Dopo la fiducia al suo governo di mercoledì scorso, a meno di imprevisti clamorosi, Enrico Letta dovrebbe restare in carica almeno fino ai primi mesi del 2015 e guidare lui il semestre di presidenza italiana in Europa nella seconda metà del 2014. La nostra presidenza cade in un momento cruciale per il futuro dell’Europa, perché sarà allora che si comincerà a discutere di come completare, con l’unione politica, il percorso europeo avviato negli anni Cinquanta da Monnet, Adenauer e De Gasperi. E l’iniziativa dovrà partire per forza di cose dalla collaborazione tra Germania e Italia, i due paesi che in passato e ancora oggi credono profondamente che il punto di arrivo dell’Europa debba essere uno stato federale europeo.
È un discorso che non riguarda solo i capi di governo nazionali o le burocrazie di Bruxelles, ma anche tutti noi cittadini europei, oltre che italiani. Come dice Napolitano nel suo ultimo lucido libro-intervista con Federico Rampini, La Via Maestra: «È indispensabile che i cittadini si sentano coinvolti nell’elaborazione di queste politiche». Insomma bisognerà finalmente, dopo anni in cui non si è parlato di altro che Berlusconi, ricominciare a discutere di politica, quella vera. E, oggi, la politica, quella vera appunto, non può che essere incentrata sul discorso europeo.
«Ecco perché c’è urgente bisogno di quella che ho chiamato una “controffensiva europea”. La causa europea può avere successo solo con un’ampia partecipazione di forze giovani, oggi distanti dalla politica in Italia e non solo in Italia. I giovani devono cercare ogni varco per far sentire e valere le loro ragioni, le loro esigenze; per esprimere idee rinnovatrici sulla politica. È (solo) attraverso il discorso sull’Europa che la politica può riguadagnare forza di attrazione, partecipazione e ruolo effettivo nelle nostre società». Sono sempre parole di Napolitano.
Letta ha tutte le carte in regola per poter porre al centro del dibattito i temi europei. Ma lo deve fare con grande sincerità. Ascoltando i politici in Parlamento e coloro che discutono nei talk show televisivi mi sembra che sfugga loro qualcosa di essenziale del rapporto che ci lega all’Europa. Sembrano convinti che ci sia ancora un importante spazio di manovra, soprattutto per quanto riguarda le politiche economiche e fiscali, all’interno di una presunta sovranità nazionale. Ma non è così, e Letta deve avere il coraggio d’essere chiaro su questo punto. Gli italiani non mi sembrano ancora essere coscienti che stanno per entrare in vigore quest’anno delle novità importanti nella governance economico-finanziaria dell’Europa. Non conosco quasi nessuno che sembri essere a conoscenza che nel 2013 entrano in vigore nuove regole che hanno lo strano nome di Pacco 2 e Pacco 6, meglio noti nella loro dizione inglese come Two Pack e Six pack. Cosa significa? Semplificando al massimo, l’Italia deve entro il 15 ottobre presentare alla Commissione di Bruxelles il progetto di bilancio per il 2014. Entro il 30 novembre, la Commissione dovrà decidere se promuovere il nostro bilancio oppure bocciarlo e chiedere delle modifiche. Il processo dovrà concludersi entro dicembre con il varo definitivo del bilancio nazionale. Con un debito pubblico rispetto al PIL che ha ad oggi superato il 130%, gli spazi di manovra non sono molti, anche se qualche segno di vitalità nella nostra economia, soprattutto nell’export, comincia a vedersi. La parte corrente della bilancia dei pagamenti registra un surplus di 9,2 miliardi nei dodici mesi terminati a luglio. Il risultato è dovuto non solo alla recessione che ha fatto diminuire le importazioni (il PIL scenderà di altri 2 punti quest’anno). Nonostante la forza dell’euro, le nostre esportazioni sono salite a 195 miliardi nel primo semestre del 2013, 10 in più dell’anno scorso. Certo, per rilanciare l’economia interna sarebbe necessaria una forte riduzione del cuneo fiscale. Ma per essere efficace questa manovra dovrebbe essere almeno del 5-6% del PIL. Stiamo parlando di cifre (80-100 miliardi) per noi inavvicinabili, se pensiamo che si scatena il finimondo su discussioni come un punto in più di IVA, cioè un miliardo in più o meno di entrate.
