A sentire i capi di Stato e di governo dell’Europa, con la sola eccezione della Cancelliera tedesca, sembrerebbe che tutti abbiano capito la lezione di questa interminabile crisi:farla finita con l’austerità e puntare tutto sulla crescita dell’economia, la sola via praticabile per evitare che l’Unione collassi per effetto della grave recessione che da un capo all’altro l’attraversa.
Intanto la linea del rigore, o l’ossessione sulla stabilità dei bilanci pubblici se può piacere di più, continua ad essere il paradigma dell’attuale costruzione europea. Perché accade ciò? Non certo perché al potere dei rappresentanti di governo si sovrappone una burocrazia anonima e spietata che si compiace del disagio di milioni di cittadini. Più probabilmente perché l’intera classe dirigente europea, tecnica e politica, è ormai vittima dell’ingranaggio che essa stessa ha creato.
Orientata per anni da pregiudizi ideologici e da teorie economiche errate, quest’ultima non vuole ammettere che la strada fin qui seguita è stata del tutto inappropriata rispetto all’entità ed alla qualità della crisi.
In questo quadro idee minimaliste come una maggiore flessibilità nel computo del deficit, svincolando alcune risorse da impiegare per la crescita e l’occupazione, al di fuori di una modificazione dell’attuale architettura dell’Unione, anche di quella monetaria, concretamente rischiano di tradursi in un pericoloso esercizio di perseveranza nell’errore.
I problemi hanno radici più profonde, e più profondamente bisognerebbe affondare il bisturi nel corpo malato di questa Unione. Bisognerebbe, in altri termini, ripartire dalle fondamenta, dai vincoli istitutivi dell’Unione europea. Quelli che per semplicità chiamiamo i “Parametri di Maastricht”.
Perché il deficit degli stati membri deve stare sotto la soglia del 3% e il debito sotto quella del 60% della ricchezza nazionale (Pil)? Sono immutabili questi parametri oppure sono il frutto di valutazioni economiche ed econometriche risalenti ad un’altra e diversa stagione del continente, ormai superata? Come tutte le cose della vita, anche della vita economica, questi numeri hanno un valore spazio-temporale assolutamente relativo, ma a Bruxelles e nelle capitali europee li maneggiano come se si trattasse delle Tavole della Legge.
Veniamo a quello che è successo dopo Maastricht. Per tenere sotto controllo i conti pubblici nazionali e allinearli ai parametri stabiliti nel Trattato sull’Unione sono stati sfornati altri vincoli e nuove forme di irreggimentazione delle politiche economiche e finanziarie nazionali sul sentiero del rigore.
Il Patto di bilancio europeo, meglio conosciuto come Fiscal compact, ha imposto l’obbligo del pareggio di bilancio e l’abbattimento di un ventesimo all’anno dell’eccedenza del debito. Il pareggio di bilancio è stato anche costituzionalizzato, alla stregua degli altri principi e valori fondanti degli Stati membri, come l’uguaglianza, la libertà, il lavoro, l’istruzione.
E’ possibile parlare di politiche anticicliche all’interno di queste gabbie? Chiunque, anche chi non mastica di economia, può facilmente constatare che le due cose – restare all’interno di questi meccanismi e favorire la crescita – sono tra di loro incompatibili. Soprattutto se si considera l’eccezionalità della fase che stiamo attraversando, che richiederebbe politiche fortemente espansive dal lato della domanda.
C’è una regoletta semplice che chiunque può comprendere: se non spendi non vendi; se non vendi non produci; se non produci non assumi. La crisi che sta ammorbando due continenti è nata per i disastri finanziari di alcuni colossi bancari e per le scellerate politiche del credito praticate tra le due sponde dell’Atlantico, ma è prosperata sulle scelte errate di politica economica e di bilancio degli stati. Da crisi finanziaria e del debito si è trasformata ben presto in crisi di domanda per effetto delle politiche di austerità. L’effetto è stato poi a catena, con la distruzione di pezzi significativi dell’apparato produttivo e di milioni di posti di lavoro, in America come in Europa. Ma mentre negli Usa è stata possibile una parziale inversione di rotta, con un intervento congiunto del governo e della Federal reserve (Fed), in Europa l’attuale configurazione dell’Unione, tutta ripiegata sulla stabilità dei bilanci pubblici, l’ha praticamente impedita.
E in questo c’è anche il limite, estremo, dell’unione monetaria. Gli stati dell’Eurozona hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria, ma la Bce non assolve alla funzione che è propria delle banche centrali nazionali, compresa quella di stampare nuova moneta per finanziare la crescita e l’occupazione. Le massicce iniezioni di liquidità da parte dell’istituto di Francoforte hanno riguardato infatti solo le banche, che a loro volta si sono guardate bene dall’aprire i cordoni verso le imprese e la famiglie. Hanno preferito investire nei titoli del debito sovrano degli stati ad un tasso di interesse del 4-5% superiore a quello con cui avevano ricevuto in prestito il denaro.
Per quanto riguarda l’Italia appare perciò del tutto immotivato l’entusiasmo per la chiusura da parte della Commissione della procedura di infrazione per deficit eccessivo, come se questo passaggio fosse decisivo per avviare automaticamente politiche di sviluppo, antirecessive. Perché per stabilizzare l’obiettivo raggiunto, mantenendo al contempo gli impegni sull’abbattimento del debito, sarà necessario rimanere inchiodati all’austerità.
In questo quadro sarà assolutamente ininfluente lo scorporo dal computo del deficit di “alcuni” investimenti produttivi. Se mai si arriverà in tempi brevi a definirne tempi e modalità.
La verità è che l’Europa, quella delle persone in carne ed ossa, sta sprofondando nel baratro. La crisi è fortissima e morde da straziare i corpi di milioni di cittadini. In uno scenario simile bisognerebbe semplicemente prendere atto che il primo ciclo di integrazione europea si è chiuso irrimediabilmente e che l’attuale impalcatura dell’Unione non regge più il peso delle sfide che vengono dalla società e dall’economia.
Nei momenti di depressione come questo, stare col bilancino in mano per censurare lo sforamento di un decimale sul bilancio di uno Stato, sulla base di soglie e parametri di riferimento del tutto convenzionali e, per giunta, anche caduche, è il trionfo dell’irrazionalità e del masochismo.
Lo diceva bene John Maynard Keynes: “L’austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi”. Una lezione che in Europa tutti (o quasi) sembrano aver dimenticato.
di Luigi Pandolfi