsione globale dell’Alleanza atlantica – out of area or out of business, secondo il mantra di Washington – indica l’intenzione americana di sostituirla all’Onu come arbitro dell’ordine mondiale. Ma armato fino ai denti, e senza russi né cinesi. Dunque contro di loro.
Dopo il miraggio gorbacioviano della pari dignità russo-americana e la parentesi elziniana – quando la Federazione Russa affondava nel caos, svendeva le aziende petrolifere a 4 cent per barile di riserve e sembrava rassegnata al rango di colonia della superpotenza trionfante – fra i russi è subentrato un profondo rancore nei confronti di Washington. Mosca si è sentita trascurata, umiliata, ferita. Messa tra parentesi da chi aveva ben altro a cui pensare, fosse l’ascesa della Cina o la sfida jihadista. Minata nella sua sicurezza dal progetto di scudo antimissile basato in Europa centrale, il cui vero obiettivo è minimizzare la restante deterrenza strategica russa. E dall’espansione della Nato – malgrado a Gorbachev fosse stato spergiurato il contrario. Di più, la Russia considera le «rivoluzioni colorate» in Ucraina e in Georgia, dietro le quali Putin ha intravisto lo zampino dell’«amico» Bush, una minaccia alla sua stessa esistenza.
La sfida portata ben dentro quello che Mosca considera il giardino di casa accende l’allarme rosso. In risposta, Putin vira verso il confronto duro, convinto che prima o poi gli americani tenteranno di sollevare la piazza russa contro il Cremlino. La rivolta di Kiev, nell’autunno-inverno 2004, segna la fine delle residue illusioni e la svolta verso la reazione contro l’intrusiva aggressività dell’Occidente. La decisione di abolire i sussidi energetici agli ucraini e agli altri ex sovietici usi ai prezzi di favore è il primo riflesso di tale scelta. Come spiegherà Putin ad alcuni interlocutori euroatlantici: «Se l’Ovest vuole sostenere le “rivoluzioni arancioni”, tiri fuori i quattrini. O volete supportarle e lasciarci il conto da pagare? Ci prendete per idioti?». La seconda mossa è mettere in campo un robusto e manesco «movimento giovanile», Naši (I Nostri), deputato a prevenire che le piazze russe cadano in mano a manifestanti prezzolati dal nemico. Tutto il resto, fino al ricatto di Bucarest e ai rinforzi in Abkhazia, discende dalla decisione di bloccare l’offensiva antirussa di Stati Uniti e associati.
Da qui ripartirà il successore di Bush. Le élite russe voterebbero Obama, perché in Hillary Clinton intravvedono un remake dell’amministrazione che umiliò il Cremlino e bombardò la Jugoslavia, mentre McCain si è già qualificato nemico bollando Putin come «persona pericolosa» e reclamando l’esclusione della «revanscista» Russia dal G8. Non che Obama entusiasmi, specie dopo che ha reclutato il «falco polacco» Brzezinski fra i suoi consiglieri. Ma il suo russologo di fiducia è Michael McFaul, che vorrebbe spalancare a Mosca l’accesso all’Alleanza atlantica. In ogni caso, «non ci aspettiamo che chiunque vinca le elezioni migliorerà radicalmente le nostre relazioni», commenta l’ambasciatore russo alla Nato, Dmitrij Rogozin. […]
Il fenomeno geopolitico oggi più importante in assoluto è il ritorno della Russia a fattore di potenza in Europa. A produrlo è la somma algebrica del declino europeo, del raffreddamento americano verso il Vecchio Continente e della rinascita russa. Sul piano globale, la competizione/cooperazione è già multipolare (con Cina e Russia, ma anche Brasile, India e Giappone ad affiancare gli Stati Uniti, leader in affanno), ma senza un polo europeo. L’Unione Europea è troppo eterogenea per aspirarvi. Soprattutto, non è né vuole diventare Stato. Influenti ideologi veterocontinentali ne fanno un vanto. Fulminando scomunica contro i «nostalgici di Vestfalia», che non capiscono come la storia abbia condannato lo Stato nazionale. Sarà. A nessuna delle potenze che contano o aspirano a farlo è però mai passata per la testa una simile idea. Non agli americani, non ai cinesi. Meno ancora ai russi.
I quali osservano meravigliati il ripudio della sovranità da parte del continente che l’ha inventata. Putin, acido: «Io raccomando di riflettere sulla democrazia sovrana. È un concetto che potrebbe interessare l’Unione Europea e ciascun paese europeo». Sovranità è per Putin, come per qualsiasi leader non europeo (e per gli europei insensibili al politicamente corretto), sinonimo di indipendenza. Da cui sola può scaturire l’interdipendenza, in quanto relazione fra soggetti sovrani. Mentre fra attori e non-attori non si dà rapporto. Il problema di noi europei nel trattare con i russi – e, parallelamente, con gli americani – è essenzialmente qui. Di fronte a Mosca – e a Washington – non c’è Bruxelles, intesa come metafora di un’Europa unita e sovrana. Ci sono 27 capitali che a fatica riescono a esprimere il rispettivo punto di vista nazionale.
