di Alfonso Gianni
Se si vuole giudicare il rinvio di 14 giorni con cui si è concluso il tormentato vertice Ue di giovedì scorso, si potrebbe forse parafrasare il titolo di un famoso libro di Wolfgang Streeck uscito nel 2013 – Tempo guadagnato – modificandolo in tempo perduto. Streeck intendeva che in Europa si adottavano misure sempre pressati dall’emergenza, ma mai capaci di andare al fondo delle cause della crisi e quindi trovare soluzioni radicali, cioè che andassero alla radice dei problemi. Con l’ovvia conclusione che guadagnare tempo in quel modo significava portare l’Unione europea alla sua deflagrazione.
Questa volta l’emergenza aggredisce i cardini sui quali poggia non solo l’economia ma l’intera società, in Europa e nel mondo. Tale è la crisi scatenata dalla pandemia del coronavirus. Non è una crisi keynesiana “classica”. Colpisce dal lato dell’offerta e da quello della domanda. La prima è dovuta all’arresto della produzione – necessario per la salute di chi lavora in settori non strategici ai fini della lotta alla pandemia -, al crollo delle commesse, alla disarticolazione e alle interruzioni delle catene del valore internazionali. La seconda alla diminuzione o all’annullamento del reddito da lavoro. Tutto avviene in poco tempo e contemporaneamente, determinato da un fattore esogeno che non può essere veramente sconfitto finché non si individua il vaccino necessario per bloccare il virus.
Non si possono prevedere perciò i tempi di durata della crisi, ma si dovrebbe ben conoscere l’urgenza con cui bisogna agire e bene. Quello che valeva sul terreno sanitario, vale anche per l’insieme dell’economia. Francesco Saraceno ha osservato che il carattere esogeno del fattore scatenante la crisi può fare sperare che una volta risolto quello la ripresa possa essere immediata, secondo il modello di una “V” e non di una malaugurata “U” o peggio ancora di una “L”. Ma le contromosse devono cominciare da subito. Un ritardo di 14 giorni, senza peraltro la garanzia che siano produttivi di una soluzione condivisa, può rivelarsi fatale.
Lo scontro è avvenuto sui coronabond, come ormai vengono chiamati, ovvero su uno strumento di debito condiviso nei rischi, rendendo drammaticamente chiaro a tutti che questo è il vero oggetto del contendere e al contempo la cruna dell’ago da cui bisogna passare.
Eppure non si può certo dire che la crisi in atto non abbia scosso profondamente postulati finora intoccabili. Il patto di stabilità è stato solo sospeso, è vero, ma già questo fatto dimostra che non essendo uno strumento utile all’Europa nei momenti di peggiore crisi, non può ritenersi un pilastro della costruzione dell’Unione. Quindi andrebbe eliminato. Nello stesso tempo vincoli che limitavano la capacità di intervento della Bce vengono superati, come quello del 33% per l’acquisto di bond sovrani dei singoli paesi membri e la regola della capital key, per cui i titoli venivano acquistati in proporzione alla quota di capitale dei singoli Stati nella Bce, penalizzando chi ne aveva più bisogno.
Nel contempo la Bce, stando almeno alle dichiarazioni riparatrici post gaffe della Lagarde, non pone limiti al suo intervento. Tra i titoli acquistabili vi sono anche quelli di più breve durata, più sensibili a possibili impennate nei rendimenti. Ma soprattutto viene rovesciato il mantra finora dominante che reggeva le politiche di austerità, cioè che il toccasana fosse la riduzione della spesa per assottigliare il debito. Al contrario ora si dice agli Stati indebitatevi pure purché rimettiate in moto la macchina dell’economia.
D’altro canto quanto accade negli Usa ha per certi versi dello stupefacente. Trump ha non solo negato che la pandemia fosse grave, ma che ci fossero serie preoccupazioni per lo stato di salute che fino a quel momento ringalluzziva l’economia statunitense. Poi da un giorno all’altro ecco sfornare addirittura un sostegno diretto alle persone di 2400 dollari a coppia più altri 500 per ogni figlio a carico. Per non parlare del nuovo QE. Dopo le prime titubanze Wall Street mostra di gradire, mentre per le borse europee ieri non è stata una buona giornata – pur non cancellando la ripresa dei giorni scorsi – dopo la fumata grigia della riunione di Bruxelles, cui si è aggiunta anche la positività al coronavirus di Boris Johnson.
