di Sergio Farris
Nel vortice della liofilizzata informazione quotidiana, lo spread è generalmente associato a un giudizio oggettivo – quasi sacrale – dei mercati sul debito pubblico. In questi giorni, l’attenzione è puntata sulla manovra economico – finanziaria del Governo. Ma davvero dobbiamo credere che un modesto 2,4% di deficit incrementa di colpo – in scala esponenziale – il rischio di insolvenza del nostro paese? Il pregiudizio corrente si basa su una teoria semplice, e quindi, di immediata percezione: più il debito è alto, maggiore è il rischio di mancato rimborso.
Non è proprio così. Lo spread riflette il differenziale di rendimento fra due titoli di uguale scadenza sul mercato secondario emessi da due enti (stati) diversi. Ma quando lo stato – tramite le sue aste – effettua le emissioni dei bond, lo fa sul mercato primario. L’aspetto rilevante è, dunque, che l’aumento dello spread non comporta costi ulteriori del debito pubblico già collocato (i famigerati 2300 miliardi). Il problema può semmai riguardare il rinnovo dei titoli che, a varie scadenze (per l’Italia ben distribuite in là negli anni) vanno rifinanziati. E ciò perchè i due mercati “comunicano”, nel senso che se un dato momento i titoli scambiati giornalmente sul secondario offrono un rendimento elevato, il Tesoro può incontrare difficoltà nel piazzamento dei nuovi a un tasso modico. Si tratta tuttavia, com’è agevole intuire – a meno di trovarsi in una congiuntura eccezionale – di un inconveniente tutto sommato contenuto e gestibile.
I continui allarmi che sentiamo lanciare sono esagerati. Essi non sono giustificati dai “fondamentali” del paese, che conta su un buon avanzo commerciale – e perciò accumula riserve – e su un elevatissimo risparmio. L’Italia non necessita di prestiti esteri, come l’Argentina o la Grecia.
Resta un punto: abbiamo visto che i titoli governativi, anzichè essere conservati fino alla scadenza, possono essere ceduti prima. Può trattarsi di normali transazioni o, più spesso, di operazioni speculative a brevissimo termine. In questo caso ci troviamo dinanzi a un mercato in cui – a fine di mero lucro – dominano le aspettative circa le variazioni di prezzo dei titoli. Quando il Commissario della Ue, Moscovicì, preannuncia il rigetto della manovra italiana sul deficit, asseconda la tendenza speculativa. Gli operatori a ciò dediti non aspettano altro che notizie in grado di generare aspettative del tipo anzidetto. Nella fattispecie, la bocciatura della manovra è data dall’applicazione, da parte della Commissione, di un criterio del tutto arbitrario di calcolo del deficit strutturale (se prendesse in considerazione quello nominale, riconoscerebbe che l’Italia si situa ben al di sotto del famoso 3%, stabilito nel 1992 a Maastricht).
Secondo l’astruso summenzionato criterio, l’Italia – che registra tuttora un tasso di disoccupazione ufficiale oltre il 10%, senza contare la galassia del precariato involontario – avrebbe ormai perseguito un livello di Pil prossimo a quello potenziale, per cui, in previsione del 2019, sarebbe costretta a ridurre il disavanzo strutturale dello 0,6% in rapporto al Pil. Il deficit al 2,4% implica, invece, un’espansione pari allo 0,8% del deficit strutturale, da cui la terrificante “significativa deviazione” ben sottolineata da Moscovicì e immediatamente recepita dai mercati, con l’innalzamento dello spread.
Così, la speculazione può condizionare la politica di uno stato e il benessere dei cittadini. Tuttavia, non si tratta di una “legge naturale”. La regolazione del settore finanziario spetta alla politica, prima di tutto tramite il disegno dei compiti (e della governance) della banca centrale. Se la politica non interviene in merito, occorre chiedersi (e chiedere ai responsabili) il perchè. Certo, è anche vero che un calo del valore dei titoli di stato incide sull’attivo patrimoniale delle banche che li detengono e può determinare un deterioramento dei prezzi azionari in Borsa. Ma, ancora, ci troviamo nell’ambito degli interessi del mondo finanziario, che quasi mai coincidono con quelli della collettività. Cominciamo a prenderne coscienza. Dopo decenni di primazia delle rendite finanziarie, sarebbe tempo che la centralità tornasse ai redditi da lavoro.