di Luigi Pandolfi
Lo stallo sulle nomine dei vertici Ue fa slittare la riunione della Commissione che avrebbe dovuto decidere sulla richiesta formale di una procedura di infrazione per deficit eccessivo a carico dell’Italia.
Rimane l’incertezza, rischiamo una multa fino allo 0,5% del Pil (circa 7 miliardi), il blocco dei fondi strutturali e l’esclusione dai programmi d’acquisto della Bce. Imbarazzante. Ma il governo non ha colto l’occasione per aprire una discussione seria, nel Paese ed in Europa, sulla necessità di superare l’impostazione neoliberista dei Trattati e di tutte le regole adottate negli anni successivi, in particolare dopo la grave crisi scoppiata dieci anni fa, dalla quale, invero, ancora facciamo fatica ad uscire.
Sembra invece che l’esecutivo giallo-verde abbia deciso per una strumentale divisione del lavoro al proprio interno, tra un’ala urlante incapace di proposte alternative, al netto di trovate estemporanee come quella dei minibot smentite e derise all’interno dello stesso governo, e un’ala dialogante, sostanzialmente supina ai diktat della Commissione (Tria concorda «circa la necessità di conseguire avanzi primari più elevati»).
Né l’una né l’altra parte, insomma, sta andando al cuore del problema: l’incongruenza tra gli obiettivi «nobili» dell’Unione (solo declamati) e l’insieme delle regole e degli strumenti posti alla base del suo funzionamento.
Entriamo nel merito. L’articolo 9 del TFUE recita testualmente: «Nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana».
Fantastico. Peccato che tutti gli articoli successivi disegnino un altro ordine di priorità: il perseguimento della piena occupazione e di una maggiore protezione sociale dei cittadini è subordinato al mantenimento della stabilità dei prezzi ed al rispetto, assoluto, dei principi del libero mercato e della concorrenza.
E questo spiega, ad esempio, perché un certo livello di disoccupazione sarebbe addirittura necessario alla stabilità del sistema economico e finanziario (la chiamano disoccupazione strutturale). La parolina magica è output gap, la distanza tra Pil reale e Pil potenziale. Tra la prima grandezza (oggettiva, osservata) e la seconda (immaginaria) sta il destino di milioni di persone, di giovani, di precari, di famiglie.
Nel caso dell’Italia una distanza calcolata nell’ordine dello 0,3% nel 2019 e dello 0,8% nel 2020 (altro calcolo fa l’Ocse, ognuno se la calcola a modo suo). Significa che il nostro Paese, nonostante sia in stagnazione e faccia registrare un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa, per Bruxelles sarebbe addirittura al di sopra del suo potenziale produttivo, dovrebbe rallentare (il tasso di disoccupazione non dovrebbe scendere sotto il 9,8%). Insomma, ci toccherebbe la recessione e invece ci permettiamo una crescita dello zero virgola. Ironico, ma non troppo.
Di conseguenza, fare più investimenti, adottare una politica di bilancio espansiva per creare nuovi posti di lavoro e restringere la forbice sociale, sarebbe in tale contesto non solo sconsigliato ma addirittura vietato, perché creerebbe inflazione, quindi instabilità. Più austerità, allora. Nonostante l’indice dei prezzi al consumo continui a segnalare un problema di domanda (a giugno +0,8% su base annua, solo +0,3% il «carrello della spesa») e i disoccupati, quelli censiti, siano ancora più di 2 milioni e mezzo (altrettanti sono quelli che un lavoro nemmeno lo cercano).
E se più austerità significherà che l’economia andrà incontro ad un’ulteriore, brusca contrazione, con ricadute negative sulla stessa tenuta dei conti pubblici e la stabilità del settore bancario, niente paura: sarà sempre l’output gap a dirci come comportarci. I modelli econometrici prima delle persone. Follia. Ma l’ala dialogante del governo non sembra interessata a mettere in discussione questi modelli (il ministro Tria si è limitato a chiedere alla Commissione «valori più coerenti di output gap», ma «comunque calcolati secondo la metodologia convenuta a livello europeo»), mentre quella urlante non fa altro che irrigidire i loro custodi ed allontanare i potenziali alleati.