La moneta di platino che Obama non conierà.
La petizione sul sito della Casa Bianca ha raccolto ottomila firme in dieci giorni. Si chiede al Presidente Obama di metter fine all’estenuante braccio di ferro tra l’amministrazione e il partito repubblicano facendo ricorso ad una soluzione di carattere straordinario: coniare una moneta da mille miliardi di dollari che renderebbe superflua l’approvazione da parte del Congresso del nuovo tetto del debito (il “debt ceiling“) neutralizzando così l’assedio repubblicano al bilancio federale. Il portavoce del Presidente in conferenza stampa non l’aveva categoricamente esclusa dal tavolo della trattativa. Ma sabato, un portavoce del Tesoro si è affrettato ad affermare che l’ipotesi non è percorribile: “Neither the Treasury Department nor the Federal Reserve believes that the law can or should be used to facilitate the production of platinum coins for the purpose of avoiding an increase in the debt limit.”
Il debt ceiling negli Stati Uniti
Per chi non avesse seguito i passaggi di questa lunga battaglia dei repubblicani al Congresso la storia del “debt ceiling” in sintesi è questa. Il debt ceiling è parte della legislazione americana dal 1917 e, nella forma attuale, dal 1939. Dal 1962 ad oggi, il tetto del debito è stato emendato 74 volte, senza fare notizia. Il voto è normalmente inteso come una formalità: il Congresso approva l’emissione dei titoli associata alle decisioni di spesa già prese dal Congresso stesso. In altre parole, con il voto sul debt ceiling il Congresso non si pronuncia sulla politica fiscale già deliberata.
Oggi, come già peraltro nel 2011, i repubblicani intendono sfruttare questa prerogativa del Congresso per obbligare l’amministrazione ad importanti concessioni sui capitoli di spesa del bilancio federale. A differenza di due anni fa, Obama sembra intenzionato a non cercare compromessi sulla politica fiscale già approvata lasciando al Congresso la responsabilità di innescare, non approvando il nuovo debt ceiling, una crisi fiscale di proporzioni enormi. Accadrebbe, in sostanza, che i pagamenti del settore pubblico sarebbero congelati perchè manca l’autorizzazione ad effettuarli.
Ma i repubblicani non sembrano preoccupati dello scenario che scaturirebbe da un rifiuto a votare il nuovo tetto. Da qui la ricerca di un escamotage in grado di contrastare l’espediente dei repubblicani che intendono utilizzare di nuovo il debt ceiling per costringere il governo a modificare la politica della spesa federale.
Una moneta jumbo da un trilione di dollari
L’idea della moneta di platino aveva fatto la sua prima comparsa in un commento sul blog moslereconomics.com nel maggio 2010. Ripresa di recente da vari osservatori è stata caldeggiata da Paul Krugman ed è finita sui media internazionali, materializzandosi nella petizione, tuttora presente sul sito della Casa Bianca (che raggiungendo quota venticinquemila impegnerebbe il Presidente a fornire una risposta formale).
L’idea è quella di dare scacco al blocco repubblicano in tre mosse:
1. Il Tesoro americano conia una moneta da un trilione di dollari. Lo può fare? Sì. Lo prevede una legge fino ad oggi riservata all’emissione di monete per collezionisti. Nulla impedisce di emetterne una con un valore facciale così straordinario. L’unica condizione è che sia una moneta di platino (ma naturalmente non del valore intrinseco di un trilione di dollari: di platino ne basterebbe meno di un’oncia).
2. Il Tesoro versa la moneta sul proprio conto corrente presso la Fed. La Fed può accettare questo inusuale versamento? Non solo può. Deve. Le monete legalmente emesse dal Tesoro sono moneta di stato, che la Fed non può rifiutarsi di accettare.
3. La Fed accredita dunque un trilione di dollari sul conto del Tesoro americano. Si tratta più o meno del 6% del valore complessivo dei titoli pubblici in circolazione e l’amministrazione non ha più bisogno del voto repubblicano per emendare il debt ceiling.
Semplice? Non proprio. È scontato che il carattere senza precedenti del provvedimento scatenerebbe battaglie legali dall’esito incerto, compresa la possibilità di un braccio di ferro tra Tesoro e Fed (quest’ultima godendo di un certo grado di indipendenza, pur essendo alla fine una creatura del Congresso). E sarebbe in fondo grottesco se la maggiore potenza industriale dovesse ricorrere ad una moneta di platino estratta dalla manica del Presidente per poter continuare a pagare gli interessi sui titoli ed effettuare tutti i pagamenti relativi alla gestione della cosa pubblica.