Se torniamo in Europa vediamo che lo scontro avvenuto ieri ha una composizione interna diversa dal passato. Da un lato ci sono nove paesi: Francia, Italia, Spagna, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Grecia, Portogallo e Slovenia che vogliono gli eurobonds, dall’altro troviamo la Germania, e con maggiore decisione l’Olanda, l’Austria e la Finlandia. In altre parole l’asse franco-tedesco sul quale si sono costruite tutte le ultime modifiche restrittive al sistema di governance europea si è rotto. Non è detto per sempre, ma è già un fatto significativo che sia successo su un argomento così importante. In fondo era quello che a suo tempo tentò di fare Tsipras quando cercava alleati per il suo paese e non gli riuscì, anche perché premier come Renzi pensarono di cavarsela, come si ricorderà, regalando al capo del governo greco di allora una cravatta e lasciarlo solo a combattere la sua battaglia contro Schauble.
Il nodo non è tanto il Mes o no: su questa questione i pareri sono trasversali. Anche economisti conservatori scrivono che sarebbe meglio farne a meno, come Giavazzi e Tabellini, e ricorrere invece alla Banca europea degli investimenti. Il problema è la reale condivisione dei rischi e quindi il fatto che, tanto più essendo la crisi provocata da un fattore esogeno che investe tutti, non ha senso imporre condizionalità, ovvero restrizione di spesa sociale come avvenne con la Grecia, e come avverrebbe se si agisse in base all’attuale statuto del Mes (il cosiddetto Fondo salva-Stati). Vedremo se tra 14 giorni la fantasia delle tecnoburocrazie europee sarà in grado di inventarsi nuove strumentazioni. Non sarebbe difficile per la verità, esistendo già soluzioni esplorabili nel dibattito economico internazionale nei cui dettagli non è qui possibile entrare.
In questo travagliato contesto si è inserito con forza l’intervento di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo. Questo ha dato la stura nel nostro paese a un dibattito davvero curioso, come se l’ex presidente della Bce avesse con ciò posto la sua candidatura a un fantomatico governo di unità nazionale o alla sostituzione con sé medesimo dell’attuale presidente del consiglio. Un vecchio vizio italiano di provincialismo e di politicismo. In realtà, almeno credo, le aspirazioni di Draghi sono casomai ben più elevate. Quelle di salvare il capitalismo in crisi. Siamo perfettamente nella condizione di cui ha parlato l’economista Raj Patel, affermando che “il problema dell’odierna crisi del capitalismo è che a risolverla si candida il capitalismo medesimo”. Nello stesso tempo Draghi da un lato ribadisce quanto detto più volte sul finire del suo mandato e cioè che la politica monetaria da sola non risolve tutto e quindi ci vuole una politica fiscale da parte degli Stati, dall’altro ben sapendo che margini fiscali li hanno in pochissimi, apre al debito pubblico, sia per ciò che riguarda le aziende che il sostegno al mantenimento del lavoro e al reddito dei lavoratori. Draghi non dice quale saranno poi le condizioni, una volta si superasse la crisi, di rientro dall’inevitabilmente accresciuto debito pubblico. Tantomeno indica per quali finalità può riprendere l’economia reale. Non a caso gli articolisti del Sole 24 Ore mettono le mani avanti, affermando che non siamo di fronte ad una rivincita delle culture economiche di tipo keynesiano. Ed è su questo che invece dovrebbe incentrarsi la riflessione e la proposta di una forza di sinistra. A partire dalla necessità immediata di fornire reddito a chi l’ha perso o a chi, causa il precariato e la disoccupazione, non ne ha avuto a sufficienza o niente del tutto. Se è solo da grandi crisi che prendono le mosse radicali cambiamenti, questo è esattamente il passaggio che stiamo attraversando.
Pubblicato anche su Jobsnews online del 28.03.2020