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In Irlanda il Sinn Fein è primo partito

Sui libri di storia, o su una qualsiasi enciclopedia, alla voce Sinn Fein (“Noi Stessi” in gaelico) si legge generalmente che trattasi di un partito nazionalista ed indipendentista irlandese, che ha mantenuto a lungo rapporti con l’Ira (l’Irish Republican Army), organizzazione armata che si batte per la riunificazione dell’Irlanda. In certi casi si aggiunge anche l’aggettivo “cattolico”, a significare il legame profondo con la tradizione spirituale del Paese.

Tutto vero, per carità. Nondimeno, oggi, questa forza politica ha “valorizzato”, complice la crisi economica, un suo tratto distintivo meno citato dalle fonti, ancorché, mutatis mutandi,  l’abbia sempre contraddistinta: l’essere un movimento di sinistra, di ispirazione socialista, di fatto antiliberista. D’altronde nel suo programma generale è scritto chiaramente: «Sinn Féin striving for an end to partition on the island of Ireland and the establishment of a democratic socialist republic», ovvero: «Sinn Féin lotta per la fine della divisione dell’isola d’Irlanda e per la creazione di una repubblica socialista democratica». La qual cosa, peraltro, spiega il perché i suoi deputati al parlamento europeo siedono nello stesso gruppo di Syriza, di Podemos e della Linke tedesca e non tra i nazionalisti.

Le scorse elezioni europee per il Sinn Fein hanno rappresentato davvero un momento di svolta. Con il 19,5 per cento (+8,3 per cento rispetto alla precedente tornata) sono arrivati quasi ad appaiare i liberali ed i popolari, lasciando indietro di quasi 15 punti il Partito Laburista, che, rispetto al 2009, ne ha ceduto ben otto. Negli ultimi mesi è stato un boom di adesioni per il partito di Gerry Adams, tra cui, ultima in ordine di tempo, ma che ha fatto più scalpore, quella della nota cantautrice Sinead O’Connor, che proprio nei giorni scorsi ha dichiarato: “Il Sinn Fein è l’unico partito di sinistra in grado di spingere l’Irlanda verso l’equità sociale”.

Come si spiega questo successo? Come in altri paesi europei, c’entrano la crisi e la sua gestione, da parte dell’Unione e del governo locale. La “I” di Irlanda, com’è noto, è una delle due che formano l’acronimo PIIGS, col quale sono stati identificati i paesi più colpiti dalla crisi (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna). L’assonanza col sostantivo inglese Pigs (maiali) – non casuale – rimandava, invero, ad un giudizio di tipo morale sulla condotta di questi stati, additati, in sostanza, come paesi parassitici e spreconi.

L’Irlanda fu uno dei primi paesi europei (già dal 2007) a dover fare i conti con la crisi, originata dallo scoppio della bolla immobiliare interna, propagatasi poi al sistema bancario e, per il salvataggio dello stesso, al debito cosiddetto “sovrano”. Le conseguenze economiche e sociali furono drammatiche: crollo del Pil (-7,5 per cento in due anni), impennata della disoccupazione, deflazione (- 6,5 per cento nello stesso periodo), aumento del deficit e del debito pubblico. Il governo reagì con una richiesta di aiuti finanziari all’Europa ed al FMI (85 miliardi), che ottenne in cambio dell’accettazione di rigidi protocolli di austerità. Furono ricapitalizzate le banche e scaricato il costo sui cittadini, attraverso la leva fiscale e tagli generosi alla spesa sociale.

Da un anno a questa parte però si è incominciato a parlare dell’Irlanda come di un modello da seguire, dove, caso unico in Europa, l’austerità sarebbe stata realmente “espansiva”, consentendo di rimettere i conti a posto e di rilanciare l’economia. È proprio così?

Sfogliando alcuni numeri, il quadro che emerge è questo: nel secondo trimestre del 2014 il  del Paese è cresciuto dell’1,5 per cento rispetto al primo trimestre e, addirittura, del 7,7 per cento rispetto al 2013. Forte crescita anche delle esportazioni (+13 per cento rispetto all’anno scorso) e dei consumi privati (+1,8 per cento). Una situazione i cui segnali si erano già avvertiti l’anno scorso, tanto che il premier Enda Kenny,  alla guida dal 2011 di un esecutivo di “larghe intese”, aveva annunciato un’uscita anticipata dal programma di aiuti concessi al Paese dalla Troika nel 2010.

Di contro resta molto alta la disoccupazione (ancora vicina al 13 per cento), cresce il fenomeno dell’emigrazione giovanile (200 mila sono i giovani che hanno lasciato il Paese dal 2008 al 2013), fa registrare numeri allarmanti quello dei senza tetto (+35 per cento dall’anno scorso ad oggi). E il debito? Nel 2007 il rapporto col Pil faceva 25 per cento, oggi 123 per cento.

C’è una spiegazione a questo: l’economia irlandese marcia su due binari paralleli, che non si incrociano: c’è l’economia dei grandi gruppi multinazionali dell’hi-tech, che tira e contribuisce alla crescita del Pil, e quella più tradizionale (edilizia, manifattura), che resta al palo, impedendo una ripresa adeguata della domanda e dell’occupazione. Per quanto riguarda il debito, molto hanno inciso, ovviamente, i salvataggi bancari.

Se non fosse così, non si spiegherebbero le turbolenze che investono il sistema politico, ma soprattutto la crisi profonda che attanaglia i partiti più coinvolti nella gestione della crisi, a cominciare dai Laburisti e dai Popolari. Gli ultimi sondaggi dicono che il Sinn Fein è ormai il primo partito d’Irlanda, oscillando tra il 26 ed il 30 per cento e che le forze che fanno riferimento in Europa al Ppe ed al Pse sono in caduta verticale di consensi. Questo successo del Sinn Fein non può essere letto come il prodotto delle sue tradizionali battaglie irredentiste, evidentemente. Come nel caso di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna, la spiegazione va ricercata nel crescente malessere sociale che pervade la società europea, stremata da quattro anni di  crisi e austerità.

Come spesso accade, tuttavia, in casi come questo, alla crescita dei consensi si accompagna una riflessione sul nuovo volto da dare al partito, più adatto alla situazione che si è venuta a creare. Dentro e fuori il movimento sono in molti coloro che spingono per un rinnovamento della leadership, al fine di rimuovere l’ingombrante ipoteca del passato che grava su di esso. L’arresto di Gerry Adams, al timone del partito dal 1983, lo scorso 30 aprile, alla vigilia delle elezioni europee, per un omicidio che sarebbe stato compiuto dall’Ira nel lontano 1972, ha riaperto il dibattito sull’opportunità di affidarne le redini a personalità più fresche e non legate alla stagione di contiguità con la lotta armata.

C’è la consapevolezza che settori sempre più larghi della popolazione guardino al Sinn Fein con simpatia e speranza. Nessuno esclude ormai a priori che questa forza politica possa presto assumere un ruolo di governo. Ovviamente la speranza e la simpatia derivano dalla fiducia che si ripone nella sua capacità di portare l’Irlanda fuori dalla crisi senza far pagare il conto ai cittadini, ai ceti meno abbienti della società. Un po’ meno dalle “glorie” del passato.

Una cosa è certa, comunque: nel 2015 l’Europa dell’austerità potrebbe essere messa a dura prova.

di Luigi Pandolfi

Fonte: Linkiesta

 

 

 

 

 

 

 

Scritto da Redazione

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