Resta il fatto che l’espediente della moneta di platino, politicamente problematico, è tecnicamente ineccepibile. Ed è interessante notare che la motivazione addotta dal Tesoro nella dichiarazione citata sopra, contraria al provvedimento, non fa alcun riferimento a problemi di inflazione o integrità del dollaro (come lamentato da alcuni) ma esprime esclusivamente perplessità di opportunità politica.
La meccanica della moneta di platino offre comunque un’occasione per qualche riflessione più generale sulla natura del debito pubblico, con qualche implicazione per la casa europea.
Quali conseguenze monetarie avrebbe?
La conseguenza politica della moneta di platino è rimuovere la necessità del voto del Congresso e consentire all’amministrazione di poter continuare ad amministrare le spese già deliberate. Ma quali sarebbero le conseguenze economiche di un provvedimento del genere? Pressoché nulle. Vediamo perché.
Nessuna delle tre mosse descritte sopra modifica le decisioni di spesa o di imposizione fiscale già approvate dal Congresso. Dunque, non si avrebbe alcuna conseguenza su reddito, occupazione o inflazione dell’economia americana. Chi grida al pericolo dell’integrità del dollaro non conosce le operazioni di politica monetaria.
Più semplicemente, le attività finanziarie create dalla spesa netta del governo federale al netto delle tasse, che si sarebbero altrimenti materializzate in un maggiore stock di titoli di stato, si manifesterebbero nella forma di riserve bancarie presso la Fed.
Una volta stabilito il fatto che spesa e tasse federali non sarebbero modificate di una virgola, si danno alcune opzioni, con differenze poco rilevanti per l’economia reale. In ogni caso, il Tesoro spenderà il suo nuovo trilione di dollari man mano che la spesa (già prevista e approvata!) si materializza, e potrà emettere nuovi titoli solo per sostituire quelli in scadenza (in modo da non sforare il debt ceiling). In questo modo, ogni spesa pubblica maggiore di quanto il Tesoro riceve in tasse, creerà nuove riserve bancarie (e non titoli). La Fed, dal canto suo, potrà decidere se consentire la crescita delle riserve oppure assorbirle con operazioni di politica monetaria commutandole in altri titoli con durate e rendimenti differenti.
In altre parole, il “debito” non si chiama più “titoli di stato”, si chiama “riserve” e siccome la Fed non è soggetta a tetti sulle riserve, tutto può continuare come prima.
Ma il Tesoro potrebbe anche scegliere di non emettere altri titoli alla scadenza dei vecchi e quindi ridurre quel numero che si chiama “debito pubblico”. Le differenze sono esclusivamente nominali e riguardano chi paga gli interessi: lo stato sui titoli o la Fed sulle riserve.
L’uso della moneta di platino non potrebbe in alcun caso modificare il tetto della spesa e sganciarlo dall’approvazione del Congresso. Impedirebbe una crisi fiscale irragionevole, questo sì, ma non sarebbe in grado di incidere su domanda e occupazione. E il medesimo esito si otterrebbe abolendo il debt ceiling, una legge che non ha praticamente eguali nel resto del mondo.
La lezione di tecnica monetaria, utile soprattutto all’Europa, è che da un punto di vista operativo riserve bancarie e titoli di stato sono, per le banche, impieghi monetari liquidi così prossimi da poter essere considerati sostituti. Con l’eccezione dell’area euro, il debitore ultimo è lo stato sovrano [1].
Ma se la distinzione tra riserve e titoli di stato è retorica e ingannevole, allora c’è qualche ragione importante per ripensare profondamente l’impostazione dell’austerità nostrana basata sulla necessità che la spesa pubblica si debba finanziare sul mercato. Il rischio di insolvenza di uno stato sui propri titoli per mancanza di fondi lo ha inventato l’Europa [2].
di Andrea Terzi
Franklin College Switzerland e Mosler Economic Policy Center mecpoc.org; docente di Economia monetaria, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
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Note
[1] E non si tratta qui di essere monetaristi o keynesiani: la sostituibilità tra titoli di stato e riserve è spiegata tecnicamente, ad esempio, da Borio and Disyatat a pagina 16 di un paper della Banca per i Regolamenti Internazionali: Unconventional monetary policies: an appraisal. Monetary and Economic Department , November 2009, BIS Working Papers, No 292.
[2] E se pensate che si possa proporre lo stesso escamotage in uno qualunque degli stati dell’area euro, scordatevelo. Secondo la lettera del Trattato i singoli stati sono autorizzati a coniare monete, ma il volume di ogni emissione deve essere approvato dalla BCE.