Non ha senso lamentarci se, com’è naturale, la Russia cura le relazioni bilaterali con ogni singolo paese comunitario e snobba la Commissione. Questa interdipendenza a coppie è inevitabilmente asimmetrica, a tutto vantaggio del Cremlino. Non tanto per la taglia diversa degli attori, quanto perché si pensano in modo opposto: Stati «postmoderni» (ammesso che l’aggettivo significhi qualcosa) versus uno Stato imperiale, geloso della propria riconquistata autonomia. Inoltre, al vago spazio euroatlantico abbiamo associato alcune neorepubbliche già vassalle dell’Unione Sovietica, le quali adottano un doppio standard: sovraniste con noi europei occidentali, «postmoderne» con gli Stati Uniti, ai quali hanno ceduto parte della sovranità appena riconquistata come presunta assicurazione sulla vita rispetto alla permanente minaccia russa. Paesi nei quali, osserva sprezzante Putin, «non solo i candidati al posto di ministro della Difesa ma anche quelli ad incarichi inferiori vengono discussi con l’ambasciatore americano».
A partire da tale dissimmetria, la Russia esercita la sua rinnovata influenza sul Vecchio Continente. Fondata su tre vettori, tutti più o meno relativi allo Stato. Meglio, al suo capo (o ai suoi due capi) e all’oligarchia a lui (loro) afferente.
Il primo è il rango di potenza nucleare bicontinentale, estesa su un territorio vastissimo, straricco di materie prime. Un impero in espansione geopolitica (riconquista di spazi perduti da Gorbachev-El’cin) o natural-geopolitica (rivendicazioni nelle immensità artiche in via di emancipazione dai ghiacci, sempre che il clima sia d’accordo).
Il secondo, fin troppo mediatizzato, è l’esportazione di idrocarburi, che vale il 44% (gas) e il 30% (petrolio) delle importazioni europee. Fenomenale fabbrica di quattrini, che permette alla Russia, e soprattutto ai suoi centomila milionari e oltre cinquanta miliardari (in dollari), di fare shopping in giro per il mondo, mentre nelle casse dello Stato riposano oltre 420 miliardi di riserve in dollari e oro. Più i 140 miliardi assegnati al Fondo di stabilizzazione. La nostra fame di energia e l’interesse russo a soddisfarla incentivano lo scambio fra idrocarburi e asset, come testimoniano le intese fra Gazprom ed E.On, BASF, Gaz de France, Eni. E stimolano mirabolanti traiettorie di tubi sottomarini e terrestri per aggirare a nord e a sud gli infidi ex satelliti eurorientali e puntare direttamente ai partner euroccidentali. Mentre, su scala mondiale, Mosca sogna di massimizzare l’effetto geopolitico e l’efficienza economica del suo patrimonio energetico nella futura «Opec del gas», in cui intende associare a sé, ossia sotto di sé, gli altri grandi esportatori, dall’Iran al Qatar, dal Venezuela alla Nigeria e all’Algeria.
Il terzo, visibile solo in superficie, incrocia agenzie informali (come la rete esterna dell’ex Kgb, ben ramificata nel nostro continente) e mafie, più o meno infiltrate e usate dallo Stato (e viceversa) onde promuovere interessi insieme economici e geopolitici. Quest’ultimo vettore illustra in specie la profonda penetrazione russa nei Balcani e verso il Mediterraneo. Nell’area di bassa pressione istituzionale estesa dal Mar Caspio al Mar Nero e al Mare Adriatico, dove la disintegrazione del «socialismo reale» ha prodotto Stati mafia e terre di nessuno, brillano gli anelli della catena delle exclavi controllate o almeno condizionate da Mosca: Ossezia del Sud, Abkhazia, Transnistria, fino al Montenegro.
I principali riferimenti europei del Cremlino stanno però a Occidente. Dopo che il crollo dell’Urss ha promosso lo scambio delle coppie veterocontinentali fra Est (da russificato a filoamericano) e Ovest (meno legato agli Usa e sempre più aperto alla Russia), Mosca festeggia la nascita in Europa del suo «club degli amici». Così battezzato da Sergey Yastrzhembsky, braccio destro di Putin per gli affari europei, il quale ne assegna la tessera ai quattro maggiori Stati continentali dell’Ue – Italia, Francia, Germania, Spagna – più Grecia, Cipro e Lussemburgo, includendovi anche Ungheria, Slovacchia, Bulgaria, Serbia, che nel contesto eurorientale si distinguono per prossimità agli interessi russi.
