C’era una volta la teoria dell’austerità espansiva. Elaborata in una serie di saggi pubblicati su prestigiose riviste internazionali a partire dagli anni ‘90, spesso a firma di economisti italiani, la teoria decantava gli effetti salvifici dei consolidamenti fiscali. Sosteneva che – soprattutto nei Paesi in cui il debito pubblico registrava valori “elevati” rispetto al Pil – riduzioni della spesa pubblica al di sotto del livello della raccolta fiscale avrebbero alimentato la crescita. Si sa che l’Unione monetaria ha fatto proprie queste tesi e l’esito, come dimostra il fallimento delle politiche per arginare la crisi scoppiata nel 2007, è stato catastrofico.
Secondo le stime della Commissione Europea, a fine 2013 il Pil complessivo dei Paesi dell’Unione monetaria europea continuerà a mantenersi al di sotto del valore del 2007, di circa 2 punti percentuali. Per non parlare della drammatica condizione del mercato del lavoro che ha registrato un incremento della disoccupazione di oltre 7 milioni e mezzo di unità rispetto al 2007. Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove sia pure tra molte contraddizioni le autorità di politica economica hanno messo al bando l’austerity, e il valore della produzione sarà a fine 2013 quasi 6 punti percentuali più elevato del dato pre-crisi.
Ma c’è di più. Calata su un contesto già inizialmente squilibrato e applicata con carico maggiore nei Paesi periferici d’Europa, l’austerità sta contribuendo ad amplificare gli squilibri territoriali. In un contesto che segna in media decrescita e calo occupazionale, ci sono infatti alcuni Paesi che sono riusciti comunque a svilupparsi e altri che hanno invece conosciuto una crisi di proporzioni storiche. Alla fine del 2013 la Germania avrà un Pil di quasi 5 punti percentuali più elevato rispetto al 2007, e il numero di persone in cerca di lavoro si sarò ridotto di un terzo. Contemporaneamente, il Pil greco registrerà un calo di quasi il 22 per cento, quello spagnolo del 4 e mezzo per cento, quello italiano del 9 per cento. Rispetto allo scoppio della crisi, il numero di persone in cerca di lavoro sarà aumentato di oltre il 300 per cento in Grecia e in Spagna, mentre in Italia risulterà raddoppiato, passando da un milione e mezzo di unità a tre milioni. Insomma, mentre le aree centrali d’Europa sembrano per molti versi trarre persino vantaggio dalla situazione attuale – al punto che nel 2012 l’avanzo complessivo della bilancia commerciale di Germania, Olanda e Paesi scandinavi era pari a circa un terzo del Pil italiano – le economie dei Paesi periferici stanno soffocando nella camicia di forza creata delle politiche fiscali restrittive e dall’assenza di politiche di cambio e monetarie autonome. Né per il 2014 ci si attendono sostanziali cambiamenti. A riguardo, ricordo ai responsabili della politica economica italiana che già altre volte il nostro governo ha peccato di ottimismo in tema di crescita: il rischio di reiterare l’errore sembra alto anche nel caso della Legge di Stabilità per il prossimo anno.
L’aggravarsi degli squilibri europei non giunge inatteso. Gli effetti depressivi delle politiche di austerità, dimostrati in ambito scientifico, erano già stati sollevati con una lettera aperta firmata da 300 economisti keynesiani nel 2010. Oggi le critiche all’austerità riscuotono sempre maggiori consensi presso diverse scuole di pensiero. Lo si è registrato con il recente “monito degli economisti” promosso da Emiliano Brancaccio e dallo scrivente: il documento ha trovato ospitalità sul Financial Times ed è stato sottoscritto da alcuni tra i più autorevoli economisti europei e americani, tra cui studiosi di formazione mainstream. Alla luce dei crescenti squilibri europei, il “monito” avanza una previsione: se le politiche monetarie e fiscali europee non muteranno in senso espansivo, l’esperienza dell’Unione monetaria avrà fine e ai decisori di politica economica non rimarrà che una scelta tra modalità alternative per abbandonare l’euro. Il “monito” segnala che un simile esito sarebbe la logica conseguenza dell’attuale pretesa di scaricare l’onere del riequilibrio europeo sui soli Paesi periferici, a colpi di austerity e di riforme strutturali. Un errore grave, per più di un verso speculare a quello che l’Europa compì dopo la prima guerra mondiale, quando alla Germania venne imposto l’obbligo di rimborsare un volume insostenibile di debiti e di riparazioni di guerra. In quel caso, come aveva previsto John Maynard Keynes all’indomani del Trattato di Versailles del 1919, la “vendetta” non tardò ad arrivare, e fu atroce. La Storia non si ripete mai allo stesso modo, ma conoscerne gli snodi dovrebbe aiutarci a non ripetere gli errori del passato.
di Riccardo Realfonzo
Da: economiaepolitica.it