La globalizzazione nella sua versione iperliberista ha prodotto lo svuotamento del potere degli Stati nazionali, dei loro popoli, e l’appropriazione da parte delle tecnocrazie europee di elementi decisionali rilevanti in tema di politica economica. Né a livello globale, né a livello europeo sono state costruite istituzioni e regole per sviluppare processi democratici degni di questo nome, in grado di compensare la perdita di controllo che le democrazie nazionali hanno subito. Non si è realizzato uno spazio della politica a livello europeo in cui possano svilupparsi il dibattito dell’opinione pubblica, i processi di deliberazione, nuove forme di rappresentanza e poteri legittimati dalla democrazia.
Nel dopoguerra la tecnocrazia della Commissione europea sembrava essere una soluzione soddisfacente alla difficoltà di trovare accordi politici tra gli Stati sulla cessione di sovranità all’Europa. Tuttavia, per parecchio tempo i risultati positivi dell’azione europea ne hanno legittimato ex post le modalità d’azione non democratica. Ma con la crisi economica l’Europa ha messo in luce molte contraddizioni: da una parte la gestione della crisi ha aggravato l’assenza di democrazia e ha assegnato poteri fondamentali ai “tecnici” della Banca Centrale Europea e della Commissione europea, che hanno costretto i governi a seguire dure politiche di austerità; dall’altra parte, la gravità degli effetti della crisi ha eliminato ogni legittimità al potere tecnocratico di Bruxelles, come confermato dai sondaggi d’opinione[1].
In Italia il governo Monti del 2011 ha rappresentato un allargamento del potere dei tecnici, ma il modesto risultato elettorale di “Scelta civica” al voto di febbraio 2013 pone in evidenza quanto sia illusorio pensare che il potere dei tecnici possa trasformarsi in modello per la politica. Le scelte politiche presuppongono competenze adeguate per affrontare la complessità sociale e per tale ragione non possono essere delegate ai tecnici.
Un altro esempio, ancora più recente, di legittimazione al potere tecnocratico è in fondo rappresentato dalla “Legge di stabilità” del Governo Letta. Stiamo parlando dei regali fiscali di 19,4 miliardi dal 2015 al 2022 alle banche; di contro rileviamo soltanto una bassissima riduzione del cuneo fiscale pari a 1,5 miliardi (per i redditi annui da 15.000 euro, aumento di 14 euro al mese compresa la tredicesima!). Ennesimo regalo ai banchieri, responsabili della crisi sistemica, che hanno ricevuto come premio dalla BCE fiumi di denaro al tasso dell’1%, utilizzati per risanare le loro casse e non per elargire credito a famiglie e imprese. Il cuneo fiscale nel 2012 è stato di oltre il 53% del costo del lavoro, tra i più elevati nell’area OCSE; ciò significa che più della metà di quello che le imprese spendono per il lavoro va nelle casse dello Stato. È necessario ridurre tale cuneo, eliminando il costo del lavoro dalla base imponibile Irap e tagliando di almeno 11 punti gli oneri sociali a carico delle imprese. L’Irap grava sul costo del lavoro e sui redditi derivanti dall’impiego di capitale, pertanto soltanto l’eliminazione della componente del lavoro dalla base imponibile può aiutare le imprese ad assumere e investire, recuperando competitività. Il cuneo può essere ridotto sia abbassando i contributi sociali, sia diminuendo l’imposta sul reddito: l’effetto distributivo finale sarà uguale, vale a dire ridurre l’impatto negativo della tassazione sul fattore lavoro. Secondo alcune stime di Confindustria, da qui al 2017 per questa via si potrebbe aumentare di dieci punti il Pil e creare 1,1 milioni di posti di lavoro[2].
Questi interventi certamente non possono provenire dai tecnici dalla mente “ragionieristica”, dall’inefficacia della politica e dallo svuotamento della democrazia, ma soltanto dal cambiamento delle forme e della qualità della politica.
Stiamo attraversando un periodo di irregolarità costituzionale, dove il paese è essenzialmente governato da tecnocrati che si pongono l’obiettivo di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari, a qualsiasi costo. Con meno poteri, meno spazio d’azione, minori risorse, la politica ha smarrito i propri obiettivi e ha perso buona parte degli strumenti d’intervento.
È anche vero che un sostegno ad una politica più efficace può provenire solo da una classe politica più onesta e competente, da una pubblica amministrazione più professionale e meglio organizzata, dalla riduzione degli sprechi, da una più attenta valutazione delle politiche realizzate e dei loro effetti. La politica deve ritrovare la sua dimensione in Europa e ricominciare a dominare l’economia[3]. Nuovi processi democratici di partecipazione, deliberazione e rappresentanza, devono essere istituzionalizzati su scala europea: le decisioni sulla direzione verso cui deve andare l’Europa devono essere prese democraticamente dai cittadini.
di Alessandro Morselli
*Docente di Complementi di Politica Economica, Università di Roma “LA SAPIENZA”
[1] Sapir J. (2012), Bisogna uscire dall’euro?, Verona, Ombre Corte, pp. 90-112.
[2] Assemblea annuale della Confindustria, Intervento del Presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, Roma, 23 maggio, 2013.
[3] Morselli A. (2013), “The Effect of Budget Policies in Europe between New Classical Economics and New Keynesian Economics”, European Journal of Social Science, vol. 38 no 4, June, p. 473.
da http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/leuropa-della-tecnocrazia-e-quella-dei-popoli/#.UqmPrGTuLIe