di Luigi Pandolfi
FCA (Fiat Chrysler Automobiles) non è più la vecchia e cara Fiat di una volta, ma rimane la fabbrica simbolo del capitalismo italiano. Sono lontani i tempi (ancora all’inizio degli anni ’80) in cui, nella sola Torino, i dipendenti «diretti» erano oltre 130 mila: per oltre 30 stabilimenti sparsi per la Penisola, oggi, il numero di addetti è di poco superiore alle 50 mila unità (87 mila in tutto il mondo). La nuova organizzazione del lavoro che si è andata implementando nelle diverse unità produttive, tuttavia, assume un valore paradigmatico, segna il definitivo passaggio, anche in Italia, ad un’altra fase dello sfruttamento del lavoro nella grande industria manifatturiera.
Beninteso, il nuovo modello produttivo adottato tra il 2005 e il 2009 negli stabilimenti FCA e CNHI (Case New Holland Industrial) non è un esperimento endogeno, né esclusivo, bensì il risultato un lungo processo di ristrutturazione dei rapporti di lavoro in fabbrica, che, nell’arco di un trentennio, ha mandato in soffitta, globalmente, la vecchia organizzazione fordista-taylorista del lavoro.
Si è trattato, per certi versi, di una rivoluzione culturale. D’altro canto, non è un caso che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, il dibattito sulle nuove frontiere della produzione industriale era spesso caratterizzato da sconfinamenti nella filosofia, per dimostrare che la fabbrica fordista era, in fondo, figlia di una concezione meccanicistica e «riduzionistica» della vita (eredità del pensiero di Newton e Cartesio) e per invocare la riscoperta di una visione «organica» del mondo, peraltro egemone fino al Cinque-Seicento, applicabile anche ai rapporti di produzione.
La «fabbrica integrata», insomma, non solo come risposta alla crisi del capitalismo, ma anche come espressione di una nuova (o antica) interpretazione «olistica» delle relazioni umane, nonché tra l’uomo e la natura (ecologia). Un salto di qualità, dal lavoro spersonalizzato, seriale ed alienato, tipico della catena di montaggio di epoca fordista, al coinvolgimento del lavoratore nei processi decisionali, valorizzando l’elemento della flessibilità e quello della «creatività». Almeno in teoria, in astratto.
Alla Fiat, i primi esperimenti di lean management (gestione «snella» ed «integrata» della fabbrica ispirata al Toyota Production System) di una certa rilevanza risalgono ai primi anni Novanta e riguardano lo stabilimento di Melfi, in Basilicata. La svolta, tuttavia, si ha soltanto dopo l’arrivo di Marchionne, nel 2004. Al dimensionamento ed alla chiusura di alcuni impianti, alla fusione con Chrysler Group, si accompagna l’implementazione di un nuovo modello produttivo: il World Class Manufacturing (WCM), nella versione giapponese elaborata da Hajime Yamashina.
L’espressione, originariamente coniata dall’ingegnere americano Richard Schonberger, indica una modalità efficientista e «collaborativa» di conduzione dell’azienda e di organizzazione del processo produttivo, che affonda le sue radici nel Total Quality Management giapponese («Qualità totale», la traduzione italiana), paradigma gestionale adottato negli stabilimenti Toyota già a partire dagli anni Cinquanta, da cui derivano anche i «sistemi di gestione» ISO (International Organization for Standardization).
L’idea che sta alla base di questo modello, che va oltre l’esperienza della «Fabbrica integrata Fiat» degli anni Novanta, è la seguente: tutta l’organizzazione, «organicamente» (si potrebbe dire anche «totalitariamente») e mediante un insieme di pratiche organizzative, tecniche e gestionali condivise (pillar), mira al conseguimento della massima efficienza (eccellenza), per rispondere alle sfide della competitività su scala globale. Razionalizzazione del tempo e degli spazi, lotta agli sprechi, eliminazione delle perdite e riduzione dei costi, snellimento delle procedure, «miglioramento continuo», responsabilità e collaborazione, per aumentare la produttività del lavoro e migliorare la qualità del prodotto.
Ma come cambia il lavoro degli operai dentro questo nuovo schema? Si è molto insistito in questi anni – dal lato dell’impresa – sulla riduzione della fatica fisica, grazie alle nuove tecnologie (robotica) ed alla risoluzione dei principali problemi ergonomici connessi alla postazione lavorativa. Un traguardo, al quale si sarebbe accompagnato un ampliamento delle funzioni cognitivo-propositive del lavoro: nella fabbrica fordista l’operaio poteva lavorare e (nei limiti del possibile) pensare ad altro, ora è coinvolto «totalmente» nella dimensione della fabbrica, dovendo partecipare con spirito proattivo, insieme alla proprietà ed al management, alla missione del «miglioramento continuo», del successo, della propria unità produttiva e, di conseguenza, dell’intero Gruppo. Insomma, al lavoratore non si chiede soltanto responsabilità e abnegazione nell’esecuzione dei suoi compiti, ma senso di appartenenza e «creatività» nella risoluzione dei problemi che possono affiorare nel processo produttivo, nell’ottica, come abbiamo visto, della riduzione degli sprechi, dei costi, dei tempi.