Quindi è indispensabile che cominciamo a discutere seriamente su quali saranno le nostre posizioni in Europa quando avremo la presidenza. L’Italia paga oggi circa 90 miliardi di interessi sul debito pubblico. Questo non è più sostenibile. Letta deve arrivare al semestre europeo con proposte convincenti per poter ridurre questo peso ormai insostenibile per la nostra economia. Bisogna liberare i giovani, come afferma Napolitano nel suo libro, dal peso di un indebitamento ormai intollerabile. Non ci sono solo le proposte sulla mutualizzazione di parte del debito e dell’emissione di Eurobond. Bisogna cominciare a discutere seriamente anche di altre soluzioni, come quella di una monetizzazione parziale del debito pubblico [MONETIZZAZIONE DEL DEBITO: L’UNICA VIA PRATICABILE PER L’ITALIA?]. Di questo stanno discutendo illustri economisti ed è urgente che di questa soluzione si cominci a parlare seriamente anche in Italia.
In ogni caso è assolutamente necessario in tempi brevi il passaggio a una politica fiscale di bilancio e a una politica economica e monetaria che sia gestita a livello sovranazionale. Nessun paese sovrano è oggi in grado di condurre isolatamente politiche anticicliche. Queste per forza di cose dovranno essere affidate a un Tesoro europeo. Ma per poter arrivare a questo bisogna perseguire con decisione la strada dell’unione politica, che trasformi l’Europa in una nuova entità. L’Italia deve lavorare a stretto contatto con la Germania, l’unico paese tra quelli fondatori che, insieme al nostro, non ha mai creato crisi, come ha spesso fatto la Francia, per non parlare del Regno Unito. La Germania e l’Italia sono gli unici due paesi che hanno sempre creduto nell’unione politica.
Nel suo libro Napolitano ricorda alcune parole della sua prima uscita pubblica, dopo l’elezione al Quirinale, che ebbe luogo a Ventotene il 21 maggio 2006 in occasione del ventesimo anniversario della morte di Altiero Spinelli: «Si tratta del lascito più ricco su cui possono contare, per formarsi moralmente e per operare guardando al futuro, le nostre generazioni più giovani». E poi aggiunge: «Lo penso ancora oggi, e sono convinto più che mai, constatando come da un indebolirsi, in larghi strati di cittadini ed elettori, della conoscenza e comprensione del progetto europeo consegua il diffondersi della sfiducia nella politica, nella democrazia e nell’avvenire comune».
Oggi sembra fantascienza pensare che un uomo solo, l’italiano Spinelli, fosse riuscito a far approvare dal Parlamento europeo una proposta di nuovo trattato di unione politica. Dapprima, Spinelli era riuscito a far votare dal Parlamento una mozione, il 14 febbraio 1983, poi recepita dalla Commissione per gli Affari Istituzionali, che aveva trasformato il contenuto della risoluzione in articoli per un nuovo trattato. Il 13 dicembre del 1983 la Commissione, con una convergenza di tutte le famiglie politiche allora presenti in Parlamento, approvò il trattato con trentuno voti a favore e due contrari.
