di Martina Talarico
L’Unione Europea, il progetto nato e cresciuto nella culla dell’Occidente. L’evoluzione di un ente sovrastatale che, nel corso degli ultimi 50 anni, ha cambiato le prospettive dei singoli Stati e dei relativi cittadini. Integrazione, abbattimento dei confini, multiculturalità e congiungimento di più pensieri, modi di vivere. Un progetto di globalizzazione dell’Occidente.
L’Europa è stata ed è una forza ambigua nella quale molti degli Stati, spesso, però, si sono trovati sconvolti. Come la Grecia, la Spagna e il nostro Stato, l’Italia. Un seguito di Trattati siglati e stipulati. Dozzine di traduzioni tra le lingue ufficiali di un progetto che di coeso, effettivamente, ha ben poco.
Eravamo solo 12 Paesi membri della ancora Cee, Comunità economica europea quando firmammo a Maastricht il Trattato che istituiva l’Unione Europea e ci mandava giù a picco. Era il 7 Febbraio 1992, giorno della firma, ed il 1 Novembre 1993 giorno dell’entrata in vigore dopo la ratifica. Uno dei tanti negoziati, un Trattato che stabiliva le regole politiche, economiche e sociali che un Paese doveva rispettare per poter entrare nel progetto dell’Unione Europea con dei parametri, delle misure da rispettare, per il bene comune. Parametri come il rapporto tra deficit pubblico e Pil non superiore al 3%. Rapporto tra debito pubblico e Pil non superiore al 60% (Belgio e Italia furono esentati). Tasso d’inflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre Paesi più virtuosi. Permanenza negli ultimi 2 anni nello Sme senza fluttuazioni della moneta nazionale, ad esempio.
Dunque non occorreva essere un Nobel per capire che nel medio-lungo periodo questi parametri avrebbero depresso l’economia, soprattutto se fossero intervenuti fattori esterni negativi che, comunque, devono essere messi nel conto in materia di politica economica di uno Stato. Il limite del 3 per cento al deficit ha impedito al nostro Paese di sostenere e lanciare l’economia, ad esempio.
Perché l’Italia già con gli interessi passivi sul suo debito violava tale limite, e firmando si è condannata all’avanzo primario perpetuo e si è preclusa la possibilità di attuare politiche economiche espansive. Ma non solo tutto ciò. Il Trattato di Maastricht rappresenta uno spartiacque che identifica in modo netto un prima e un dopo nella costruzione dell’Europa unita.
Quest’ultima concepita come progetto neoliberale, nonostante i Gloriosi Trenta, gli anni tra il Cinquanta e il Settanta caratterizzati da una crescita economica relativamente sostenuta e da un accettabile livello di redistribuzione della ricchezza, alla base di un equilibrio altrettanto accettabile tra capitalismo e democrazia. Il tutto assicurato, oltre che dall’ispirazione keynesiana della politica economica, fiscale e del lavoro, anche da un compromesso sulla circolazione dei fattori della produzione; infatti, le merci si spostavano liberamente, ma non così i capitali, da sottoporre a penetranti controlli statali.
Sicuramente al lancio di politiche neoliberiste va ricordato e menzionato il decennio dominato dalle figure di Reagan e di Margaret Thatcher, padri di politiche economiche ricavate dalla credenza secondo cui i fallimenti del mercato sono in verità fallimenti dello Stato: il mercato assicura la migliore redistribuzione della ricchezza, così i pubblici poteri devono limitarsi ad assicurare il funzionamento della concorrenza rinunciando allo stimolo della domanda e cestinando le politiche di matrice keynesiana. I limiti al deficit e al debito non sono i soli strumenti utilizzati per rendere l’Europa unita una costruzione neoliberale, e sacrificare così la partecipazione democratica in virtù del libero mercato. Maastricht ha aggiunto a quei limiti il divieto per i Paesi membri di ricorre all’assistenza finanziaria dell’Unione, di altri Paesi membri o delle Banche centrali. In questo modo gli Stati che hanno bisogno di denaro devono rivolgersi al mercato, e questo finisce per assumere la funzione di disciplinare il loro comportamento, o se si preferisce di spoliticizzarlo. Il che è un effetto voluto: come ha poi chiarito la Corte di giustizia, il contrarre debiti essendo soggetti alla logica del mercato induce a mantenere una disciplina di bilancio.
