Il 25 Aprile è sempre una buona occasione per riflettere sulla stato di salute della nostra democrazia, sugli obiettivi centrati e su quelli mancati della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Nondimeno, quest’anno la riflessione meriterebbe di essere ancora più approfondita. E non solo per la cifra tonda della ricorrenza, ovviamente.
Negli ultimi anni sono cambiate tante cose nel nostro Paese ed in Europa. Una crisi transatlantica, globale, figlia di un lungo e sconsiderato processo di finanziarizzazione dell’economia capitalistica, ha incontrato un’Europa sprovvista di una struttura politica democratica, in grado di farvi fronte in maniera opportuna. A differenza degli Usa, dove la politica è riuscita in qualche modo ad opporre misure più efficaci al ciclo avverso, in Europa si è assistito ad un ripiegamento su due sole direttrici: salvataggi bancari e austerità. Di fatto si scaricato il costo della crisi sul groppone degli stati – sarebbe il caso di dire dei cittadini -, assecondando la deriva dell’economia anziché contrastarla.
A parte il caso greco, che per ovvie ragioni fa più notizia, c’è un’intera area politica ed economica, coincidente con i confini dell’Unione, ormai, che fa i conti da alcuni anni con recessione, stagnazione, alti livelli di disoccupazione. Un dato su tutti: il tasso di disoccupazione nell’Eurozona era nel 2007 al 7,5%, ora viaggia intorno al 12%. In valore assolto questo significa che in Europa ci sono oltre otto milioni di disoccupati in più rispetto all’inizio (convenzionale) della crisi. E in Italia? Beh, qui da noi siamo ai record, con un tasso di disoccupazione che balla intorno al 13% ( 43% quella giovanile) ed un’economia in recessione da quattro anni consecutivi. La situazione assume contorni terribili, poi, se si dà uno sguardo alla situazione del Mezzogiorno, la cui economia arretra invece da sette anni ininterrottamente ed i livelli di disoccupazione sono in linea con quelli della Grecia e della Spagna, i paesi che fanno registrare il più alto numero di senza lavoro nell’Unione a 28. Uno scenario da brivido, che spinge un’accreditata istituzione come l’associazione Svimez a parlare, nel suo ultimo rapporto, di “rischio desertificazione umana e industriale” per il Sud.
Eppure in questi anni di soldi ne sono girati in Europa. Dal 2011 in poi, per salvare le banche da un inevitabile default, la Bce ha messo in campo oltre due trilioni di Euro, ai quali ora si aggiungono i 1140 miliardi di Euro del Quantitative easing. Un’operazione, quest’ultima, che, in contrasto con gli strombazzi ufficiali, sta già rivelando la sua fallacità. Come dimostra la storia economica degli ultimi cento anni almeno, non c’è alcuna correlazione automatica tra aumento della base monetaria e crescita dell’economia, in assenza di investimenti pubblici adeguati.
Tanto denaro per nulla, insomma, vista la sproporzione tra queste cifre e le performance dell’economia reale. Più in generale, soldi a volontà per soccorrere il mondo finanziario – quello ufficiale e, indirettamente, quello ombra – , austerità per i cittadini, costretti a pagare il conto di una crisi di cui non portano alcuna responsabilità. Ciò, anche a costo di sospendere le prerogative costituzionali degli Stati membri in tema di politica economica e sociale. Con una serie di vincoli più cogenti, invero, è stata imposta una stretta severa sui bilanci degli Stati, riducendo parallelamente i parlamenti nazionali a meri organi di ratifica e di asseverazione rispetto a decisioni prese altrove.
In Italia, una vera e propria svolta su questo terreno si è avuta con la costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio. E’ stato manomesso l’art. 81 della Costituzione, inserendo la seguente norma prescrittiva: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. D’ora in poi, pertanto, l’indebitamento “è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”. A prima vista sembrerebbe una regola di buonsenso: lo Stato non può spendere più di quanto entra nelle sue casse dalla raccolta fiscale.
Di fatto non è così, perché questo principio, ovvio per una famiglia, non può essere applicato pedissequamente ad uno stato sovrano. A meno di cancellare uno dei capisaldi della storia economica moderna e contemporanea: la possibilità per gli stati di spendere in deficit, soprattutto nel ciclo avverso.
Nel nostro Paese, senza tale opzione, ad esempio, non ci sarebbe stato il “decollo industriale”, né i “trent’anni gloriosi” del secondo dopoguerra. Men che meno, su scala più ampia, avremmo visto affermarsi quello che, convenzionalmente, chiamiamo “modello sociale europeo”.
Tornando alla Costituzione, non c’è dubbio che questa “riforma” abbia creato un corto circuito all’interno della stessa. Negare in principium il ricorso alla spesa in deficit è palesemente in contrasto con l’impostazione “programmatica” della Carta e, segnatamente, col secondo comma dell’art. 3 – vero architrave della Costituzione -, laddove si stabilisce che la Repubblica ha il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Tertium non datur: o la Repubblica ha come finalità il contenimento paranoico della spesa pubblica, anche a scapito dei diritti acquisiti e della prospettiva di miglioramento delle condizioni materiali di vita dei suoi cittadini, o è quella di agire, anche attraverso la spesa pubblica, per combattere le sperequazioni sociali e promuovere, in ogni sua sfera, il “pieno sviluppo della persona umana”. Stando alle scelte che si stanno compiendo ultimamente, dalla tutela del lavoro alla scuola, fino ai disastri nel settore della sanità in alcune regioni, l’impressione (o forse la certezza) che sia ha è che la prima opzione abbia esautorato del tutto la seconda.
Non solo. Il dubbio che la crisi, oltre ad essere stata scaricata sui cittadini, sia stata colta come occasione per imporre un governo emergenziale della stessa è più che legittimo. Nello stato d’eccezione (spread, rischio default, ecc.) e con la copertura del “vincolo esterno” (patto di stabilità europeo), un po’ ovunque, dal caso estremo, drammatico, della Grecia fino ai paesi dell’Europa del nord, si stanno cancellando conquiste storiche dei lavoratori, precarizzando il lavoro e la vita di milioni di individui, tagliando spazi di democrazia a favore di una deriva oligarchica del governo della cosa pubblica.
La parola “crisi” deriva dal greco krisis, che, nella sua accezione originaria, ha in sé due concetti: quello di “separare” e quello di “scegliere”. La crisi implica sempre un passaggio da una condizione ad un’altra, ma a determinarne la direzione sono le scelte che in essa si compiono. A settant’anni dalla Liberazione, forse, sarebbe il caso di chiederci se l’attuale corso delle cose sia davvero ineluttabile, come ci vogliono far credere, ovvero se la crisi, paradossalmente, non possa farsi levatrice di un nuovo scenario politico ed economico, di un nuovo modello sociale in cui l’uomo e l’ambiente contino più di un decimale di deficit (e degli interessi della finanza speculativa).
Lo so, ci sarebbe bisogno di grandi cambiamenti politici, innanzitutto, ma in fondo realizzeremmo quello per cui nel nostro Paese alcune generazioni di democratici e di democratiche si sono battute, avendo in mente l’insegnamento della Resistenza e sotto gli occhi gli articoli della Costituzione.
di Luigi Pandolfi