È interessante riportare alcuni passi dell’intervento di Altiero Spinelli al Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984 per illustrare il progetto: «Nella nostra iniziativa, noi deriviamo la nostra legittimità dalla nostra qualità di rappresentanti eletti dai cittadini della Comunità, di responsabili più autentici della democrazia europea nascente […] Il nostro progetto fa della Commissione un vero esecutivo politico, mantiene un ruolo legislativo e di bilancio per il Consiglio dell’Unione, ma lo definisce e lo limita, dà al Parlamento un vero potere legislativo e di bilancio, che esso divide con il Consiglio dell’Unione». Angela Merkel negli stessi anni si occupava di chimica e fisica nella Germania dell’Est. Ma agli osservatori più attenti non è sfuggito che quello che la Merkel ha detto il 7 febbraio del 2012, in occasione del ventesimo anniversario di Maastricht, non è altro che la riproposizione del progetto Spinelli. Quest’ultimo era ben cosciente che gli affari di interesse comune potessero essere gestiti validamente solo da un potere veramente comune ed era molto scettico che una riforma potesse essere avviata con un’azione intergovernativa all’interno del Consiglio Europeo. E su questo fu un buon profeta: «D’altra parte, i governi e i parlamenti nazionali sono consapevoli della necessità di far avanzare la costruzione europea, e dunque dire sì o no a un progetto europeo. Ma se si mettono intorno a un tavolo come ministri nazionali o delegazioni parlamentari nazionali per redigere un testo, essi possono solo provocare i riflessi nazionali di ogni ministro o di ogni delegazione parlamentare e riaprire automaticamente la discussione sulle rivendicazioni nazionali necessariamente divergenti. Il metodo della trattativa diplomatica farebbe rapidamente riprendere il sopravvento dell’interesse nazionale e il progetto del Parlamento europeo verrebbe rapidamente ridotto a un documento di lavoro, per essere poi messo da parte». Per questo Spinelli voleva rivolgersi direttamente ai governi e ai parlamenti degli Stati membri per l’approvazione del trattato. «Vi si dice che, per l’entrata in vigore del trattato tra i paesi che l’avranno ratificato, non è necessaria l’unanimità degli Stati membri attuali. Spetterà agli Stati che avranno il trattato fissare la data e la procedura dell’entrata in vigore di questo testo e negoziare nuovi rapporti con gli Stati che non avranno aderito. Richiamo la vostra attenzione sul fatto che questo quorum implica che gli Stati aderenti siano per lo meno sei e sette in un’Europa a dodici».
Allora, come oggi, il paese che esita in questo progetto è la Francia. «Tra i Paesi che esitano, penso – e non sono solo a pensarlo – alla Francia, a causa dell’importanza probabilmente decisiva che il suo comportamento avrà per tutti gli altri Paesi della Comunità. Le esitazioni di molti nostri colleghi francesi in quest’Assemblea sono un segno evidente di esitazioni profonde tra i dirigenti del Paese […] Ci aspettiamo che il Governo francese – dico bene: il Governo francese, non il Consiglio Europeo – faccia proprio il progetto ed annunci che è pronto ad avviare la procedura di ratifica, non appena il minimo di Paesi previsto nel trattato per la sua entrata in vigore avranno assunto lo stesso impegno».
Il Bundestag tedesco votò, quasi all’unanimità, in favore della proposta Spinelli. Anche l’Italia e i paesi del Benelux ne erano entusiasti. Il 24 maggio persino il presidente francese François Mitterrand, davanti al Parlamento Europeo, si disse disponibile a discutere il draft di Altiero Spinelli. E comunque si mostrò disponibile alla revisione del Trattato di Roma . Gli inglesi, però, erano contrari. Per loro, un gentleman’s agreement all’interno del Consiglio Europeo per la creazione di un mercato unico sarebbe stato più che sufficiente. Naturalmente, gli inglesi erano totalmente contrari alla proposta di unione politica contenuta nella proposta Spinelli.
Nel primo semestre del 1985 la presidenza del Consiglio Europeo è italiana. Presidente del Consiglio Bettino Craxi. Ministro degli Esteri Giulio Andreotti. L’incontro decisivo per decidere se negoziare un nuovo trattato o meno fu quello del 28-29 giugno 1985 al Castello Sforzesco di Milano. Erano presenti Margaret Thatcher, Helmut Kohl, François Mitterrand e Jacques Delors, il nuovo presidente della Commissione, più gli altri sei componenti di allora. Il premier spagnolo e quello portoghese, non ancora dentro l’Europa, partecipavano come osservatori esterni. Il risultato del meeting era incerto. A favore di un nuovo trattato si erano espressi Olanda, Belgio, Irlanda e naturalmente l’Italia, da cui la proposta proveniva. Contrari erano il Regno Unito, la Danimarca e la Grecia. Ufficialmente la Germania e la Francia non si erano espressi. Ma, in verità, Parigi e Bonn avevano elaborato segretamente la proposta di un nuovo trattato, diverso, soprattutto per quanto riguarda l’unione politica, rispetto a quello di Spinelli. Solo Craxi, chairman del meeting, ne era al corrente.
