Lo stallo politico israeliano si colloca all’interno d’uno scenario geopolitico inedito: il presidente Trump, a differenza dei suoi predecessori, pensa d’integrare la Palestina nel mercato globale. Contrariamente alla prospettiva dell’amministrazione Trump, il capitalismo non attenua la conflittualità sociale, ma la radicalizza.
Il presidente Obama cercò di risolvere il conflitto arabo-israeliano puntando sul realismo politico; da un lato difese la soluzione dei due stati, dall’altro nacque il Commanders for Israel’s Security dove l’intelligence israeliana andava a contrapporsi ai servizi di sicurezza palestinesi. Il rapporto colonizzatori/colonizzati non è mai stato rimesso in discussione, impedendo una reale pacificazione. Gli esperti (israeliani e non) confermano che l’unico sionismo reale, dal ’56 in poi, s’è impegnato nel campo dell’espansione imperialista.
Dal 2015, i neoconservatori con la doppia cittadinanza (israeliana e statunitense) presero politicamente il sopravvento su liberali e sinistra semi-neoliberista; il leader del Likud, Netanyahu, rilanciò il progetto della ‘’Grande Israele’’ forte dei finanziamenti del padrone dei casinò USA, Sheldon Adelson e della manipolazione religiosa evangelica. Lo stallo politico delle, appena concluse, elezioni va imputato proprio all’ultra-destra neosionista. Che cosa è successo? Leggiamo da un breve, ed imparziale, articolo della Rete Voltaire:
Lo scontro fra Lieberman e Netanyahu riguarda lo sviluppo capitalista – quindi economico, politico e militare – dello stato neosionista.
- Per Lieberman, Israele dovrebbe diventare un paese capitalista moderno schierato con gli USA ed in parte la Federazione russa contro il mondo musulmano (Iran compreso). Un capitalismo cristiano-sionista, con margini di espansione neocoloniali.
- Netanyahu ha assecondato l’estrema destra religiosa facendosi carico della costruzione dello stato ‘’per soli ebrei’’, etnicamente omogeneo. La sinistra, in tutte le varianti (dagli LGBT ai comunisti), viene identificata col ‘’nemico esterno ’’: il popolo palestinese.
Entrambe le scelte sono peggiori; neoliberiste ed imperialiste. L’analista Maurizio Vezzosi, con un eccellente articolo, ribadisce come la politica della guerra sia, di fatto, non politica:
L’asse Mosca – Teheran è strategico, mentre la borghesia israeliana manca d’un orientamento geopolitico percorribile. Dentro il colonialismo non c’è politica elettorale; le ultime elezioni hanno visto dibattere i candidati sulla guerra mentre il proletariato ebraico è, senza troppi giri di parole, affamato. Continua Vezzosi:
‘’Nonostante i toni trionfalistici di gran parte della stampa israeliana riguardo al successo della visita, Vladimir Putin ed il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno accolto con evidente freddezza la volontà israeliana di annettere ulteriori territori quali la valle del Giordano e la sponda nord del Mar Morto: una volontà stigmatizzata esplicitamente anche da Giordania e Turchia, e accolta in Europa con grande preoccupazione’’
Se non esiste la politica elettorale pro-Colonialismo, figuriamoci cosa ne è della diplomazia; un nulla di fatto. Mosca non si fida di Tel Aviv. Gli stalli politici si devono ad architetti irresponsabili quindi, rompendo col ‘’giornalismo conformista’’, la reporter israeliana Amira Hass porta sul banco degli imputati l’establishment nazionale: il problema d’Israele è l’occupazione. Con l’articolo Un voto per guadagnare tempo, i nemici della cooperazione perdono la maschera (sottolineatura mia):
‘’L’appetito israeliano per più terra palestinese è dettato dagli insediamenti e dalla burocrazia: l’Amministrazione Civile, i giuristi nei ministeri del governo e il sistema legale, pianificatori e architetti in cerca di contratti. La stessa burocrazia è piena di rappresentanti degli insediamenti e dei loro parenti e fratelli o di coloro che hanno imparato che bisogna sottomettersi a loro, alle loro visioni messianiche-immobiliari e alle loro tasche, così come alle tasche dei loro ricchi sostenitori ebrei della diaspora’’
La Palestina storica è vittima, dopo il 1948, dell’economia neomercantile; ciniche leggi d’accumulazione capitalista che considerano la popolazione di Gaza come un potenziale esercito industriale di riserva d’annichilire in nome del profitto. Israele va collocato, nella bilancia delle relazioni geopolitiche, come una nazione (ultra)borghese organica all’occidente imperialista; non c’è pacificazione senza uno stravolgimento delle relazioni classiste (imperialismo ed oligarchia contro proletariato e ceti produttivi). Conclude la Hass: ‘’Il cambiamento necessario per salvarci da noi stessi non verrà da noi; per raggiungerlo dobbiamo guadagnare ancora un po’ di tempo fino a quando qualcuno nel mondo non piangerà. Ecco perché dovremmo votare oggi per la lista unica e, in caso contrario, per gli altri due partiti che almeno vedono i palestinesi. Dovremmo votare se non altro per rallentare la velocità del motore del potere ebraico che punta all’espulsione finale dei palestinesi’’. Lo Stato profondo (intelligence, grande borghesia ed i vertici dell’IDF), vero motore del potere sciovinista, s’opporrà a qualsiasi soluzione di convivenza pacifica in linea con la genesi storica del colonialismo, prima britannico poi statunitense. La ‘’variabile elettorale’’ rimane, con questi rapporti di forza nazionali/globali, un dettaglio di secondaria importanza.