Lunedì scorso nell’Università di Economia della Sapienza è stato presentato il Rapporto sullo Stato Sociale 2015 a cura di Felice Roberto Pizzuti, arricchito dai contributi di un nutrito numero di docenti e di studiosi della materia. Il Rapporto è stampato a cura delle edizioni Simone.
Davanti a centinaia di studenti, mentre le fila riservate alla “autorità” erano malinconicamente vuote, si è sviluppato per l’intera mattinata un denso dibattito che ha visto coinvolti, oltre al Prof. Pizzuti, la Presidente della Camera Boldrini, il presidente dell’Inps Boeri, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio De Vincenti, il prof. Gustavo Piga e il Presidente della commissione industria del Senato Mucchetti e il segretario della Fiom Landini. Per chi ha avuto la fortuna di assistere alla discussione è apparso chiaro il baratro che separa ormai l’accademia, i rappresentanti delle parti sociali e delle istituzioni elettive, come il Parlamento, da chi ha responsabilità di governo o che da esse derivano.
Il Rapporto è giustamente impietoso. Delinea tutti gli elementi di una grande recessione economica in atto, che nel nostro paese ha comportato la sistematica riduzione e distruzione degli istituti dello stato sociale. A fronte di ciò Tito Boeri ha chiesto comprensione per il rinnovamento che egli sta cercando di imporre all’Inps, soprattutto sul versante della trasparenza, in sostanza per fare capire meglio agli italiani che le loro speranze di pensione vanno drasticamente ridotte. Ma non ha detto come fare per evitare questo drammatico fenomeno. Mentre il sottosegretario De Vincenti si è caricato il compito – peraltro non obbligato – di difendere a spada tratta, malgrado l’evidenza dei dati forniti dal Rapporto, tutti i provvedimenti del governo, dal job act fino alla controriforma della scuola, con tenacia e convinzione degne davvero di migliore causa.
Eppure chi anche solo sfoglia il corposo Rapporto non può non convenire che le politiche di austerità praticate in Europa tra il 2008 e il 2014 hanno accentuato tutti i fattori e le conseguenze della crisi economica, a differenza dei paesi come gli Usa e il Giappone che hanno scelto strade diverse. Ovvero “si conferma una correlazione negativa tra il grado di ‘rigorosità’ delle politiche di bilancio e la ripresa della crescita”. Anche la potente Germania ha segnato il passo, ma soprattutto “in Italia, dove si è accettato di praticare la politica di bilancio più rigorosa dopo la Germania in termini di calo del disavanzo, si è registrato il peggiore andamento della crescita”.
Come si sa nel periodo considerato il nostro paese ha perso circa il 25% del suo potenziale produttivo. E’ chiaro che una simile debacle non può essere cominciata solo nell’ultimo decennio, ma ha cause più lontane. Esse risalgono almeno agli anni ottanta, quando si cominciarono a rimettere in discussione le basi teoriche e pratiche dello sviluppo italiano, che nel quinquennio 1958-1962 assunse addirittura le proporzioni di un celebrato miracolo economico.
Gran parte di quella svolta, rivelatasi negativa, derivava dal prevalere delle dottrine neoliberiste che con Reagan e con la Thatcher cominciarono a invadere e conquistare il mondo proprio in quel periodo. Una delle convinzioni più profonde che caratterizzano quella teoria è che lo stato sociale europeo fosse la causa di un incremento di spesa insopportabile per le economie mature del vecchio continente. La sinistra non seppe fronteggiare quell’offensiva. Rimase volutamente intrappolata negli equivoci dell’efficienza e della razionalizzazione dei costi. Non vedendo un gigantesco processo che si snodava sotto i propri occhi. Quello di un progressivo e sistematico percorso di privatizzazione e di smantellamento dello stato sociale che ha contrapposto una costituzione economica materiale a quella formale sempre più tradita. Fintanto, e siamo ai giorni nostri, che quest’ultima viene modificata a colpi di maggioranza per farla combaciare con la realtà effettuale, fatta di diseguaglianze crescenti e apparentemente inarrestabili, come ha rilevato nel suo bell’intervento Laura Boldrini.
La privatizzazione dell’economia – ovvero il tramonto e la liquidazione delle imprese e delle banche pubbliche e delle partecipazioni statali – ha portato con sé l’invasione della logica di impresa nelle istituzioni del welfare. Fondi pensione privati, ospedali trasformati in aziende sanitarie, scuole parificate e private finanziate con denaro pubblico sono stati solo gli elementi più vistosi di un simile processo. Nel frattempo l’efficienza della pubblica amministrazione e delle forme di assistenza al cittadino non sono migliorate in nulla, come ci raccontano tutti gli osservatori internazionali, a cominciare dall’ultimo dossier dell’Ocse sul nostro paese.
Ma il welfare state non è solo un diritto conquistato lungo decenni di lotte sociali, politiche, sindacali e culturali, e quindi non dovrebbe dipendere dalla contingente capacità di spesa. Invece abbiamo subito la violenza sulla nostra Costituzione , con la introduzione nell’articolo 81- che una campagna di firme in corso cerca di cancellare – del divieto del deficit di bilancio.
In realtà le spese per lo stato sociale – al netto ovviamente della corruzione e della inefficienza (mali curabili, se circoscrivibili, anche se ciò richiede molta energia e determinazione politica) – sono produttive perché, rispondendo ai bisogni incomprimibili e crescenti della popolazione, mettono in moto un circolo economico, guidato dalla mano pubblica, che incrementa il Pil e anche quelle voci che quel rozzo indicatore ancora non contempla. Quella spesa è quindi un fattore di sviluppo sociale e anche di crescita economica non distruttiva dell’ambiente e della condizione materiale e civile delle persone. Se si vuole aggredire seriamente il tema del debito pubblico, bisogna, anche se sembra un paradosso, nell’immediato aumentarlo, in modo di favorire gli investimenti nel sociale, per incrementare il denominatore di quella frazione, cioè il Pil, e che al numeratore vede la spesa. E’ la chiave di volta per l’uscita da una crisi talmente lunga che alcuni temono persino possa trasformarsi in una stagnazione secolare.
di Alfonso Gianni
(pubblicato su “Il Garantista” del 12 giugno 2015)