Ma la strategia franco-tedesca di tenere il documento segreto fino al summit, dove sarebbe stato lanciato come base di proposta da Craxi, fallì miseramente. Pochi giorni prima, accusato violentemente dall’opposizione socialdemocratica di non fare abbastanza per l’Europa, Kohl era scivolato nel dibattito al Bundestag, rivelando l’esistenza del piano segreto. Craxi non aveva altra scelta che condannare l’accordo franco-francese. Così, quando l’incontro iniziò, la mattina del venerdì, nessuno poteva prevedere quale sarebbe stato l’esito. Ma Craxi e Andreotti si giocarono molto bene la partita. Con l’intenzione di far perdere le staffe alla signora Thatcher, Andreotti si lanciò in un lunghissimo panegirico sull’importanza del progetto europeo. Andò avanti fin quando la Thatcher sbottò: «La vuole smettere con questa rivoltante retorica per favore». L’arroganza e la maleducazione della Thatcher la misero subito in cattiva luce, anche se i giornali del giorno dopo interpretarono la prima parte del meeting come una vittoria della Thatcher, che si opponeva a un nuovo trattato.
Il giorno dopo, sabato 29 giugno, mentre la folla cominciava a riunirsi a Piazza del Duomo – centomila persone si sarebbero radunate davanti al Duomo per una dimostrazione a favore della proposta Spinelli con una banda militare che suonava l’Inno alla Gioia di Beethoven e con tutti i partiti italiani, con l’eccezione del Movimento Sociale Italiano, che avevano aderito alla dimostrazione – Kohl e Mitterrand facevano colazione faccia a faccia. I loro ministri avevano lavorato tutta la notte per produrre un documento che fu presentato a Craxi. Iniziava così: «L’Unione Europea ha inizio; gli Stati Membri concluderanno un trattato su quale forma l’Unione dovrà assumere». Il documento fu subito respinto. La Thatcher, non appena aveva udito la parola “Unione”, era andata su tutte le furie. L’incontro fu interrotto e quando riprese, dopo il pranzo di lavoro, sembrava che sia Mitterrand che Kohl si fossero arresi al pragmatico minimalismo degli inglesi.
Ma alla fine del pomeriggio, dopo un’ulteriore interruzione, Craxi prese tutti di sorpresa tirando fuori dal cappello un bianchissimo coniglio. Per la prima volta da quando si tenevano gli incontri del Consiglio Europeo, Craxi decise di mettere ai voti la proposta se convocare o meno una conferenza intergovernativa per rivedere il Trattato di Roma. Dopotutto non si trattava di approvare un nuovo trattato o i suoi contenuti, ma – così spiegò Craxi – di una semplice proposta sulle procedure, e quindi si poteva votare a maggioranza semplice. Dopo un minuto di silenzio si scatenò il finimondo. Il premier danese parlò di “stupro”. Papandreou di “colpo di Stato”. La Thatcher, infuriata, non poteva crederci. Era diventata peggio di un vulcano. A favore di Craxi si espressero subito il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, la Germania, l’Irlanda e, dopo qualche esitazione, anche Mitterrand. Contrari, il Regno Unito, la Danimarca e la Grecia. Alla fine si votò: sette a tre per la proposta di Craxi.
Mentre i fuochi d’artificio brillavano davanti al Castello Sforzesco e la Thatcher apriva la seconda bottiglia del suo favorito whisky, Bell’s, ci si cominciò a chiedere quali fossero le implicazioni di quel voto. Il 2-3 dicembre i capi di Stato, diventati dodici nel frattempo, raggiunsero un accordo per un nuovo trattato, “The Single European Act”. L’idea di unione politica di Altiero Spinelli era stata abbandonata, ma si era fatto un grande passo avanti nel processo di costruzione europea. Senza il “colpo di Stato” di Craxi non ci sarebbero stati né il Trattato di Maastricht nel 1992 né quello di Amsterdam nel 1997 né quello di Nizza nel 2001 né quello di Lisbona nel 2007.
È ovvio che oggi l’iniziativa per un nuovo trattato che conduca all’unione politica può essere preso solo dalla Germania, ma la strada istituzionale da seguire dovrebbe essere la stessa indicata trent’anni fa da Spinelli. Dovrebbe spettare al nuovo Parlamento europeo che sarà eletto il prossimo anno l’elaborazione di un nuovo trattato. Letta e il governo italiano hanno un compito difficile, ma non impossibile, per convincere la Merkel che questa è «la Via Maestra».
di Elido Fazi