Ciò comporta che gli Stati fortemente indebitati, che le agenzie di rating stimano in difficoltà a restituire la somma presa a prestito, saranno costretti a remunerare il rischio sopportato dai creditori che concedono interessi elevati: tanto elevati da alimentare la spirale del debito, e in ultima analisi a impedire il rispetto dei parametri di Maastricht. È a questo punto, quando cioè il ricorso al mercato diviene insostenibile, che si possono attivare le procedure previste per il caso in cui forme di assistenza finanziaria siano richieste non tanto per soccorrere lo Stato indebitato, quanto per salvaguardare la stabilità della Zona Euro nel suo insieme. È questo l’attuale fondamento per l’attività della cosiddetta Troika, composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale, che dal 2008 ha finora assistito Cipro, Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Ungheria.
Si è di norma seguito un copione identico: l’assistenza finanziaria è stata assicurata in cambio di impegni a diminuire le uscite, a incrementare le entrate e a liberalizzare i mercati, incluso quello del lavoro. Impegni quali misure volte a contenere la spesa pensionistica, compresa anche quella per la sanità e l’istruzione, a congelare o ridurre le retribuzioni dei pubblici dipendenti, e in genere a ridimensionare la Pubblica amministrazione. Gli impegni destinati a incrementare le entrate si traducono invece in un programma di privatizzazioni, a cui affiancare un piano di liberalizzazioni, in particolare nei settori dell’energia, delle telecomunicazioni e delle assicurazioni, ad esempio. Quanto alle riforme del mercato del lavoro, è costante l’impegno a ripristinare più elevati livelli di libertà contrattuale, utili fra l’altro a rimuovere gli ostacoli alla precarizzazione e svalutazione del rapporto di lavoro.
Insomma, sebbene le politiche economiche siano di competenza nazionale, come confermato dal Trattato di Lisbona, esse finiscono per essere decise dal livello europeo come riflesso di politiche monetarie di matrice neoliberale. Ed essendo queste ossessionate da controllo dell’inflazione, sono precluse agli Stati le politiche redistributive incentrate sul sostegno della domanda. Da questo punto di vista Maastricht ha trasformato l’ottica europea in una specie di Superstato di polizia economica, obbligando i Paesi membri a parametri che impediscono anche solo di considerare nel dibattito pubblico opzioni diverse da quelle contemplate dal pensiero unico.
Così facendo, il Trattato non solo ha affossato approcci di tipo keynesiano all’ordine economico, bensì anche ciò che li aveva ispirati: il controllo democratico sul funzionamento del mercato. Giacché nella visione neoliberale la politica non controlla, bensì sostiene il mercato, usa la sua forza per riprodurlo e non certo per arginarlo.
E se, dunque, ci liberassimo di Maastricht, ristabilendo il primato delle politiche economiche sulle politiche monetarie? Così facendo si tornerebbe al primato degli Stati nazionali nella scelta del segno di quelle politiche: non tanto per soddisfare un istinto sovranista fine a sé stesso, ma per riportare la partecipazione democratica al centro della costruzione europea. Non sarebbe nulla di rivoluzionario, anzi.
Sarebbe semplicemente il ritorno dell’impostazione prevalente sino agli anni Settanta, quando si pensava che l’Europa unita dovesse prima decidere le priorità di politica economica, e solo in un secondo tempo, di riflesso, le politiche monetarie. E quando si sottolineava che il trasferimento di sovranità dal piano nazionale a quello europeo doveva maturare di pari passo con lo sviluppo di forme di democrazia sovranazionale. Maastricht è alla base di tutto questo. Se la costruzione europea potrà farne a meno, allora si potrà aspirare a un ritorno alla normalità democratica, arginando anche, presumibilmente, i partiti populisti di destra che stanno crescendo in consensi in buona parte della nostra Unione e che alimentano, inconsapevolmente per i cittadini, questo ciclo di politiche.