Per il raggiungimento di questi obiettivi è incentivata anche la competizione tra lavoratori e tra stabilimenti. Sono previsti punteggi per le performances delle singole unità produttive e premi per i lavoratori che si distinguono per il loro protagonismo, per le loro proposte di miglioramento, per la loro capacità di problem solving.
Valorizzazione del lavoro operaio o nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro? In linea generale, è perfino banale giungere alla conclusione che una «comunità paritaria», riferita alla fabbrica, non potrà mai darsi finché esisterà la divisione (e la contrapposizione) tra capitale e lavoro, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi vende la propria manodopera (con meno tutele e garanzie che in passato). Come non si potrà parlare di «fine del lavoro alienato» fintantoché il lavoratore continuerà a produrre beni che non gli appartengono. In queste condizioni, piuttosto, più che di «ampliamento dei contenuti del lavoro» (rimane comunque la serialità, la monotonia delle mansioni), come spesso si dice e si scrive a proposito della realtà in esame, sarebbe il caso di parlare di aumento del «lavoro non pagato», per restare alle categorie marxiane.
Andando più nel concreto, non si può non tener conto delle ricadute psico-fisiche di questa nuova organizzazione del lavoro e del rapporto tra lavoro e salario. Semplificando molto, si può dire che l’ossessione per la riduzione dei tempi morti, definiti anche «attività che non aggiungono valore», ha reso il tempo di lavoro più saturo, privo di quei momenti che, pur rientrando nell’attività lavorativa, costituivano una sorta di stacco, di disimpegno (anche mentale), per il lavoratore. Si pensi a qualche passo in più per raggiungere una macchina, un carrello trasportatore, per prendere un componente o un attrezzo, per raggiungere un’altra zona dello stabilimento. In questo quadro, gli stessi miglioramenti ergonomici (spazi più compatti, attrezzi più a portata di mano, ecc.), se da un lato contribuiscono ridurre la fatica fisica, dall’altro finiscono per influire negativamente sulla salute psichica (aumento dello stress), come dimostrano i risultati di alcune recenti inchieste condotte tra i lavoratori.
Più lavoro per la stessa unità di tempo, busta paga più leggera rispetto a quella degli altri metalmeccanici cui si applica il contratto nazionale, una parte dell’aumento di salario legata alla produttività del proprio stabilimento ed ai punteggi conseguiti nell’implementazione del World Class Manufacturing (WCM). Recentemente, è stato erogato, a tutti i dipendenti FCA in Italia, il cosiddetto «bonus retributivo», la parte del salario legata all’efficienza produttiva dei singoli stabilimenti. Si va dal 7,2% di punteggio a Pomigliano e Verrone (Powertrain) all’1,8% di Carmagnola (Teksid Aluminum). Ogni punto percentuale circa 200 euro, un esempio di come funziona il sistema premiale/punitivo del WCM.
Una corsa continua, senza sosta, in nome della «competitività totale», tra lavoratori, tra stabilimenti, tra concorrenti, tra aree geografiche e Paesi, dove la considerazione delle idee e delle proposte degli operai è poco più che un orpello. Se un consiglio, un’idea, data da un operaio (ci sono delle cassettine dove poter imbucare il foglietto) è considerata valida, il premio consiste in nient’altro che in un buono per la spesa. Come in uno scenario orwelliano, invece, i ritardi, le assenze, i risultati in termini di qualità e produttività, sono costantemente riportati su un tabellone a vista, perché fungano da stimolo, da termini di confronto ai fini del «miglioramento continuo». La chiamano trasparenza, è di fatto una forma più sofisticata di controllo e di pressione sul lavoro.
Sul piano politico, il «senso di contare di più» dei lavoratori, l’immedesimazione con la mission della propria impresa, la gara per l’incremento del proprio salario, la «responsabilizzazione del lavoratore», hanno prodotto, sostanzialmente, un annichilimento del conflitto. E’ venuta meno l’identificazione del lavoratore con un progetto di cambiamento complessivo della società (un tempo avremmo parlato di «classe generale»), le stesse rivendicazioni assumono sempre più un carattere corporativo. Uno degli obiettivi della controffensiva del capitale, invero. Poco più di trent’anni fa, Michel J. Piore e Charles F. Sabel, in un saggio sulle «due vie dello sviluppo industriale», scrivevano che la produzione di massa è la «meno appetibile nel sistema del controllo del lavoro esecutivo, perché dà sempre origine a dei rapporti antagonistici e gerarchici tra lavoratori e responsabili, tra manodopera e capitale». La loro proposta era quella di sostituire la produzione in serie standardizzata («che finisce per degradare le persone») con una forma di «specializzazione flessibile», recuperando la dimensione dei vecchi laboratori artigianali, benché su scala più ampia. A suo modo, l’ultima frontiera della lean production, la nuova versione del WCM, risponde alla stessa esigenza (efficienza e riduzione del conflitto), integrando passivamente i lavoratori nelle ragioni dell’impresa.