Così abbiamo un’idea più concreta di che cosa Putin e Medvedev intendano per equilibrio della potenza in Europa. Niente più e niente meno di quanto nel 1935 Federico Chabod codificava nella prolusione sopra «Il principio dell’equilibrio nella storia d’Europa». E cioè: «Trattati sanciti in nome di un equilibrio fra le varie potenze»; riconoscimento che, «per compiere l’equilibrio, è lecito alle grandi potenze suddividersi territori altrui, spezzare, o addirittura far scomparire piccoli Stati, che vengono annessi all’uno o all’altro dei maggiori, tenendo presenti, con ben meditati calcoli, territorio, popolazione, ricchezze, posizione geografico-strategica delle parti da smembrare»; infine, i trattati devono avere dei «garanti», manco a dirlo le grandi potenze. Da questo principio, inventato nell’Italia rinascimentale, nasce l’Europa moderna, civiltà fondata sull’«interdipendenza fra le varie parti, ciascuna nettamente distinta dall’altra». Forse non leggono Chabod, ma siamo certi che Putin e Medvedev ne sottoscriverebbero a quattro mani la sobria tesi. Giacché il balance of power poggia sui rapporti di forza. Sulla limitazione della sovranità dei paesi minori a favore dei maggiori. Categoria cui la Russia appartiene per nascita e censo. […]
Ma in fondo, quando mira all’equilibrio della potenza in Europa, la Russia pensa agli Stati Uniti. Gli americani non sono amici, ma sono sovrani. Giocano nella stessa categoria, un paio di gradini più su. È con loro che si deve cercare il compromesso strategico. Senza perdere troppo tempo con i velleitari europei. Se è vero che l’equilibrio della potenza è affare per grandi, sono almeno sessant’anni che in Europa il numero uno è l’America e il numero due la Russia/Unione Sovietica (domani Unione Russa?) – salvo il decennio Novanta, quando lo sfidante sembrava aver ceduto le armi al campione. Oggi più di ieri, il nostro destino è affidato a Washington e a Mosca. Non è passato un secolo da quando sui planisferi spiccavano i colori degli imperi europei, estesi su ogni continente. E sono trascorsi 51 anni da quando a Roma si celebrò la messa del riscatto europeo. Ma la nostra parabola resta calante. Proprio mentre la stella russa torna a brillare. […]
Le bucce di banana su cui questa ambizione rischia di scivolare sono infinite. A cominciare dalla spaventosa crisi demografica, contro cui poco può l’immigrazione – le proiezioni indicano che per la metà del secolo ci saranno meno di cento milioni di russi. Per continuare con l’incertezza sul futuro delle risorse energetiche nazionali, incentivata dagli scarsi investimenti, specie nel settore del gas, mentre alcuni esperti giurano che quest’anno la Russia abbia toccato il picco del petrolio. Fino a nuove convulsioni del sistema politico-istituzionale, alle prese con le rigidità del suo storico autoritarismo.
Ma se nel prossimo futuro la Russia sarà più potente, più rispettata e persino più bella di oggi, lo dovrà anche allo sviluppo di quel soft power senza il quale non si dà vera potenza. Il talento di rendersi simpatica – dunque più facilmente egemone – non ha mai distinto la Russia. Specie quando vestiva i panni sovietici. Ora l’immagine della Terza Roma – missili, idrocarburi e mafie a parte – è affidata ai «nuovi russi», che assaltano i templi del jet set a mo’ di parvenus. Tanto che alcuni alberghi europei a quattro o cinque stelle hanno fissato al 10% la quota oltre la quale non si accettano clienti russi. La Fondazione Russkij Mir, da Putin deputata a ingentilire il marchio russo nel mondo, avrà parecchio da fare. Qualche progresso c’è già. Quest’anno la Russia è il paese che ha maggiormente incrementato la percentuale di giudizi positivi fra i 23 censiti dalla Bbc: da 29 a 37 punti. Gli Stati Uniti, in leggero recupero, sono a 32, mentre Iran e Israele – candidati a scontrarsi nel prossimo futuro – sono i meno apprezzati.
Certo, se compariamo il paese che Putin raccolse da sotto terra otto anni fa a quello che oggi porge a Medvedev (e a se stesso), dobbiamo constatare che ancora una volta, quando tutto sembrava perduto, la Russia ha scoperto in sé risorse formidabili. La cui fonte ultima è il patriottismo statolatra coniugato al più freddo pragmatismo. Quello che ispirò Stalin durante la battaglia di Mosca. Il nemico era a pochi passi dal Cremlino quando il generale Budyonny comunicò al dittatore che in mancanza d’altro alla cavalleria erano state distribuite vecchie sciabole con inciso: «Per la Fede, lo Zar e la Patria». «Ma le tagliano le teste ai tedeschi?», domandò Stalin. «Sì, compagno Stalin». «Allora buon lavoro alle nostre vecchie sciabole, per la Fede, lo Zar e la Patria!».
di Lucio Caracciolo
da http://temi.repubblica.it/limes/le-sciabole-dello-zar-2/58605