Proviamo a mettere da parte qualunque perplessità sul quadro politico e chiediamoci quale sia la strada che il governo Renzi dovrebbe seguire per tirarci fuori dalla palude. Si tratta di una sfida ardua: l’Italia si colloca da oltre 20 anni su un sentiero declinante; dal 2008 a oggi il valore della produzione nazionale si è contratto di un decimo e la disoccupazione è raddoppiata; il timido rimbalzo congiunturale che si profila per il 2014 non sembra nemmeno in grado di arrestare la drammatica emorragia occupazionale. Urge una discontinuità rispetto alle manovre economiche degli ultimi anni: bisogna mettersi alle spalle luoghi comuni e vecchie politiche, e formulare una ricetta shock, concreta e attuabile nel breve periodo. Questa ricetta dovrebbe articolarsi in tre mosse essenziali.
La prima: discontinuità nel rapporto con l’Europa. L’Italia ha rispettato i vincoli europei più di ogni altro partner dell’Unione. I dati OCSE confermano che dal 1991 a oggi l’Italia detiene il record in Europa del minor numero di anni con bilancio primario negativo, seguita dalla Svezia. Insomma, abbiamo fatto i compiti che ci erano stati assegnati, ma le politiche di austerità hanno tradito tutte le promesse, anche per quel che riguarda il risanamento, visto che il debito pubblico ha continuato la sua corsa. La verità è che la politica dei tagli ha contribuito a congelare la domanda di beni di consumo e di beni di investimento delle imprese. E se la domanda si ferma non ha senso produrre e occupare. Come abbiamo più volte chiarito[1], una manovra che azzerasse l’avanzo primario (l’eccesso delle entrate sulle uscite pubbliche, interessi sul debito a parte), lasciando crescere il deficit, libererebbe risorse per oltre 35 miliardi di euro, dando così una spinta al Pil nel medio periodo di circa tre punti percentuali, con immediati effetti di crescita occupazionale, e ritorni positivi sugli stessi rapporti di finanza pubblica. È quindi indispensabile spiegare in Europa che noi andremo oltre il vincolo del deficit al 3% del Pil, almeno nel breve periodo, e che l’alternativa vera rischia di essere una nostra uscita dall’euro[2].
La seconda: superare la selva di forme contrattuali sul lavoro. Infatti, la flessibilità e soprattutto la moltiplicazione dissennata delle forme contrattuali (oltre 40, anche qui abbiamo stabilito dei record) non è servita ad accrescere la competitività delle imprese e non ha generato effetti positivi sul Pil e sull’occupazione. Si tratta di conclusioni ormai acclarate, cui giungono gli studi empirici di cui disponiamo, ormai confermate da organismi internazionali come l’OCSE, il FMI, l’ILO[3]. D’altra parte, il mercato del lavoro italiano è oggi ben più flessibile di quello tedesco (come dimostrano gli indicatori di protezione del lavoro dell’OCSE) ma in Germania la disoccupazione è al 5%. Non è con la fantasia contrattuale e la precarizzazione spinta che si crea lavoro. Al contrario, la stabilità contrattuale alimenta la domanda e favorisce gli investimenti. Per questo serve uno sforzo legislativo per rimettere al centro il contratto a tempo indeterminato, sia pure con un periodo di prova più lungo, tagliando numerose forme contrattuali (cominciando dal lavoro interinale e a progetto), escludendo anche quel pasticcio dei contratti a termine senza indicazione di causale, introdotti dalla Fornero.
La terza: sostenere le imprese mediante politiche industriali. Abbiamo perso anni a tessere le lodi del “capitalismo familiare”, del made in Italy e del “piccolo è bello”, e intanto le nostre imprese vengono decimate dalla concorrenza internazionale. Eppure, l’arretratezza del tessuto produttivo è ben nota: imprese quasi sempre piccole e piccolissime, modelli di governance antiquati (il proprietario-imprenditore), il ricorso massiccio a tecnologie tradizionali, l’assenza di investimenti in formazione e qualità del lavoro. In più, si tratta di imprese che pagano tasse elevate rispetto ai servizi pubblici erogati e al grado di infrastrutturazione del territorio. È tempo di riprendere le politiche industriali, utilizzando le risorse liberate con la manovra espansiva che azzera l’avanzo, arrestando lo spreco degli incentivi a pioggia (gravissimo nel Mezzogiorno), tagliando significativamente il cuneo fiscale e finanziando adeguatamente un nuovo sistema di incentivi non discrezionali che spinga le imprese a crescere e a investire in nuove tecnologie e qualità del lavoro[4]. Insomma, politiche industriali per favorire il salto tecnologico e dimensionale, che ci porti verso un modello di specializzazione produttiva consono a un Paese moderno e industrializzato.
Il governo Renzi saprà seguire questa strada? Nei mesi scorsi Renzi ha effettivamente avanzato critiche al vincolo del deficit; e poi il suo Jobs Act – che contiene riferimenti al contratto unico a tutele crescenti, alla riduzione delle forme contrattuali, ai piani industriali – potrebbe essere declinato nel senso qui indicato. Staremo a vedere. Certo è che se non si aggrediscono i nodi delle risorse, del lavoro e delle politiche industriali saremo destinati a restare nella palude.
*Una prima versione di questo articolo è apparsa su L’Unità il 16 febbraio 2014.
[1] Si rinvia a “Per non finire nel baratro”,
L’Unità, 31 maggio 2013 e a “Oltre il rigore. Investire l’avanzo primario nella crescita”, Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2013 .
[2] A riguardo rinvio al mio “Giusto superare il vincolo del 3%”, L’Unità, 4 gennaio 2014.
[3] Sul punto rinvio al mio “Deregolamentare per crescere? EPL, quota salari e occupazione”, Rivista giuridica del lavoro, 2013, n.3, pp. 487-502.
[4] Per alcune proposte sulle politiche industriali, con particolare riferimento al Mezzogiorno, rinvio al volume Qualità del lavoro e politiche per il Mezzogiorno. Per una nuova legislazione del lavoro in Campania, a cura di R. Realfonzo, Franco Angeli, Milano, 2008.
di Riccardo Realfonzo
da: Economia e Politica